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venerdì 29 marzo 2013

Come Matteo e Luca, travisando Marco, iniziano la divinizzazione di Gesù. 26


Un modo assolutamente semplicistico di delineare il processo di divinizzazione di Gesù, come possiamo dedurre dai Vangeli, dimostra che il più antico Evangelista descrive Gesù come un uomo, i Vangeli recenziori di Matteo e Luca delineano in singoli passi una sorta di Gesù semidio, il Vangelo di Giovanni e ancor più i Vangeli Apocrifi successivi raffigurano Gesù come un dio, che solo esteriormente appare come un uomo.

Tale evoluzione è piuttosto grossolana, perchè anche nel Vangelo di Marco la figura storica è di Gesù viene parecchio enfatizzata dalla tradizione orale
e dagli interventi dell’autore, e Gesù talvolta viene presentato non semplicemente come profeta, bensì come il misterioso Figlio di Dio. Ma nell’antichità molti personaggi sono apparsi sulla scena come dèi o figli di dio e venerati anche come tali come è attestato anche per figure storiche come Pitagora, Platone, Augusto, Apollonio di Tiana e altri.

Ma mentre gli altri evangelisti ricorrono spesso all'espressione «Figlio di Dio», Marco se ne serve piuttosto raramente, sei volte in tutto: due come una voce proveniente dal cielo, altre due come voce degli spiriti maligni (Mc. 1, 11; 9, 7; 3, 11; 5, 7) e infine in una lezione del primo versetto del Vangelo che suona assolutamen te falsa: "Inizio del Vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio" (Mc. 1,1), e nella confessione del centurione sotto la croce: «In verità, quest’uomo è stato il figlio di Dio» (Mc. 15, 39). Una frase della cui autenticità dubitano tutti i teologi critici, anche per il fatto che la conversione del boia era un motivo letterario diffuso, che trova riscontri anche nelle cronache sui martiri ebrei.

In ogni caso, pur prescindendo da queste definizioni nel complesso piuttosto
dubbie, in Marco, Gesù - chiamato undici volte «Maestro» e tre volte «Rabbi» - non viene mai concepito affatto preesistente e identico a Dio, come accadrà nel dogma elaborato successivamente.


martedì 26 marzo 2013

I "logia", collezione di detti di Gesù. 25


Matteo e Luca non utilizzano solo l’opera di Marco, ma anche una raccolta di detti di Gesù, che gli studiosi indicano con la sigla Qu (Quelle) e che pare
relativamente attendibile ma che non ci è nota. Si tratta, probabilmente dei "logia", cioè dell'apologia delle sentenze del Signore, cui accenna Papia, vescovo di Gerapoli (Asia Minore), vissuto nella prima metà del II secolo.

Questi detti possiamo evincerli approssimativamente dai passi comuni a Matteo e a Luca non presenti in Marco (circa 235 versetti). Ma a giudizio della teologia critica, neanche questa raccolta così attendibile, ma purtroppo solo ipotetica, di frasi di Gesù, composta, secondo la maggior parte degli studiosi, ancor prima del Vangelo più antico, intorno al 60/70, venne redatta con intenti ispirati a un autentico interesse storiografico. Non sono mancati coloro che hanno anche contestato l’esistenza di questa fonte scritta.

Infine, Matteo e Luca presentano ciascuno talvolta un materiale narrativo specifico, esclusivo di ognuno di essi: in Matteo su 1068 versetti esso ne comprende circa 330, in Luca su 1149 versetti circa 550. La provenienza di questo materiale aggiunto rimane sconosciuta agli studiosi: ciò può basarsi sulla tradizione, ma potrebbe anche essere un’invenzione propria degli Evangelisti stessi.

È questa la soluzione, elaborata da generazioni di studiosi e riconosciuta quasi universalmente, del problema estremamente complesso della Sinossi. Siamo costretti a rinunciare all’analisi di altre ipotesi meno convincenti e fondate.

In seguito alla dipendenza inequivocabilmente dimostrata dei Vangeli recenziori, di quelle edizioni accresciute e corrette, come dice il teologo Lietzmann (Geschichte der alten Kirche, 2, 61), è possibile, in ogni caso, stabilire esattamente le modifiche, le aggiunte, le omissioni, i ritocchi subiti dal testo di Marco ad opera di Matteo e di Luca. Non sarà difficile mostrare che tali correzioni non dipendono solo dal miglioramento dello stile e della grammatica, coi quali Marco aveva il suo bel daffare, ma da precise scelte interpretative.


