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venerdì 27 giugno 2014

Il primo Paolo credeva ciecamente nell'arrivo imminente della Parusia.152

Quando Gesù si presentò sulla scena politico-religiosa del suo tempo iniziò il suo ministero con parole di chiaro accento apocalittico: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è imminente” (Marco 1,15); e più oltre, “quando anche voi vedrete queste cose accadere, sappiate che è vicino, è alle porte. In verità vi dico, non passerà questa generazione prima che tutte queste cose si compiano” (Marco 13,29-30).

Il tema ricorrente della predicazione di Gesù, la cosiddetta Buona Novella, era dunque la fervida attesa dell'imminente Regno di Dio per opera del Messia davidico, aiutato dalle schiere celesti inviate da Jahvé. Il giorno del suo arrivo sarebbe giunto improvviso e inaspettato. Tale senso dell’imminenza della fine dell’ordine presente, che combaciava con la visione esseno-zelota del suo tempo, diverrà, dopo la crocifissione di Gesù, una vera ossessione per i cristiano-giudei degli apostoli e i cristiano-ellenisti di Paolo.


Ebbe così inizio la Parusia, cioè l'attesa febbrile del ritorno di Gesù dal cielo in carne ed ossa. L’aspettativa escatologica, che da Gesù era stata fermamente annunciata come imminente, ingenerò nei cristiani primitivi la certezza che si sarebbe avverata prima della loro morte. Anche Paolo, in comunanza con gli apostolo e i cristiano-giudei, consivinse in pieno, almeno in un primo tempo, questa aspettativa. Anzi, Paolo era ossessionato dalla preoccupazione che l’annunciazione si sarebbe realizzata con estrema rapidità e che il tempo fosse assai ristretto.


Infatti, a suo giudizio, Gesù risorto sarebbe stato sottratto alla terra solo per poco, e il suo ritorno sarebbe avvenuto in tempi brevissimi, al massimo in pochi anni. «Lo spazio di tempo che rimane è assai breve – scrive nella Prima Lettera ai Corinzi - il mondo qual è va incontro al tramonto» (1 Cor. 7,29 sgg.), e nella stessa promette solennemente: «Ecco, vi svelo un segreto: non tutti noi moriremo, ma tutti saremo trasformati»,concludendo con l’invocazione dei cristiani più antichi: «Vieni, o Signore!» (1 Cor..15,51; 16,22).


Ma nella Prima Lettera indirizzata ai Tessalonicesi, che attraversavano particolari momenti di difficoltà sotto il profilo morale ma soprattutto della parusia, da lui scritta verso gli anni 49-51 a Corinto, avvertiamo i primi segnali che la Parusia stava entrando in crisi. .In questa Lettera, dopo aver spronato i Tessalonicesi ad un maggior rigore etico, specie nel campo sessuale, egli affrontò la grave questione dell'attesa apocalittica del ritorno del Risorto, inspiegabilmente in palese ritardo.


Quell'attesa spasmodica aveva creato delle situazioni paradossali; molti, infatti, avevano venduto tutti i loro averi per essere liberi da preoccupazioni materiali, e, abbandonata ogni tipo di attività, erano scivolati in un ozio pernicioso nell’attesa del ritorno imminente di Gesù dal cielo.


Paolo, con visibile imbarazzo, cercò di superare quelle preoccupazioni spiegando che la Parusia poteva anche tardare, secondo i piani imperscrutabili del Signore, e invitando tutti ad attendere alle normali occupazioni della vita, rifuggendo dall'ozio malefico. Si intravvedono, però, tra le righe, le sue prime preoccupazioni per questo inspiegabile ritardo e il dubbio che la Parusia potesse essere procrastinata all'infinito e ingenerare la sfiducia dei suoi seguaci, portandoli all'abbandono della fede.



La Parusia


martedì 24 giugno 2014

Il «Credo Apostolico» non deriva dagli Apostoli. 151

Gli apostoli non aveva alcuna dottrina consapevolmente strutturata e nemmeno un credo religioso saldamente determinato. Quindi il cosiddetto «Credo Apostolico» non fu messo insieme dagli Apostoli e non riproduce la loro dottrina. Il testo originale, come ha dimostrato inequivocabilmente l’indagine storico-filologica l'umanista Lorenzo Valla (1407-1457), nacque nel II secolo fra il 150 e il 175, a Roma, e non in Asia Minore.

Il Symbolum Romanum, la forma più antica del Credo cristiano, fu forse creato per combattere i Marcioniti e in un lungo corso di tempo fu sottoposto a tutta una serie di aggiunte. Per esempio, l’articolo attuale «Credo in una santa Chiesa cattolica, nella comunità dei santi», originariamente suonava: «Credo in una santa chiesa». Le parole «cattolica» e «comunità dei santi» sono appendici inserite nei secoli successivi.

