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martedì 29 luglio 2014

L'ascetismo paolino introdusse nel cristianesimo una forma aberrante e psicotica di penitenza. 161

La parola ascetismo (dal greco áskesis: esercizio, allenamento), era in origine riferita all’ambito atletico, inteso come irrobustimento del corpo. Ma con Platone questo termine mutò completamente significato, e con un totale capovolgimento semantico prese ad indicare il ferreo dominio delle passioni, la mortificazione del corpo, la rinuncia ad ogni forma di mondanità e di gioia di vivere. Nei Vangeli non troviamo traccia di una simile teoria. Gesù, non l’ha né predicata né praticata. Anzi, leggiamo che i farisei lo trattavano da gaudente perché ignorava i digiuni e partecipava con gioia ai banchetti. Quindi questa forma aberrante e psicotica di penitenza è una invenzione di Paolo.


Nelle sue Lettere, egli si scaglia con delirio contro il corpo, da lui chiamato la “carne”, considerato la sede del peccato, e impone al cristiano di «spossare e asservire il corpo», di «ucciderlo» (1 Cor. 9,27; Galati, 5,24; Romani, 8,13; Colossesi 3,5), in quanto esso è un «corpo di morte» e «odio contro Dio» (Romani, 7,18; 7,24; 8,6 sgg.


Dobbiamo solo a lui l’introduzione nel cristianesimo, di cui è l’assoluto inventore, di questa forma disumana e mostruosa di rinuncia alle gioie della vita e ai sani istinti del corpo. Le turpitudini che egli attribuisce all'uomo sono talmente tante da farlo ritenere più malvagio degli animali allo stato brado. Quindi la vita del cristiano, per contrastare la sua degradazione, doveva incentrarsi nell’ascesi.


La Chiesa, fin dalle sue origini, ha accettato in pieno queste sue aberrazioni e ha considerato l'uomo il più infimo degli esseri viventi, un verme immorale e degradato, perennemente in preda alle nefandezze più perniciose e incapace da solo di perseguire la salvezza. Ecco perché per i Padri e Dottori della Chiesa (Basilio, Gregorio di Nissa, Lattanzio, Origene, Tertulliano e così via) il mondo andava inteso come una valle di lacrime e la vita terrena un “letamaio”. Si doveva sempre vivere nel lutto e nella penitenza, vestiti di stracci e coi capelli incolti.


Nella Chiesa primitiva, e per tutto il Medioevo, la fuga dal mondo, l’astinenza, la rinuncia ai sensi e alla corporeità, la mortificazione più ossessiva, una vita ininterrotta di penitenza e di pensieri fissati sul mea culpa, erano l’imperativo categorico non solo di molti ecclesiastici ma anche del popolo minuto. San Basilio, dottore della Chiesa, proibiva ai cristiani qualsiasi divertimento, anzi persino il riso e le gioie più innocenti della vita. San Gregorio di Nissa paragonava l’intera esistenza umana ad un “letamaio” e considerava peccaminoso anche odorare il profumo di un fiore o contemplare la bellezza di un tramonto.



San Basilio


venerdì 25 luglio 2014

Per la teologia paolina, Cristo si è incarnato per redimere l’umanità peccatrice e donarle il dono dell'immortalità. 160

Paolo in tutte le sue Lettere, specialmente in quella ai Romani, denuncia con accenti apocalittici la connaturata malvagità di tutti gli uomini, l’incapacità dell’uomo al bene, la sua ineluttabile perdizione, per concludere che, quanto più l’uomo è malvagio, tanto più è necessaria la sua redenzione e attribuisce al peccato originale la causa suprema della decaduta morale dell'umanità.


Ma in nessun passo dei sinottici Gesù riconduce la peccaminosa miseria degli uomini a una colpa primigenia, e tanto meno al peccato originale. Evidentemente la narrazione biblica della caduta non ebbe per lui quell’importanza decisiva attribuitale da Paolo e e portata alle estreme conseguenze poi dalla Chiesa.