Papia di Gerapoli


venerdì 22 marzo 2013

Teoria delle due fonti 24


La teoria della duplicità delle fonti [Zwei-Quellen-Theorie], elaborata per circa
un secolo dalla scienza specialistica, oggi viene pressoché universalmente riconosciuta e accreditata (naturalmente, non da parte dei cattolici). 

Sulla scorta di tale teoria Marco fu la fonte di Matteo, cui la Chiesa cattolica attribuisce la priorità cronologica, e di Luca. Il Vangelo di Matteo, composto da 1068 versetti, ne attinse circa 620 dal Vangelo di Marco, composto a sua volta da 661 versetti, e il Vangelo di Luca di 1149 versetti, ne prese da Marco circa 350.

Le concordanze dei tre Vangeli derivano, dunque, dalla comune dipendenza di Matteo e di Luca da Marco. Essi possiedono la medesima successione di eventi e numerose espressioni suonano pressoché identiche: si tratta di un’affinità, che spesso riguarda anche i dettagli più insignificanti.

E che ciò non sia il risultato d’un’ispirazione divina dimostrano parecchie divergenze e gravissime contraddizioni concrete. Limitiamoci, per ora, ad accennarne alcune. Le narrazioni concernenti la nascita di Gesù sono inconciliabili in Matteo e in Luca. In Matteo il domicilio della famiglia di Gesù è Betlemme, in Luca Nazareth; il racconto della fuga in Egitto e la visita dei Magi d’Oriente fatto da Matteo sono totalmente ignorati da quello di Luca; gli alberi genealogici di Gesù si contraddicono grossolanamente. Anche nelle descrizioni della sua attività pubblica riscontriamo differenze a ogni passo, come sono costretti ad ammettere anche teologi cattolici.

S.Marco evangelista


martedì 19 marzo 2013

Come operò il piu antico Evangelista? 23


Sembra che il primo a intraprendere la raccolta organica delle narrazioni intorno a Gesù, precedentemente isolate e frammentarie, sia stato l’autore del Vangelo di Marco. Resta sub iudice il problema se abbia lavorato su un ciclo più antico di racconti, il cosiddetto Ur-Markus, come ipotizzano alcuni studiosi. In ogni caso Marco, o chiunque si celi dietro questo nome, è il primo degli Evangelisti a noi noti.

Ma la sua priorità non sempre fu riconosciuta. A partire da Agostino (De consensu Evangelistarum 1, 2) la Chiesa considerò il Vangelo di Marco un semplice estratto del Vangelo di Matteo, ritenuto più antico, e tale opinione errata dominò per più di 1500 anni. Ma per la prima volta nel 1835 il filologo Karl Lachmann sostenne la priorità di Marco e la sua utilizzazione da parte di Luca e di Matteo, e tre anni dopo il filosofo Christian Hermann Weille e il teologo Christian Gottlieb Wilke, indipendentemente l’uno dall’altro, ne dimostrarono la fondatezza.

Dunque, il processo vero e proprio di elaborazione letteraria nel Cristianesimo ebbe inizio con Marco, ma il suo Vangelo non venne trascritto d’un tratto, bensì fu collazionato sulla base degli aneddoti diffusi sulla vita di Gesù. Tuttavia, questo scrittore non si limitò a raccogliere e ordinare il materiale come lo trovò, ma creò il quadro globale della storia evangelica. Infatti era per lo più ignorato in quale circostanza potesse essere stato pronunciato un certo sermone del Signore, perché il quando e il dove interessavano ben poco. E così Marco raggruppò secondo un criterio personale il materiale narrativo a disposizione, rielaborandolo e completandolo, e diede vita in tal modo a una topografia apparentemente sicura e a un racconto cronologicamente ordinato.

Già in Marco, però, è singolare il fatto che, per dirla con uno dei più eminenti studiosi moderni della Bibbia, il teologo Martin Dibelius, manchi «qualsiasi traccia di ricordo personale». I primissimi resoconti cristiani non hanno quindi conservato alcun materiale biografico degno di tale nome. Se adesso ci domandiamo quale sia stato il rapporto del Vangelo di Marco con quelli di Matteo e di Luca, ci imbattiamo nella cosiddetta Teoria delle due fonti, della quale si parlerà nel prossimo post.