Fino al III secolo la lettera del Credo rimase fluida, come attestano numerose varianti, e il testo definitivo venne fissato solo nel Medioevo. Non ci sono due scrittori cristiani antichi che citino un’identica formula, e accade addirittura che uno stesso Padre della Chiesa utilizzi forme differenti.
Fu l’umanista Lorenzo Valla (1407-1457), funzionario curiale sotto molti Pontefici, che mise in luce i molteplici risvolti della formula del Credo apostolico. Nel 1865 un Sinodo tenuto a Zurigo fece decadere l’obbligo dei parroci protestanti al cosiddetto Credo Apostolico, e in seguito anche le autorità ecclesiastiche di Berna e di Basilea lasciarono perdere quest’obbligo, .

Concludendo: che cosa esattamente predicavano gli apostoli? Oltre a ripetere gli insegnamenti di Gesù e annunciare la sua morte e la sua resurrezione (fatto non eccezionale in quel tempo), insistettero a diffondere la speranza nel suo immediato ritorno e nella prossima realizzazione del Regno di Dio in terra. (Atti, 3, 20). Infatti, era proprio della fede giudaica il convincimento che i Profeti sarebbero ritornati per proseguire la loro missione terrena.

Ricordiamo che soltanto poche generazioni prima di Gesù anche il «Maestro di Giustizia» degli Esseni, subito dopo il suo trapasso, venne innalzato al rango di Messia e di Giudice Universale, il cui ritorno veniva dato per certo. E fu grazie all’accettazione delle future aspettazioni giudaiche (Cfr. Mc. 13) che la Comunità primitiva venne rinsaldata nella speranza in codesto Regno messianico terreno.


Lorenzo Valla


venerdì 20 giugno 2014

Per gli apostoli Gesù era soltanto un uomo. 150

Secondo molti teologi e storici moderni gli apostoli e la comunità cristiana primitiva erano perfettamente integrati nella religione ebraica del loro tempo per cui non conoscevano né una fede in Gesù né la sua nascita da una vergine, della quale peraltro non sa nulla nemmeno Paolo, né una sua preesistenza, idea totalemte estranea al giudaismo e ignorata anche dai Sinottici. Ecco perché per molti Padri della Chiesa gli apostoli «non erano teologicamente evoluti».

Infatti per gli apostoli Gesù era una persona umana: «un uomo privilegiato da Dio mediante azioni straordinarie, miracoli e portenti»; era il «profeta» annunciato da Mosé, era il «servo» di Dio, «il santo e il giusto», il quale in seguito alla sua resurrezione, Dio «lo aveva fatto Signore e Cristo», cioè Messia. Ma secondo le concezioni veterotestamentarie il Messia, cioè il Cristo, era certo una creatura al di sopra di tutti gli uomini, straordinariamente privilegiata, ma pur sempre un essere mortale. Nel giudaismo non è mai esistito un Messia che fosse Dio stesso o che possedesse un’essenza divina.

Agli occhi degli apostoli, rigidamente monoteisti, come avrebbe mai potuto essere considerato un Dio quel Gesù che sentivano uomo come loro, col quale condividevano la vita quotidiana, col quale viaggiavano da un luogo all’altro e del quale conoscevano le inevitabili debolezze umane e forse sopportavano qualche indubbio difetto? Come potevano considerarlo un Dio se gli abitanti di Nazareth potevano permettersi di dire: «Ma questi non è Il figlio del falegname e di Maria, fratello di Giacomo, Joses, Giuda, Simone? E le sue sorelle non vivono forse fra noi?» (Mc. 6, 3)

E sperimentando proprio a Nazareth il fallimento della sua taumaturgia, come avrebbero mai potuto ritenerlo il Creatore dell’Universo? Ecco perché la Chiesa, una volta proclamata la divinità di Gesù accuserà di eresia i giudeo-cristiani ben fermi nella loro antica fede.




martedì 17 giugno 2014

Il Gesù storico non si ritenne Figlio di Dio. (Parte seconda) 149

In più occasioni il Gesù sinottico viene distinto nettamente da Dio. Infatti, nel Vangelo di Marco, Gesù non è onnipotente e onnisciente, né assolutamente buono come avrebbe dovuto essere se fosse stato equiparato a Dio.