Peccato originale e redenzione diventano quindi inscindibili per Paolo e per il cristianesimo, come verrà confermato da Tommaso d’Aquino con la celebre formula: «Peccato non existente, Incarnatio non fuisset»; cioè: «Se non vi fosse stato il peccato [originale], non avrebbe avuto luogo neppure l’Incarnazione» («Summa Theologiae», III, q. 1, a. 3).

Alcuni teologi cattolici hanno tentato di spiegare il silenzio assoluto di Gesù sul dogma del peccato originale, sostenendo che i suoi uditori non sarebbero stati ancora in grado «di cogliere il significato di un tale mistero». Solo Paolo ne fu capace e, dopo di lui, Sant'Agostino che lo strombazzò così tanto che nel XVI secolo la Chiesa lo elevò a dogma. Ma l’astruso teologismo del peccato originale non è specificamente cristiano, se è vero che concezioni analoghe erano assai diffuse nelle religioni pagane. Intorno al 2000 a.C. un poeta sumerico scriveva: «Mai da donna nacque bambino senza peccato».


Per Paolo quindi Cristo si era incarnato per redimere l’umanità peccatrice e donarle il dono dell'immortalità. "Vi sia dunque noto, fratelli, che per opera di lui (Cristo) vi viene annunziata la remissione dei peccati e che per lui chiunque crede riceve giustificazione (perdono) da tutto ciò da cui non fu possibile essere giustificati mediante la Legge di Mosè (Atti 13,38-39).


Ma, associata all'immortalità c'è l'idea terrificante del giudizio di Dio al momento della morte per stabilire se, in base alla nostra condotta, meritiamo il premio o il castigo nell'aldilà eterno. Secondo Paolo, per il superamento positivo di questa prova e meritare la felicità eterna, il cristiano aveva l'obbligo di praticare, durante il suo soggiorno terreno, una vita virtuosa imperniata sull'ascetismo più assoluto.



Tommaso d'Aquino



martedì 22 luglio 2014

Per giustificare la redenzione Paolo considerò l'uomo come l'essere più ignobile del creato. 159

Come scrisse Blaise Pascal (Pensées, III, 194) la fede cristiana si fonda quasi totalmente sulla conoscenza chiara di due cose: la corruzione della natura umana e la redenzione per opera di Gesù Cristo. Le due cose sono inscindibili.
L’universalità della corruzione umana è un punto focale della teoria paolina secondo cui gli uomini, sia ebrei che pagani, erano cattivi per natura,scellerati, schiavi del peccato, immersi fino al collo nella «sporcizia della lussuria», nelle «passioni nefande» (Efesini 2,3; Romani 6,17) quindi assolutamente da redimere.

Essi, infatti, sono «ricolmi di ogni ingiustizia, malvagità, cupidigia e malizia, pieni d’invidia, di istinti assassini, di discordia, di perfidia e abiezione; denigratori, calunniatori, nemici di Dio, gente violenta e altezzosa, millantatori, ingegnosi nel male, insensati, sleali, privi d’amore e di misericordia» (Romani 1,29 e sgg.). Una “summa” di empietà e nequizie, quindi. Predicando il suo Vangelo tra i giudei della diaspora e i pagani, aveva maturato la disperata convinzione che l'umanità viveva in un mondo in cui operavano potenze demoniache che scatenavano nell'uomo follie, malvagità, violenze, sfrenata lussuria e infermità di ogni genere. Israele, il popolo eletto, per la sua salvezza aveva ricevuto la Torah, la Legge di Mosè, ma l'aveva sistematicamente disattesa, trasformandola in una condanna.


I pagani, nella loro peccaminosa perversione, s'erano illusi di lavare i loro peccati con il sangue di Mitra o di Eracle, cospargendoselo durante i riti sacrificali e di sconfiggere la morte eterna mediante la discesa di questi semidei agli inferi. Follie, insensatezze, che impedivano all'uomo di vedere che la sua vita era breve, ripugnante e brutale.


Di fronte a questa generale ignominia c'era per Paolo una sola via d'uscita a rappresentare la vera salvezza per l'intero genere umano: il Cristo mistico che si era immolato sulla croce non più, come credevano i cristiano-giudei di Gerusalemme, per tornare da Risorto dal cielo e, cacciate le legioni romane, instaurare il Regno di Jahvè sulla Terra, ma per redimere l'intera umanità dal peccato e portarla nel regno dei Santi.

