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venerdì 29 novembre 2013

La triplice morte del povero Giuda 92 (Parte prima)

Sul tradimento di Giuda Iscariota, ovvero di Giuda "zelota e sicario", più di uno storico ha sollevato dei dubbi scagionando l'apostolo da ogni addebito, adducendo il fatto che le motivazioni usate per dimostrare il suo gesto: i trenta denari o l'irritazione per lo spreco dell'unzione nella casa di Betania, sono semplicemente ridicole.

Che Giuda fosse uno zelota e che non si sia venduto per trenta denari lo pensa anche il papa emerito Ratzinger, il quale nell'Angelus del 26 agosto 2012, ha chiaramente affermato che Giuda era uno zelota che voleva che Gesù, come Messia, si ponesse al comando di una rivolta militare contro i romani e sentendosi deluso lo denunciò.

Quindi, secondo l'ex papa, il tradimento di Giuda fu politico e non ebbe nulla a che fare coi trenta denari. Ma così non la pensavano i cristiani delle origine che fecero morire questo disgraziato apostolo, passato alla storia come il sinonimo del tradimento, ben tre volte, e ogni volta in modo sempre più crudele.

Matteo, l'unico degli evangelisti che si occupa del fatto, ci racconta che Giuda, pentitosi del suo gesto, avrebbe gettato i trenta denari nel Tempio e si sarebbe impiccato. I sacerdoti, recuperata la somma, avrebbero comperato con essa il Campo del Vasaio, per la sepoltura degli stranieri, in adempimento delle profezie di Geremia (Geremia 32, 6) e Zaccaria (Zaccaria 11, 12-13). "E presero trenta denari d'argento, il prezzo del venduto, che i figli di Israele avevano mercanteggiato, e li diedero per il campo del Vasaio, come aveva ordinato il Signore" (Matteo 27,9-10).

Abbiamo visto in precedenza che pur di far collimare le vicende del Messia con le profezie, gli evangelisti non esitarono ad inventare molti episodi. In questo caso la coincidenza tra la somma percepita da Giuda (trenta denari) e quella richiamata dalla profezia ci appare chiaramente sospetta.

Gli Atti danno una versione molto diversa della fine di Giuda ma bisogna saperla leggere tra le righe per capirla bene. Secondo questa versione Giuda non si pentì affatto del suo tradimento e coi trenta danari comperò un campo, ma poi ebbe una specie d'infortunio: cadde per terra, gli si squarciò il ventre e gli fuoriuscirono tutte le viscere.


Strano, perché quello di squarciare con la spada il ventre dei traditori e di spargerne le viscere al suolo era il metodo seguito abitualmente dagli zeloti, e tra gli apostoli di zeloti ce n'erano più di uno, a cominciare da Pietro che non aveva esitato a tagliare l'orecchio a Malco e sicuramente non esitò a fare il karakiri a Giuda, che col suo tradimento aveva fatto fallire l'impresa (P. Zullino, Giuda, Rizzoli, Milano, 1998).

Morte di Giuda


martedì 26 novembre 2013

La prova delle profezie (Parte quarta) 91

A contrastare la psicosi maniacale per le profezie veterotestamentarie furono i Marcioniti (Tretulliano, Advesus Marcionem) e molti eretici (Origene, Commentari alle omelie, 17). I Marcioniti ammettevano senza remore che il Vecchio Testamento non conteneva alcun genere di profezia circa la crocifissione del Cristo e la maggior parte degli eretici contestavano, in generale, qualsiasi riferimento a Gesù da parte delle profezie veterotestamentarie.

L'evangelista più facondo nella produzione di profezie è Matteo per il quale gli adempimenti nel suo Vangelo si susseguono l'uno all'altro. Mentre Marco, ad esempio, narra di Gesù tradito per danaro da Giuda (Marco 14,10), Matteo, spigolando da Zaccaria, quantifica la somma in trenta pezzi d'argento e li fa gettare dal traditore pentito nel Tempio (Zaccaria 11,12-13), contraddicendo gli Atti per i quali Giuda non si pentì affatto.