A Nazareth, “non poté compiere alcuna opera potente (Marco 6,5)”; a proposito del giorno del Giudizio dichiarò che nessuno ne conosceva il momento preciso, ad eccezione di Dio, «neppure il Figlio» (Marco 13, 32); ad un ricco che lo definisce «buono» risponde: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, soltanto Dio» (Marco 10,18).

Queste limitazioni apparvero funeste ad alcuni Padri della Chiesa che le negarono, considerandole un falso (Ambrogio, De fide 5,8) o le stravolsero completamente (Basilio, Epistole 236,2).

È certamente vero che alla domanda del Gran Sacerdote se Gesù fosse il Cristo, il figlio dell’Altissimo, ivi si legge la chiara risposta: «Sì, lo sono; e vedrete il figlio dell’uomo assiso alla destra della potenza e giungere con le nuvole del cielo» (Mc. 14, 60 sgg.). Ma la Teologia critica ritiene questa affermazione storicamente infondata perché Gesù storico non ha mai preteso per sé uno solo dei titoli messianici - Messia, Figlio di Dio, Figlio di Davide, Figlio dell’Uomo - che circa mezzo secolo dopo la sua morte gli furono attribuiti dagli Evangelisti.


E secondo il parere unanime dei teologi critici, Gesù non sollecitò alcuna forma di fede in se stesso; anzi, essi affermano che al centro della sua predicazione si trova l’annuncio dell’approssimarsi del Regno, ma nessun comandamento di fede.

Solo il quarto Vangelo pone sulla bocca di Gesù esortazioni alla fede, mentre le due uniche eccezioni nei Sinottici sono nate in seguito a una rielaborazione posteriore, come risulta chiaramente dalla comparazione testuale.

Comparando i Vangeli notiamo taluni particolari, apparentemente insignificanti, che tradiscono il processo di esaltazione della figura di Gesù. Così se Marco, a proposito di Giuseppe di Arimatea dice che anch’egli «attendeva il Regno di Dio», Matteo, con una sottile ma eloquente differenziazione, scrive che anch’egli «era diventato un discepolo di Gesù». In tal modo il «Regno di Dio» annunciato nel Vangelo di Marco, in quello di Matteo diventa più spesso il Regno di Gesù o del Figlio dell’Uomo. Se in Marco Gesù parla degli umili «che ci credono», Matteo aggiunge «che credono in me» (Cfr. Mc. 9, 42 - Mt. 18, 6). Se in Marco gli Apostoli, dopo la passeggiata di Gesù sulle acque, sono solo «fuori di sé per la meraviglia», in Matteo si prostrano ed esclamano: «Davvero Tu sei il Figlio di Dio!» (Cfr. Mc. 6, 51 sg. con Mt. 14, 33).

Basilio di Cesarea


venerdì 13 giugno 2014

Il Gesù storico non si ritenne Figlio di Dio. (Parte prima) 148

Secondo la Teologia critica Gesù pose al centro della sua predicazione non se stesso, ma Dio e il prossimo; annunciò non il Cristo, ma il «Regno»; non si presentò ai suoi seguaci dicendo «credete in me!». Mai egli pretese per sé una venerazione religiosa, né fu mai oggetto di culto da parte della comunità primitiva cristiana. La frase: «Io sono figlio di Dio» non venne inserita da Gesù nel suo Vangelo ma da dai cristiani ellenisti che manipolarono i Vangeli alcuni decenni dopo la crocifissione.

Nonostante le molteplici manipolazioni cui furono sottoposti i Vangeli, essi ci consentono ancora di determinare con chiarezza quanto fosse estranea dalle intenzioni del Maestro di Galilea la propria identificazione con Dio.
Nei Vangeli Gesù rivolge le proprie preghiere non a se stesso ma a Dio, giungendo persino a scontrarsi con lui quando gli chiede di allontanare il calice amaro della morte, prorompendo nella celebre lamentazione: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc. 14, 36; 15, 34), che ben presto divenne tanto imbarazzante, che il Vangelo Apocrifo di Pietro la modifica: «Mia forza, o mia forza, perché mi hai abbandonato?» (Ev. Petr. 19), e il Vangelo di Luca sostituisce con le parole: «Padre, nelle tue mani raccomando lo spirito mio» (Lc. 23, 46).

Che Gesù abbia avuto un attimo di smarrimento pronunciando il grido di terrore e solitudine: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" quando si vide appeso alla croce risultò più che imbarazzante agli evangelisti Luca e Giovanni, posteriori a Marco e già avviati alla sua deificazione. Per essi quel disperato lamento di Gesù morente lo rinnegava come Figlio di Dio che s'immolava per la salvezza dell'umanità e lo equiparava ad un aspirante Messia che, avendo fermamente creduto nell'intervento di Jahvè in suo aiuto, constatava con disperazione l'abbandono divino e il fallimento della sua missione.