Il termine "Cristo" perde per lui ogni riferimento all'Unto del Signore, al Messia liberatore e si trasforma in una possessione totale, in un Dio conosciuto in maniera interiore, in un Redentore celato, in un Santissimo Sacramento. Tutte le Scritture, per chi sapeva coglierne il significato interiore e le implicazioni spirituali, prevedevano da sempre, secondo lui, la venuta nel mondo del Salvatore. Questo Salvatore era il Cristo.


Blaise Pascal


venerdì 18 luglio 2014

La dottrina cristiana della redenzione non deriva da Gesù ma da Paolo. 158

Secondo il teologo F. Overbeck: tutti gli aspetti più belli del Cristianesimo sono legali a Gesù, tutti quelli deteriori a Paolo. Da una attenta lettura dei Vangeli e basandoci su tutto ciò che è stato tramandato su Gesù si può affermare con certezza che la dottrina paolina della redenzione fu completamente estranea al Maestro.
Infatti, Gesù predica un «Padre» che non perdona il peccatore pentito mediante una mediazione espiatoria ma un «Padre» che, come nella parabola del figliol prodigo, va egli stesso alla ricerca del peccatore. Gesù non fa dipendere la remissione dei peccati dalla sua morte, bensì, come insegna nel Pater Noster e in altri luoghi, unicamente dalla disponibilità degli uomini a perdonare il prossimo (Mt. 6, 12; 6, 14 sg.; Mc. 11,25 sg.).

Se la sua morte fosse stata da lui ritenuta necessaria per la redenzione e per la remissione dei peccati, come avrebbe potuto dire a Dio che il calice amaro della crocifissione gli venisse allontanato «Padre mio, se è possibile, passi via da me questo calice!» (Mt 26,39) e al peccatore «i tuoi peccati ti sono perdonati»? (Mc. 2, 9 sgg.).

Con la teoria della redenzione l’insegnamento originario del Vangelo non venne solo modificato, ma anche svuotato di significato. È significativo il fatto che per gli Ebioniti, gli immediati eredi della Chiesa dei giudei cristiani, la morte di Gesù sulla croce non ebbe alcun carattere conciliatorio né alcun significato salvifico, e perciò essi non usavano calici durante la loro agape fraterna, celebrata significativamente con estrema semplicità con pane e acqua come leggiamo negli Atti.

Quest'agape non aveva niente a che vedere con la cerimonia eucaristica di invenzione paolina. Ai cristiano-giudei sarebbe sembrato, infatti, sacrilego ed empio collegare questo pasto comunitario al corpo e al sangue di Cristo, in una specie di cannibalismo rituale. Com’é noto, i discendenti degli Apostoli negavano anche la divinità di Gesù e la sua nascita da una vergine.

E allora, da dove trasse Paolo la propria teoria della salvazione? La purificazione dai peccati mediante il sangue era praticata da molti popoli primitivi, ed era anche antichissima la credenza nella salvazione dell’umanità mediante il sacrificio del «figlio».

Nell’antica religione babilonese Marduk venne inviato sulla terra dal padre Ea per salvare gli uomini; Eracle e Dioniso discesero anch’essi sulla terra come divinità redentrici, Nel culto di Mitra il sangue di un toro ucciso, versato sul peccatore, lo purificava dalle colpe; in sanscrito era molto usata la parola significante «riconciliare», «placare la collera divina»

.Nell’antichità era altresì diffusissima l’idea del re, che soffre e muore per il suo popolo. Un’opera cristiana del primo secolo ricorda i numerosi monarchi pagani, che in circostanze critiche, in seguito a un responso oracolare, avevano sacrificato la vita «per salvare i concittadini col proprio sangue». Anche il Sommo Sacerdote Caifa allude a tale concezione, quando consiglia ai Giudei ch’era meglio per loro «che un singolo perisse per il popolo, e non che un intero popolo precipitasse nella rovina». Tertulliano, Padre della Chiesa, intorno al 200 scriveva:«Nel mondo pagano era consentito riconciliarsi mediante sacrifici umani con la Diana degli Sciti, col Mercurio dei Galli e col Saturno degli Africani; ancor oggi, proprio a Roma, viene versato sangue umano in onore di Giove Latino».