Karl Lachmann


venerdì 15 marzo 2013

Quali furono i presupposti dei Vangeli? 22


Pochi credenti sanno che i Vangeli furono tramandati anonimi e solo in un secondo momento la Chiesa attribuì loro i nomi degli autori. Altro fatto di primaria importanza: all’inizio della tradizione su Gesù si trova non la scrittura, ma l’oralità, non i Vangeli, bensì una decennale tradizione orale. Dunque è indubbio che i Vangeli non ci trasmettono la vera dottrina di Gesù ma più semplicemente informazioni che la concernono.

Secondo un punto di vista, accolto universalmente dagli studiosi, la cristianità palestinese più antica non trascrisse nemmeno una parola di Gesù per cui la persona storica, il «Cristo secondo la carne» , come testimonia anche Paolo (2 Cor. 5,16), non attirò affatto il loro interesse. L'unico vero interesse era l'attesa spasmodica del ritorno del Signore in carne ed ossa dalle nuvole.

In principio mancò addirittura anche una storia orale coerente dell’opera di Gesù. È presumibile che in un primo momento, dopo la crocifissione, circolassero singoli frammenti, piccole unità narrative, parabole, massime o gruppi di massime, storie isolate, che in seguito vennero ricomposte e accorpate come in un mosaico. Ciò è dimostrato dalla moderna critica storico-formale dei Vangeli, che, ad esempio non attribuisce a Gesù i «discorsi» evangelici, della Montagna, della Missione degli Apostoli e così via.

Gli Evangelisti li hanno collazionati, attingendo al patrimonio di massime più antico composto da frammenti d’ogni sorta Delle massime del Discorso della montagna, ad esempio, non si sa né a chi fossero state originariamente indirizzate, né in quale occasione fossero state pronunciate. Fu Matteo a metterle per la prima volta insieme nella forma a noi tramandata (Mt. 5, 3-7, 27).

Dei 107 versetti che compongono in Matteo il Discorso della montagna, Luca, che non ha il minimo sentore della sua esistenza, riporta 27 versetti nel capitolo 6, 12 nell’11, 14 nel 12, 3 nel 13, 1 nel 14, 3 nel 16; infine 47 versetti sono del tutto assenti. Il Discorso della montagna manca completamente sia in Marco che in Giovanni. Il patrimonio delle tradizioni alla base dei Vangeli non venne tramandato inalterato nei decenni intercorsi fra la morte di Gesù e la redazione del Vangelo più antico, perché nel frattempo la memoria di Gesù, com’é naturale, si trasformò in leggenda popolare determinando certe esagerazioni e una più ampia esaltazione della sua figura.

Un’azione riplasmatrice inevitabile per gli uomini di quell’epoca, caratterizzata dalla superstizione e da una religiosità esaltata, e ancor più per primi cristiani che, provenienti dagli strati più bassi della popolazione, erano assolutamente ingenui e privi di spirito critico. Concludendo: gli Evangelisti non descrissero Gesù quale fu nella realtà, ma, quale i bisogni dei fedeli desideravano che fosse.

Il discorso della montagna


martedì 12 marzo 2013

L'ipotesi di Robert Lindsey 21


Studi sulla derivazione semitica dei Vangeli e la questione sinottica sono stati
condotti anche da Robert Lindsey e dal suo staff della Jerusalem School of Synoptic Research. Lindsey ha evidenziato molti semitismi in tutti i Vangeli
canonici, ma ciò sarebbe evidente soprattutto in ampie porzioni del Vangelo di Luca che egli considera di fatto il più semitizzante di tutti. Lindsey – come
Carmignac – giunse alla conclusione che i testi in greco erano una traduzione letterale di testi preesistenti scritti in ebraico piuttosto che aramaico.

Secondo Lindsey nessuno scrittore greco ha mai scritto deliberatamente un testo nuovo in greco preoccupandosi di mantenere la struttura e alcune frasi della lingua ebraica mentre ci furono degli ebrei che a partire da due secoli prima di Gesù si preoccuparono di tradurre l’Antico Testamento dall’ebraico al greco (ottenendo così la Bibbia dei LXX) mantenendo lo stesso ordine della grammatica ebraica nella traduzione.