Quindi, soprattutto nel Vangelo più antico, ancorché sottoposto come gli altri allo stravolgimento di una pluridecennale tradizione orale, Gesù appare ripetutamente come un uomo, che è ben conscio dell’enorme distanza da Dio.



Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?


martedì 10 giugno 2014

Le Lettere di Paolo (Parte seconda).147

Ad esclusione delle Lettere pastorali, delle Lettera agli Efesini, ai Colossesi, ai Tessalonicesi e agli Ebrei, tutte le altre Lettere paoline neotestamentarie sono state considerate autentiche, anche se contenevano aggiunte di mani estranee o erano messe insieme, sulla base di«determinati punti di vista della comunità cristiana», da ignoti manipolatori, com’è il caso della Seconda e anche della Prima Lettera ai Corinzi.

Oggi però, in base ad uno studio esegetico dei concetti espressi in esse, alle ricerche filologiche e storiche e di confronto eseguite dalla scuola di Tubinga, e ad un'analisi elettronica eseguita sul vocabolario dei testi, sono soltanto quattro le Lettere di sicura attribuzione: la Lettera ai Romani, quella ai Galati, e le due ai Corinzi (Josif Kryevelev, Analisi storico critica della Bibbia, Edizioni Lingue Estere, Mosca, 1949).

Le quattro di cui si parla risultano a loro volta così manipolate e contraffate, che alcuni esegeti, come M. Goguel (L'apotre Paul et Jèsus Christ, Libraire Fishbacher, Paris, 1904), giungono ad affermare che le due lettere ai Corinzi sono un assemblaggio di sei altre Lettere mal ricucite, e che la Lettera ai Romani presenta ben cinque finali.

Questo per quanto riguarda l'autenticità. Ma anche l'esegesi di queste Lettere ha suscitato grosse perplessità L’autore della Seconda Lettera di Pietro ( oggi dichiarata apocrifa dalla stessa Chiesa Cattolica) riscontrava nelle epistole paoline la presenza di «molte cose di difficile comprensione» (2 PeIr. 3, 16). Il Vescovo Policarpo scriveva che non era in grado di «tener dietro alla sapienza del santo e celebre Paolo» (Polyc., ad Phil. 3-2). Lo stesso Agostino confessò che molte cose gli «erano del tutto oscure» (Aug.,civ. Dei, 20, 19, 2).

Lutero, poi, come prima di lui Marcione, tentò una nuova interpretazione, per certi aspetti, del pensiero paolino nettamente contraddetta dalla Chiesa cattolica. Perciò Goethe poté affermare a buon diritto che l’Apostolo ha scritto cose, che l’intera Chiesa cristiana non è in grado di comprendere fino al giorno d’oggi. E ciò vale ancora per i nostri tempi.

Forse aveva ragione il teologo di Basilea e amico di Freud, Franz Overbeck, a dire al collega Harnack che Paolo ebbe un solo discepolo che lo comprese, Marcione - e questi lo travisò. E ancora di recente H.J. Schoeps, in un suo libro su Paolo dichiarò: «Da Marcione a Karl Barth, da Agostino a Lutero, a Schweitzer o a Buitmann, Paolo o è stato travisato o compreso solo parzialmente».



Franz Overbeck


venerdì 6 giugno 2014

Le Lettere di Paolo (parte prima) 146

Su Paolo, come del resto su Gesù e gli apostoli, non possediamo testimonianze storiche attendibili. Nessun storico vero, infatti, dei circa quaranta che narrarono gli avvenimenti contemporanei alla presunta nascita del cristianesimo, ha mai accennato all'esistenza di Gesù, degli apostoli e dello stesso Paolo. Ciò che di Paolo conosciamo deriva quasi esclusivamente dalle sue Epistole e soprattutto dagli Atti degli Apostoli, i quali, però sono poco attendibili perché spesso in aperta contraddizione con le Lettere stesse.

Delle quattordici Lettere attribuita a Paolo parecchie sono state falsificate, alcune completamente, altre soltanto in parte; certune poi non sono altro che centoni rappezzati coi brandelli di altri scritti. Non appartengono sicuramente a Paolo le «Epistole pastorali» vale a dire le due Lettere a Timoteo e la Lettera a Tito. L’inautenticità di queste tre Epistole fu dimostrata da studiosi dell'università di Tubinga già nel diciannovesimo secolo. Si tratta di Epistole quasi certamente composte in Asia Minore alcuni decenni dopo la morte di Paolo, adottando sapientemente lo stile di quelle autentiche con una falsificazione esemplare di alto livello culturale.