Verso la metà del III secolo anche Origene fa un chiaro riferimento a questa
usanza specifica del Re e del Giusto, che patisce e muore per le colpe del suo popolo, parlando dei «numerosi racconti di Greci e Barbari, che trattano della morte di pochi in nome del bene comune, per liberare le loro città e i loro popoli dalle disgrazie che li opprimevano. In occasione di questi atti di riconciliazione, spesso venivano uccisi anche dei malfattori, come avveniva ancora in epoca tarda nella greca Rodi e a Marsiglia.

Gli Ebrei d’età più antica condividevano con Cananei, Moabiti e Cartaginesi
l’usanza di uccidere dei bambini per riconciliarsi con la divinità. In seguito al posto
dei bambini subentrarono i delinquenti. Anche l’agnello pasquale, arrostito a forma
di croce (simbolo religioso presente già in epoca precristiana), era un surrogato
dell’uccisione del primogenito.

Simili usanze erano note a Paolo, che una volta vi allude nelle sue Lettere e che probabilmente lo spinsero a considerare il fatto che anche Gesù era stato giustiziato come malfattore per redimere l'umanità come tutti gli uomini immolati prima di lui. Paolo nelle sue Lettere predica continuamente la riconciliazione e la redenzione , l’espiazione «nel suo sangue», la redenzione «mediante il suo sangue», la pacificazione «attraverso il sangue versato sulla croce». Evidentemente non fu nemmeno sfiorato dal pensiero che Dio potrebbe, perdonare una colpa anche senza una riparazione «ufficiale».

A qualsiasi uomo d'oggi che usi almeno qualcuno dei trilioni di neuroni che possiede il suo cervello risulta lapalissiana l'assurdità che il buon Dio abbia creato il mondo per darlo in preda al demonio che incita al male, come ci ricorda Arthur Schopenhauer, e poi sia stato costretto a sacrificare suo figlio per redimere le colpe degli uomini da lui creati peccatori incalliti. Ma purtroppo, pochi colgono questa ovvietà che nega ogni validità alla redenzione e ad ogni altra assurdità religiosa.


Franz Overbeck


martedì 15 luglio 2014

Già nel XIX secolo filosofi e letterati consideravano la religione cristiana come una creazione paolina. 157

Fin dal XIX secolo filosofi e letterati riconobbero apertamente il fatto che per opera di Paolo il cristianesimo originario fu totalmente stravolto per cui, da un vivente disegno di Gesù per il bene dell’uomo scaturì una progressiva adorazione della sua persona e l'istituzione di una entità religiosa totalmente estranea alla predicazione evangelica.

Il filosofo inglese Lord Bolingbroke fu il primo ad individuare nel Nuovo Testamento due religioni, quella di Gesù e quella di Paolo. Analogamente Kant distinse acutamente fra la dottrina di Gesù e quel che di essa fecero, a suo avviso, gli apostoli, da una parte e Paolo dall'altra, in quanto «in luogo del concreto insegnamento religioso del santo Maestro, esaltarono la venerazione del Maestro stesso».

Altrettanto decisamente Lessing separò la religione del Cristo, cioè «quella religione ch’egli stesso conobbe e praticò come persona umana, e che ogni uomo potrebbe condividere», dalla religione cristiana «che presuppone come vero ch’egli fu più che uomo,facendone come tale un oggetto di venerazione».
Anche Fichte e Schelling riconobbero che, per usare le parole di quest’ultimo, «già nella spiritualità di Paolo, l’apostolo delle Genti, il cristianesimo divenne altra cosa da quel che fu negli intenti del Suo fondatore».