Una operazione analoga, secondo Lindsey, sarebbe stata fatta nel I secolo o all’inizio del II secolo con il Nuovo Testamento. Le tesi di Lindsey sono state sostenute anche da David Flusser (1917-2000), professore di Religione comparata all’Università Ebraica di Gerusalemme e da Shamuel Safrai (1919-2003) dell’Università Ebraica di Gerusalemme. Lindsey e Flusser hanno fondato nel 1985 la Jerusalem School of Synoptic Research un consorzio di studiosi cristiani ed ebrei che si occupa dello studio dei Vangeli (soprattutto i tre sinottici) e del Nuovo Testamento in generale nel contesto della lingua e della cultura ebraica ai tempi di Gesù.

Anche Claude Tresmontant, filosofo ed epistemologo francese, professore di filosofia della scienza e di filosofia medievale alla Sorbona nonché grosso esperto di ebraico antico (ha lavorato per anni a un dizionario ebraico-greco antico) si è occupato dello studio del sostrato semitico nei Vangeli. Nel 1983 ha pubblicato in Francia il libro Il Cristo ebreo, lingua ed età dei Vangeli che riassume – nella sostanza – posizioni del tutto analoghe a quelle di Carmignac e Lindsey.

Robert Lindsey


venerdì 8 marzo 2013

Come spiegare la derivazione dei testi greci del NT dall'ebraico? 20


Le possibili spiegazioni possono essere le seguenti:

I) Il testo greco è stato scritto in greco imitando ad arte lo stile della Bibbia
greca dei LXX, ovvero si è cercato di dare un’impronta semitica al testo forse
per renderlo più credibile ed autentico. Questa tesi venne subito scartata da
J. Carmignac (La naissance des évangiles synoptiques, Paris, de Guibert. O.E.I.L., 1984, pag. 10) perché la natura delle connessioni con l’ebraico era troppo profonda, radicata e in alcuni casi “nascosta” per essere considerata una semplice imitazione del greco della Septuaginta.

Nei Vangeli esistono semitismi, giochi di parole, allitterazioni che in greco non sono affatto evidenti, ma diventano chiari traducendo il testo in ebraico e quindi non avrebbe avuto senso introdurli perché un greco non li avrebbe mai capiti. Non si tratta quindi di un semplice tentativo di imitazione dello stile della Bibbia dei LXX.

2)Chi ha scritto il testo in greco era effettivamente un ebreo che non conosceva bene il greco e quindi il testo risultante era affetto da molti semitismi e costruito più sulla grammatica e il modo di scrivere e pensare ebraico che non quello greco. Carmignac scartò anche questa seconda ipotesi perché il testo greco, in realtà, non sembra affatto provenire da uno scrittore avente scarse conoscenze di greco e inoltre nel Nuovo Testamento esistono anche frasi in ottimo greco. L’anomalia sta nel fatto che a volte queste frasi in un greco eccellente si affiancano a frasi che in greco non hanno alcun significato. Inoltre esistono giochi di parole e allitterazioni che hanno senso solo nella traslazione ebraica ma perdono significato nel testo greco.

3) Infine, resta la spiegazione per la quale propende Carmignac: il testo greco è una traduzione letterale di un altro testo scritto in ebraico. Il traduttore è sì un buon conoscitore della lingua greca e ne dà anche prova nel testo, ma traduce parola per parola nella maniera più letterale possibile un testo originariamente scritto in ebraico, lingua che ha costrutti molto diversi dal greco. Ne risulta così una versione ibrida, che si discosta in molti tratti dal classico greco koinè in voga nel I secolo dopo Cristo.
Carmignac, dopo aver tradotto dal greco all’ebraico il Vangelo di Marco ed essere giunto alle conclusioni di cui sopra, studiò a fondo anche gli altri due sinottici – in particolare i passi paralleli – giungendo alle stesse conclusioni anche per quei testi: tutti i sinottici e non solo Marco hanno, secondo il parere di Carmignac, una forte affinità con l’ebraico antico e sembrano proprio essere traduzioni alquanto fedeli dal greco all’ebraico, almeno in molti passi, oppure derivare da documenti scritti in ebraico.

Altri studiosi – prima e dopo Carmignac – hanno affrontato questa problematica e scoperto che anche il Vangelo di Giovanni presenta non pochi semitismi e modi di dire tipici della lingua ebraica antica, trasposti fedelmente in greco. Per il resto del Nuovo Testamento probabilmente non si possono fare conclusioni generali, si tratta di un insieme di scritti da esaminare approfonditamente ad uno ad uno.