Una menzione a parte meritano le profezie poste in bocca a Gesù sulla distruzione del Tempio di Gerusalemme. Esse furono aggiunte ai Vangeli quando si erano già da lungo tempo verificate nella guerra giudaica del 70, come acutamente nel II secolo dichiarò il polemista Celso, mettendo in rilievo che tutto veniva profetizzato in quanto già accaduto, e non che tutto accadeva in quanto già profetizzato. Si tratta quindi di profezie intese come vaticinia ex eventu, e secondo la ricerca critica sono, senza eccezione, tarde creazioni della comunità cristiana.

Marcione di Sinope


venerdì 22 novembre 2013

La prova delle profezie (Parte terza) 90

Non fu affatto facile per i cristiani delle origini provare che la morte infamante di Gesù sulla croce e poi la sia resurrezione trovassero riferimenti profetici nell'Antico Testamento giacché la Bibbia ebraica non contempla nulla di simile. Ma tali profezie erano assolutamente necessarie e non trovandole bisognava inventarle. Così il Padre della Chiesa Ireneo nel Salmo. 20, 5, e Salmo 3, 6 disse di individuarvi un’allusione alla Resurrezione, rispettivamente nelle parole: «Da te chiese la vita, e tu gliela donasti» e «.. io fui risvegliato, perché il Signore è il mio soccorso».

Per la Resurrezione nel «il terzo giorno» oppure, come sovente si suol dire più comunemente, «dopo tre giorni», e dunque il quarto giorno, Tertulliano trovò lo spunto dal profetra Osea ( 6,2): «Dopo due giorni ci guarirà, il terzo giorno risorgeremo e vivremo davanti a lui». Ma a questo proposito vennero utilizzati anche altri passi scritturali, soprattutto la permanenza di tre giorni di Giona nel ventre della balena. Inoltre si ricorse alla tradizione degli dèi pagani, che, come Attis, definito in uno scritto antico «l’onnipotente risorto», come Osiride e molto probabilmente anche Adone, che erano risorti il terzo giorno o dopo tre giorni.

Un problema particolarmente difficile era costituito dalla morte di Gesù, che non trovava riscontri nel Vecchio Testamento. ed era l’elemento decisamente più scandaloso perché assolutamente contrastante con la concezione ebraica della figura del Messia. I primi cristiani per questo la sentirono inizialmente come una vera e propria catastrofe e la fine di qualsiasi speranza. .Ma alla fine anche il mysterium crucis venne risolto: la morte di Gesù era profetizzata, secondo quest’ottica assurda, nel quarto libro di Mosè, in una mucca rossa, che il sacerdote Eleazaro dovette macellare e gettare nel fuoco per ordine divino.
Il Padre della Chiesa Tertulliano vide profetizzata la trave della croce nelle corna di un liocorno citato nel quinto libro di Mosè. Un altro scrittore neotestamentario scorse un’allusione al sangue di Cristo nel sangue dei caproni e dei vitelli macellati nel Vecchio Testamento.

La cristianità primitiva superava l’orrore della morte sulla croce, unicamente mediante un’esegesi estremamente libera, per non dire demenziale su quanto era stato profetizzato nella vecchia Bibbia, benché in modo spesso oscuro e incompleto. Il Padre della Chiesa Gregorio di Nissa riconosce che rendere «digeribile il pane duro e refrattario della Scrittura» era un'impresa quasi disperata. Ad esempio egli dichiara che , nel Vecchio Testamento. . riconosceva «con evidenza il Padre», ma solo «indistintamente il Figlio».

In tutte le parole dei Profeti era dunque possibile individuare allusioni a Gesù, soprattutto in quelle più oscure. Però agli stessi cristiani le «profezie» della morte sulla croce non erano del tutto sufficienti, tanto che nel Il secolo Giustino sostenne che gli Ebrei avrebbero cassato dalle loro scritture una profezia esplicita della croce, per sottrarre ai cristiani importanti elementi probatori. Ma in realtà, invece, furono proprio i cristiani a introdurre di soppiatto questi passi nel testo greco del Vecchio Testamento per disporre di ulteriori profezie adempiute.


Gregorio di Nissa


martedì 19 novembre 2013

La prova delle profezie (seconda parte) 89

Nella Passione di Gesù tutti gli episodi collimano con gli adempimenti profetici perché nei Vangeli non vengono narrati fatti reali ma fatti inventati, descritti con colori veterotestamentari.