Paolo diede inizio, dunque, a questo mutamento radicale, decisivo per la Chiesa.
Con lui cominciò il trapasso dall’originario Cristianesimo escatologico a quello sa-
cramentale; al posto del prossimo avvento del messianico Regno sulla terra, ansiosamente atteso dagli Apostoli e dai giudeo-cristiani, subentrò il concetto greco di immortalità e il profeta ebreo divenne il cristiano Figlio di Dio. In altri termini: la
delusione dell’attesa (Parusia) venne compensata con la fede nell’Aldilà. Senza questa trasformazione, la mancata realizzazione del Regno avrebbe segnato il destino finale della giovane setta di Gesù e il cristianesimo attuale non sarebbe mai nato.

Pur essendo Paolo il vero ideatore della divinizzazione di Gesù, tuttavia per lui Gesù non si identifica con Dio, come insegna la Chiesa. Ancor meno Paolo giunse ad ipotizzare una qualsiasi traccia di dottrina trinitaria. Furono tutte cose inventate dalla Chiesa nel IV secolo sotto l'influenza dell'imperatore Costantino. Ma fu Paolo a stravolgere la dottrina del Maestro e indurre la Chiesa a collocare in second’ordine l’etica dell’amore, che fu al centro della predicazione di Gesù. Metafisica invece di ethos, fede invece di amore, cristologia invece di discorsi della montagna; questo è stato, grosso modo, il suo cammino. La dogmatica diventò più importante dell’etica, la retta fede più importante dell’agire rettamente.

Come attesta significativamente il presunto credo «apostolico», che non contiene una sola parola dell’insegnamento di Gesù, ma solo le dottrine della Chiesa posteriore, Gesù fu innalzato al cielo perché non desse più fastidio in terra e consentisse la creazione della Chiesa, cioè di una poderosa istituzione pseudoreligiosa, oscurantista ed oppressiva, perdurante nei secoli. Il tutto riassunto nella memorabile frase del Padre della Chiesa Ippolito: «Il Verbo balzò dal cielo nel corpo della Vergine, dal corpo della Vergine sulla croce, dalla croce nell’Ade; poi saltò nuovamente sulla terra - oh! la nuova resurrezione! - e dalla terra in cielo. E così si assise alla destra del Padre».

I nobili ideali di Gesù furono rimossi dallo pseudoideale di una fede e di una ecclesiasticità, che la massa scambiò per il valore originario. Naturalmente fu necessario lasciare in vigore i comandamenti biblici, tuttavia sviliti nella loro importanza e deprivati della loro radicalità. Nel Medio Evo, poi, il sommo teologo ufficiale della Chiesa, Tommaso d’Aquino, sostituì i principi del Discorso della Montagna con l’Etica del pagano Aristotele, togliendo definitivamente alla Chiesa ogni riferimento evangelico.



Friedrich Schelling



venerdì 11 luglio 2014

La teologia paolina si basò su una persona storica ben diversa da Gesù. 156

Come la maggior parte degli studiosi ammettono, la teologia paolina non si basò sull'opera e la figura umana di Gesù, bensì su una persona storica ben diversa. Paolo, infatti,non conobbe il Gesù storico, e in ogni caso non fu mal suo discepolo.
Dopo la conversione, attese tre anni prima di presentarsi per la prima volta a Gerusalemme dagli apostoli, e la visita non solo fu breve ma altamente burrascosa.

La Comunità primitiva fu concorde nel sostenere che Paolo predicava un suo vangelo personale, oscuro e falso, e per di più riferito esclusivamente a una rivelazione celeste. In tutto il corpus Paulinum, infatti, Gesù viene menzionato solo 15 volte, mentre la definizione di «Cristo» ricorre ben 378 volte: Negli scritti paolini, inoltre, non c'è traccia di una tradizione palestinese di Gesù e solo incidentalmente vengono riferite autentiche parole del Maestro; solo tre volte Paolo raccomanda l’imitazione di Cristo, pensando però non a Gesù, ma alla sua preesistenza divina. È singolare il fatto che il titolo messianico di « Cristo» (che è la traduzione dell’ebraico l’Unto re di Israele) solo nella Lettera ai Romani ricorre due volte, di più che in tutti i Vangeli sinottici.