Questo ovviamente non è vero per tutti i Vangeli o NT dall’inizio alla fine. Esistono stralci, discorsi, capitoli alquanto semitizzanti che fanno pensare che il materiale utilizzato per la stesura di quei testi fosse certamente semitico. Come abbiamo osservato, tuttavia, queste tesi restavano e restano minoritarie in seno alla comunità scientifica internazionale. Sono considerati studi di frontiera.

martedì 5 marzo 2013

L'ipotesi Carmagnac


Jean Carmignac, uno dei massimi conoscitori mondiali della lingua ebraica
ed aramaica antica, avendo maturato una grande esperienza sui testi di Qumran, nel 1963 pensò di eseguire una traduzione del Vangelo di Marco dal greco all’ebraico e rimase profondamente colpito dalla relativa facilità di questa operazione. All’inizio del suo libro “La naissance des évangiles synoptiques” uscito per la prima volta in Francia nel 1984 e pubblicato anche in Italia con il titolo “La nascita dei Vangeli sinottici” dalle Edizioni San Paolo nel 1986.

Carmignac descrive così il suo tentativo: “Immaginavo che questa traduzione sarebbe stata molto difficile a causa delle considerevoli differenze fra il modo di pensare semitico e quello greco, ma rimasi invece assolutamente meravigliato nello scoprire che questa traduzione si rivelò, al contrario, estremamente facile. 

Attorno alla metà di Aprile del 1963, dopo un solo giorno di lavoro, mi convinsi che il testo greco del Vangelo di Marco non poteva essere stato scritto direttamente in questa lingua ma era in realtà una traduzione in lingua greca di un testo scritto originariamente in ebraico. L’enorme difficoltà che avevo supposto di incontrare era già stata in realtà risolta dal traduttore dall’ebraico al greco, che aveva traslato parola per parola ed aveva persino conservato in greco l’ordine delle parole preferito dalla grammatica ebraica.”

Carmignac, sorpreso dalla sua scoperta, trovò che anche altri studiosi – in modo indipendente rispetto al suo lavoro e in epoche diverse – avevano compiuto nel passato un'operazione del genere ed erano giunti alle stesse conclusioni: il testo greco derivava da un testo ebraico, tradotto molto fedelmente. Si posero subito alcuni problemi. Come giustificare questa forte dipendenza del testo greco dall’ebraico? Cercherò di dare una risposta nel prossimo post.

Jean Carmagnac


venerdì 1 marzo 2013

Il sostrato semitico del Nuovo Testamento 18


Della questione si sono occupati in particolare nei tempi più recenti Jean Carmignac, Claude Tresmontant, Robert Lindsey e altri studiosi di fama mondiale. J. Carmignac (1914-1986) è stato uno dei più grandi esperti mondiali di studi biblici. Nel 1958 fu il fondatore della prestigiosa Revue de Qumran e probabilmente uno dei maggiori conoscitorial mondo della lingue ebraica ed aramaica utilizzate al tempo di Gesù dal momento che fino dagli anni ’50 si è occupato per moltissimi anni dello studio dei manoscritti rinvenuti nelle grotte di Qumran compiendone varie traduzioni.

Claude Tresmontant è stato professore alla Sorbona e un grande conoscitore della lingua ebraica antica; in particolare ha lavorato per anni alla redazione di un dizionario ebraico-greco. Robert Lindsey, un esperto di ebraico antico ed aramaico, fu tra i fondatori della Jerusalem School of Synoptic Research.
Recentemente, poi, è apparso in internet un lavoro completamente gratuito, scritto da C. Lancaster, che si occupa della questione portando numerose prove interne di tipo linguistico ed esplorando la possibilità che l’aramaico (stile Peshitta) fosse il linguaggio originario del Nuovo Testamento.

Nonostante l’indubbio prestigio di questi ed altri eminenti studiosi e il valore dei loro lavori occorre però segnalare che le loro posizioni sono oggi considerate minoritarie nel mondo accademico.

Tenendo conto che leggendo il testo dei Vangeli e del NT in genere non ci si deve attendere di trovare il greco classico, l’indagine dei semitismi presenti nel testo mette in evidenza che il greco usato presenta anomalie non spiegabili soltanto ed esclusivamente facendo appello alle differenze tra greco classico e greco koinè ma riferibili ad un curioso slang ebraico-greco, oppure a giochi di parole, rime ed assonanze che sono evidenti soltanto se si traduce il testo greco in ebraico.

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Informazioni personali

Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)