Ma perché Gesù doveva perire proprio «secondo la Scrittura?». Soltanto perché solo così era possibile affrontare il dileggio del mondo verso il Messia crocifisso. Esattamente, gli aspetti più obbrobriosi della Passione: il tradimento, la fuga dei discepoli, la sofferenza sulla croce, potevano essere accettati solo come compimento delle profezie veterotestamentarie, e tutti i dettagli dovevano essere conformati fedelmente alle parole del Vecchio Testamento con citazioni esplicite e allusioni.

Elenchiamo alcuni esempi. Lo scandalo dei Discepoli sulla via del Getsemani (Mc. 14, 26 sg.), deriva dal profeta Zaccaria (Zach. 13, 7); le parole di Gesù davanti al Gran Consiglio (Matteo 26,64) trovano riscontro in Daniele (7,13) e nel Salmo 110,1; le offese ricevute da Gesù dai soldati romani, come servo di Dio, sono dedotte da Isaia (50,6)(«Ho offerto le mie spalle ai colpi e le mie guance alle percosse; non ho nascosto il mio viso all’oltraggio degli sputi»; la crocifissione tra due ladroni, sempre da Isaia («ed egli fu annoverato fra i malfattori»).

Anche i particolari più insignificanti furono dedotti dall'Antico Testamento. Esempio: Gesù viene dissetato con l’aceto, secondo il Salmo 69, 22: «E mi diedero fiele da mangiare, e quando ero assetato mi dissetarono con l’aceto». Perfino l'eclissi di sole, inventata da Luca al momento della morte di Gesù, trova riscontro in Amos 8,9 e in Geremia 15,9.

Significative anche le profezie sulla natività di Gesù: la nascita da una Vergine (Matteo 1,22 sg.) fu dedotta da Geremia (7,14); Betlemme come luogo di nascita (Matteo 2,1 sgg.) da Michea (5,1 sgg.); la strage degli innocenti (Matteo 2,16 sgg.) da Geremia (31,15), e la fuga in Egitto (Matteo 2,13 sgg.) da Osea (11,1).

Insomma non c'è un episodio della vita di Gesù, anche minore, che non sia stato costruito sulle profezie veterotestamentarie. Citate, però, se facevano comodo. Se invece sconfessavano la crocifissione, come nel versetto attribuito a Mosè: «Perché chi pende dal legno, costui è maledetto da Dio» (Deuteronomio 21,23), rigorosamente ignorate.


Il profeta Isaia



venerdì 15 novembre 2013

La prova delle profezie (Parte prima) 88

Nella Chiesa delle origini la prova della divinità di Gesù, oltre che nei miracoli, era fondata nel presunto adempimento delle profezie a lui riferite dal Vecchio Testamento. Gli adempimenti profetici su Gesù costituirono uno strumento fondamentale del missionariato e, come attesta Origene, per i cristiani erano "la prova più salda» della verità della loro dottrina". Essi contavano più dei miracoli, allora abituali, e furono innumerevoli coloro che proprio per questi adempimenti vennero guadagnati alla nuova fede.

Ma nel mondo antico le profezie, anche le più inverosimili, erano all'ordine del giorno e tutti le credevano senza batter ciglio.. Vengono riferite già a proposito di Buddha, di Pitagora e di Socrate. I Neopitagorici e i Neoplatonici, difendevano le profezie pagane a spada tratta , e persino uomini come Plinio il Vecchio e Cicerone, che non credevano nei miracoli, credevano saldamente nelle profezie.

Intorno al 12 a.C. la letteratura profetica era talmente ipertrofica, che, secondo Svetonio, l’imperatore Augusto, in qualità di Pontifex Maximus, fece bruciare duemila libri di profezie,che circolavano anonimi o insufficientemente accreditati.
Giustino Martire non avrebbe assolutamente creduto in Gesù, se in lui non si fossero adempiute le profezie messianiche. E Origene enumera «migliaia di passi», nei quali i Profeti parlano di Cristo (Orig., Cels. 4, 2). In effetti, nel Nuovo Testamento si trovano circa 250 citazioni del Vecchio Testamento. e più di 900 allusioni ad esso. Ma in realtà, gli Evangelisti, con mirabili contorsioni, hanno agganciato tutti i più normali fatti reali della vita di Gesù a presunte profezie veterotestamentarie, creando collegamenti spesso assursi e inverosimili.