L’indagine critica riconosce unanimemente che il Cristo paolino non è definito né dalla personalità di Gesù né dal complesso della sua predicazione etico-religiosa, ma che, anzi, è Paolo l'esclusivo inventore del tutto. Il grande filosofo tedesco F. Nietzsche rimarca ironicamente la libertà con la quale Paolo «ha affrontato, quasi evitandolo, il problema della persona di Gesù: uno che è morto, che sarebbe stato veduto dopo il decesso; un tizio mandato a morte dai Giudei» Concludendo con l'affermare che per lui, Gesù rappresentò un puro e semplice motivetto conduttore, al quale egli aggiunse la propria musica. Anche per Arthur Drews, uno dei massimi contestatori della storicità di Gesù, Paolo di Gesù non sapeva nulla, non aveva con lui alcuna relazione storica ma soltanto una vaga affinità interiore derivante della comune tradizione giudaica. Ma, a parte questo, Paolo, secondo Drews, non si preoccupa né del carattere e della condotta di Gesù né tanto meno della sua dottrina morale. Della vita di Gesù gli sta a cuore soltanto un aspetto: la sua morte, e definisce apertamente il proprio Vangelo come «la parola della croce» quando scrive: «Mi sono proposto di non mostrarvi altra scienza se non quella di Gesù il Cristo, cioè del Crocifisso» (1 Cor. 1, 18; 2, 2).

Quindi Paolo mentre ignora e misconosce la realtà vera del Gesù storico, si dedica a creare con delirante fanatismo la sua fede nel Cristo mitico. «Io dimentico tutto ciò che è alle mie spalle e mi protendo a ciò che mi è innanzi, e vado verso la meta prefissata, verso il gioiello» (Phil. 3, 13 sg.), confessione più volte ripetuta da Paolo, che caratterizza la sua evoluzione. Egli proietta Gesù sempre più decisamente in ambito mitico e metafisico, facendolo diventare alla fine da individuo umano, una figura cosmica, un’entità spirituale ultraterrena: il Cristo mistico appunto, attribuendogli qualsiasi contenuto religioso, qualsiasi cosa volesse.



martedì 8 luglio 2014

Il cristianesimo paolino rinnega totalmente l'ebraismo da cui deriva. 155

Quando Paolo maturò la convinzione che la parusia era procrastinata ad un tempo, forse indefinito, e si rese conto che i pagani suoi seguaci, come la maggior parte di coloro che praticavano i culti misterici, aspiravano soprattutto all'immortalità dell'anima, con alacrità febbrile si diede a creare la sua nuova teologia nell'intento di elaborare una religione che accogliesse, in un geniale sincretismo, le aspirazioni del mondo ebraico e di quello gentile, e che appagasse l'immaginario collettivo di un Salvatore universale, che trasversalmente era condiviso da tutto il mondo antico.

Così egli si diede ad elaborare il trapasso dall’originario cristianesimo escatologico, sostenuto dai cristiano-giudei, ad un nuovo cristianesimo sacramentale e trascendente, che al posto dell'imminente avvento del messianico Regno di Dio sulla Terra, ansiosamente atteso dagli Apostoli, sostenesse il concetto greco di immortalità nell'aldilà e trasformasse il Messia escatologico nel Figlio di Dio, Redentore dell'umanità. Senza questa trasformazione, la mancata realizzazione del Regno di Dio in Terra in seguito al rinvio, sine die, della parusia, avrebbe segnato la fine di ogni cristianesimo.

La credenza dell'immortalità, divenuta per Paolo la colonna portante della dottrina che stava creando, era diffusa tra i pagani seguaci delle Religioni Misteriche, ma totalmente ignorata dagli ebrei. Per l'Antico Testamento, infatti, non c'era un aldilà dove la parte spirituale dell'uomo avrebbe continuato a vivere, in un paradiso, se buona, o nell'inferno, se malvagia. Nella Bibbia ebraica sta scritto: «La sorte degli uomini e delle bestie è la stessa, come muoiono queste muoiono quelli. C’è un soffio vitale per tutti: non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità» (Qohélet 3,19). Con la morte, quindi, secondo il teologo biblico, tutto finisce, sia l'anima sia il corpo, perché tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere.