È molto significativo il fatto che proprio queste tre Epistole mancano nelle Lettere paoline portate a Roma nel Il secolo da Marcione (che pure si richiamava a Paolo), e rifiutate poi anche da altri Padri della Chiesa. Alcuni studiosi cattolici  suppongono che, probabilmente, le Lettere Pastorali furono composte proprio per poter combattere Marcione per mezzo di Paolo. Dobbiamo tener presente anche che nel Il e nel III secolo in ambienti cattolici venne falsificata tutta una serie di scritti, attribuiti poi agli apostoli, allo scopo di combattere i Marcioniti, considerati estremamente pericolosi per la Chiesa. A Paolo venne, ad esempio, attribuita anche una Terza Epistola ai Corinzi.

Le Lettere paoline falsificate, lungi da essere bandite dalla Chiesa, furono da essa considerate di particolare importanza. Infatti, Ireneo, Tertulliano, Clemente Alessandrino, Origene e altri le usarono addirittura contro quelle autentiche, perchè considerate molto più sofisticate sotto il profilo teologico e del diritto ecclesiastico di quelle originali. Anzi, vennero considerate più conformi alle esigenze della Chiesa e più idonee ad accrescere il prestigio di Paolo. Mentre, in base alle Lettere autentiche, poco mancò che Paolo venisse dichiarato eretico. In seguito i Papi utilizzarono con particolare predilezione proprio le pseudo-lettere pastorali per giustificare le condanne contro gli eretici e per rafforzare la loro pretesa di riconoscimento delle proprie scelte dottrinali.


Anche la Lettera agli Efesini viene definita assolutamente falsa da quasi tutta la Teologia critica. Grossi dubbi hanno suscitato sulla loro autenticità anche la Lettera ai Colossesi e soprattutto la Seconda Lettera ai Tessalonicesi. Infine, è generalmente negata la paolinità della Lettera agli Ebrei. Tertulliano la attribuì a Barnaba, altri l’attribuirono a Luca o a Clemente di Roma. Lutero, forse giustamente, ne ritenne autore un cristiano di nome Apollo.

S.Ireneo di Lione


martedì 3 giugno 2014

Le contorsioni della storiografia ecclesiastica sul contrasto fra il cristianesimo paolino e quello petrino. 145

La Chiesa cattolica di fronte a questa polemica rovente all’interno del cristianesimo primitivo si è comportata con la sua consueta ipocrisia. Ha sminuito, banalizzato, marginalizzato tale spettacolo disastroso, sostenendo che l’opposizione giudeo-cristiana sarebbe stata costituita da un gruppetto sparuto della comunità originaria e che tra Pietro, capo degli apostoli, e Paolo ci fu sempre un amorevolissimo accordo, tanto che sono stati santificati nello stesso giorno.

Ma questa tesi appare già contraddetta dalla semplice riflessione che una minoranza irrilevante non avrebbe potuto sostenere una simile polemica tanto a lungo e con tanto vigore, e per di più contro l’autorità degli apostoli. A meno che il loro prestigio fosse davvero molto scarso!

Il tentativo di occultare questo enorme conflitto caratterizza già gli Atti degli
Apostoli, chiaramente pensati per appianare e mediare le controversie. In essi, infatti, Pietro e Paolo vivono le medesime esaltazioni celestiali, compiono gli stessi miracoli e tengono discorsi pressoché uguali. Ma tutto suona falso e artificioso.

A partire dal II secolo, così, la sintesi conciliatrice della Chiesa inventò lo splendido parallelismo, l’accoppiata ideale dei Principi degli Apostoli Pietro e Paolo, i modelli della cristianità, cui rivolgersi con assoluta venerazione. E ciò si verificò oscurando a poco a poco Paolo e mettendo, falsamente, in risalto il «primo Papa».

Il contrasto fra i due cristianesimi, quello paolino e quello petrino, venne posto in evidenza nel XIX secolo dalla Scuola di Tubinga e poi proseguito nella ricerca critica più recente nella quale viene unanimemente ammesso che fra la comunità originaria e Paolo si giunse ad aspri conflitti, sostenuti non da una esigua minoranza giudeo-cristiana, ma apertamente guidati in prima persona dagli apostoli stessi; e che non si trattò, sic et simpliciter, di diatribe limitate ad aspetti cerimoniali secondari, quali la circoncisione e le norme alimentari, ma di differenze ben più sostanziali, concernenti la teologia di Paolo, assai lontana sia dalla fede dei primi apostoli che dall’insegnamento di Gesù.



Università di Tubinga


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Informazioni personali

Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)