Già nel 1802 Schelling, in una prolusione allo studio della Teologia, definiva molti racconti neotestamentari, soprattutto quelli riferiti alla nascita e alla passione: «favole ebraiche, inventate dietro suggerimento delle profezie messianiche del Vecchio Testamento». Per cui la Passione di Gesù narrata nei Vangeli non corrisponde alla storia effettiva, ma è stata favolisticamente composta sulla base della Bibbia ebraica.




Friedrich Schelling


martedì 12 novembre 2013

L'inferno, oggi, secondo il sesus fidelium 87

l dogma della punizione eterna, il più terribile e devastante della Chiesa, secondo il “sensus fidelium”, cioè l'istinto di fede dei cristiani, non ha oggi molti credenti e in futuro ne avrà sempre di meno. Il suo rifiuto è in progressivo aumento anche da parte di non pochi ecclesiastici, che pur non rinnegandolo in modo palese, di fatto ne ignorano l’esistenza, non parlandone mai nelle omelie domenicali e nelle catechesi.

Oggi molti credenti, specialmente quelli che lo sono più per tradizione che per convinzione (e sono la maggioranza), cominciano a rifiutare questo terrore infantile perché ritengono che nessun Dio, ammesso che ne esista uno, possa comminare all'uomo (teoricamente una sua creatura) un castigo così spropositato. Ma la Chiesa ufficiale, quella arroccata in Vaticano, tuttora imbalsamata nel suo dogmatismo medievale, persiste nel farlo credere senza avvertirne la demenziale assurdità.

Con ciò avvallando la tesi che il cristianesimo, con tutti i suoi infiniti crimini perpetrati contro l'umanità e con tutte le sue oppressioni contro la libertà e la felicità umana, ha sempre considerato la vendetta e la punizione più atroce come l'inferno, imperativi ben più dolci dell’amore del prossimo predicato nei suoi vangeli.
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venerdì 8 novembre 2013

La tesi della totalità della salvazione 86

Il castigo dell'inferno non ammette redenzione ed è la forma più spietata di punizione divina mai immaginata da nessun'altra religione. Talmente spietata che per molti credenti è ritenuta "un assurdo morale" e rappresenta la negazione di Dio stesso in quanto gli attribuisce sentimenti di odio e di vendetta, assolutamente incompatibili con un Essere Supremo, considerato sommamente giusto e misericordioso e che sempre ama, perdona e riconcilia.

Un Dio giudice inappellabile nega quindi categoricamente che “Dio sia un Padre infinitamente buono e misericordioso", come predicano i Vangeli, e contrasta col Gesù evangelico che invitava i suoi discepoli a perdonare settanta volte sette, cioè sempre.

Anche nella Chiesa delle origini alcuni importanti dottori sostenitori della totalità della salvazione e dell’universalità della riconciliazione negavano l'eternità dell'inferno affermando che esso, con l'arrivo della Parusia, avrebbe avuto termine per tutti, anche per i demoni. Era soprattutto la celebre dottrina dell’Apokatastasis di Origene a sostenere che lo scopo ultimo della storia sarebbe stata la ricostituzione di tutte le cose in Dio.

Tesi sostenuta in forme un po’ diverse anche dai Padri della Chiesa Gregorio di Nazianzio e Gregorio di Nissa, dai più accesi seguaci della Riforma protestante (Gli Anabatisti), da molti Pietisti, e, al giorno d'oggi, da tutta una serie di teologi moderni.



Il nobile Origene, al quale il pensiero che gli uomini dovessero soffrire in eterno appariva non solo inaccettabile, ma anche inconciliabile con l’amore e l’onnipotenza di Dio, proprio a causa di questo suo rifiuto dell’eternità dell’Inferno venne condannato dalla Chiesa e considerato un eretico. In effetti, dove sarebbe andata a finire la Chiesa senza il minaccioso ricatto di un Inferno perpetuo?

Origene alessandrino



martedì 5 novembre 2013

L'inferno, secondo S.Ignazio di Loyola (85)

Negli Esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, il fondatore dei Gesuiti, uno, e precisamente il Quinto, consiste in una profonda riflessione sull’Inferno. Ancor oggi ogni Gesuita deve prendere parte a codesti Esercizi due volte nella vita per quaranta giorni e ogni anno per otto giorni.

Un primo esercizio preliminare deve rendere visibile all’occhio dell’immaginazione la lunghezza, la vastità e la profondità dell’inferno; un secondo esercizio preliminare prescrive «un sentimento vivissimo dei castighi inflitti ai dannati»; quindi in un esercizio in cinque punti ogni singolo senso deve suggerire l’immagine dell’inferno: l’occhio «quello smisurato fuoco ardente e le anime quasi come dentro corpi infuocati»; l’orecchio «il pianto, l'ululato, le strida, le bestemmie contro Cristo nostro Signore e tutti i Santi»; il naso «Il fumo,lo zolfo, le pozze di putridume dell’inferno»; il gusto «le amarezze, le lacrime, la tristezza, il rimorso»; il tatto deve «provare quegli ardori infuocati che avvolgono le anime e le bruciano».

Inoltre, colui che compie tali esercizi deve «richiamare alla memoria tutte le anime che si trovano nell’Inferno» e gioire perché essi (ancora) non ne fan parte. Questo quinto esercizio è raccomandato da Ignazio «un’ora prima di cena».

Non so se i Gesuiti oggi persistono a considerare validi i demenziali ingredienti antichi e medievali che il fondatore e primo generale dell’ordine pretendeva fossero incessantemente oggetto di rappresentazione realistica del dogma dell'inferno, addirittura attraverso evocazioni tattili. Temo proprio di sì. Ecco perché papa Francesco, che apparentemente sembra voler scrostare la Chiesa dagli orpelli barocchi che la tengono ancora pietrificata, persiste, come i precedenti papi, a rimestare la pentola dell'inferno, quando ormai non ci crede più nessuno.



S.Ignazio di Loyola



venerdì 1 novembre 2013

La rappresentazione dell'inferno nella Chiesa dello origini 84

Nella Apocalisse di Pietro, ritenuta scrittura sacra dalla maggior parte del cristianesimo occidentale ancora intorno al 200,l’inferno si trova «immediatamente di fronte al cielo», e la rappresentazione inebriata dei tormenti infernali: «si brucia, si tortura, si arrostisce», sembra rappresentare il godimento massimo degli abitanti del Paradiso. Le torture dei dannati superano ogni immaginazione.

«Ve n’erano appesi alle lingue: si trattava di coloro che diffamarono la via della giustizia, e sotto di loro ardeva un fuoco che li tormentava. E c’era un vasto lago colmo di melma ardente, nella quale si trovavano gli uomini che distorsero la giustizia, e gli angeli li incalzavano con le loro torture. E c’erano inoltre anche donne appese per i capelli, proprio sopra quella fanghiglia brulicante: erano coloro che si erano imbellettate per l’adulterio; e quelli che con esse avevano consumato tale turpe commercio erano appesi per i piedi, colla testa conficcata in quella mota, e dicevano: “Non credemmo che un giorno saremmo giunti in questo luogo”» (Apc. Petr. 6 sgg.).

Anche la Seconda Epistola di Clemente assicura ai cristiani che potranno vedere gli in-fedeli e gli atei «nel fuoco inestinguibile fra i terribili dolori delle torture; e il loro tarlo non perirà, e il fuoco non si spegnerà, ed essi saranno ludibrio della carne». Un altro Padre della Chiesa, Cipriano, promette ai fedeli la contemplazione dei tormenti dei persecutori d’una volta considerandola un arricchimento della felicità celeste, e perfino il dotto Lattanzio accresce la beatitudine eterna con la vista della miseria dei dannati (LacL,div. Inst. 7, 26, 7). Questi Padri della Chiesa sostenevano esplicitamente che i peccatori hanno bisogno di un corpo immortale per essere in grado di sentire i castighi infernali.

Quando i cristiani non furono più perseguitati, ma cominciarono a loro volta a perseguitare gli altri, la descrizione dei dolori inflitti ai dannati si attenuò, ma ciononostante il teologo ufficiale della Chiesa Tommaso d’Aquino, «mite come un agnello», ironizzava il filosofo tedesco Nietzsche, dichiarava :«Affinché la beatitudine sia più piacevole (magis complaceat) per i santi e costoro ringrazino ancor più Dio per questo, essi devono contemplare perfettamente (perfecte) le punizioni dei dannati».



Lattanzio



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Informazioni personali

Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)