Infatti i Sadducei, cioè l’alto clero del Tempio di Gerusalemme detentore dell'ortodossia ebraica, sostenevano che Mosè non aveva mai parlato né dell'immortalità dell'anima, né della "resurrezione dei morti", e non credevano nella perpetuazione dell'individuo dopo la morte, in corpo e spirito. Quindi, per loro, non esisteva un aldilà dove le anime sarebbero state punite con l'inferno o premiate col paradiso.

Invece i culti misterici, diffusi in Occidente alcuni secoli prima del cristianesimo e interiorizzati e moralizzati dai greci, ponevano l'immortalità a base della loro dottrina e la associavano alla redenzione di un Dio che si incarnava in una vergine mortale per redimere l'umanità dalle sue colpe e renderla degna di una vita eterna e beata in un mondo utopistico, collocato nell'aldilà.

L’intero dramma salvifico del cristianesimo - preesistenza, incarnazione, martirio, morte, resurrezione, discesa all’Inferno e ascesa in cielo – risulta, quindi, una contaminazione di concezioni misteriche e di filosofia ellenistica. E si configura come una totale negazione dell'ebraismo.






venerdì 4 luglio 2014

Il cristianesimo di Paolo deriva dal paganesimo. 154

l ritardo della Parusia, con tutte le inevitabili conseguenze negative che comportava. costrinse Paolo a riformulare radicalmente la sua teologia e lo portò ad aprirsi alle religioni misteriche che allora erano diffusissime in tutto l'Oriente e specialmente a Tarso, sua città natale. Egli cominciò allora a elaborare il mito del Figlio di Dio, che muore e risorge per redimere l'umanità, che allora era all'ordine del giorno. Nell’antichità i processi di eroizzazione, di deificazione e di apoteosi erano diffusissimi, e tutti erano alla spasmodica ricerca di Salvatori e di Redentori. Figure storiche vissute ben prima di Gesù erano state venerate come esseri soprannaturali, come Sotéres (Salvatori) e Kyrioi (Signori divini), uomini come Zarathustra o Buddha.

Per Paolo era stato di importanza fondamentale nascere e trascorrere gran parte della sua giovinezza lontano dalla Palestina, fra i gentili, in una città come Tarso, in cui era grande la tensione culturale e religiosa, essendo il centro di convergenza di tutte le teologie escatologiche del vicino Oriente.
In questa città, infatti, era diffusa la tendenza sincretica che portava a fondere e a mescolare i vari culti misterici alla cui base c'era la concezione dell'immortalità dell'anima che veniva redenta dalla morte e dalla resurrezione degli dèi soterici: Mitra, Adone, Attis e Osiride, immolatisi per la salvezza dell'umanità.


Le Religioni Misteriche, dette anche Misteri, erano culti di divinità provenienti dalla Tracia, dall’Asia Minore, dalla Siria, dall’Egitto, diffusi in Occidente molti secoli prima del cristianesimo. Essi, interiorizzati e moralizzati dai greci, non operando distinzioni razziali o di casta, erano diffusi in tutti gli strati sociali e promettevano la liberazione dai vincoli del male e la speranza in un destino felice nell’aldilà, partecipando al banchetto dei beati e vivendo nella perenne gioia dei Campi Elisi. Per il raggiungimento della futura vita celeste e dell'immortalità era necessario ottenere la purificazione, la rinascita e la filiazione divina, e soprattutto, attuare l'ascesi tramite il dominio degli istinti e delle passioni.


È indubbio che Paolo, come ogni altro bambino nato e cresciuto a Tarso, dovette subire il fascino delle grandi cerimonie che si svolgevano in onore degli dèi misterici, considerati salvatori divini, e assimilarne inconsapevolmente i riti e i significati profondi, soprattutto i due sacramenti più importanti, che egli adotterà poi per il suo cristianesimo personale, il battesimo e l’eucaristia.

Infatti, in tutte le Religioni Misteriche ellenistiche esistevano due momenti cultuali dominanti: il banchetto sacro ritualizzato, durante il quale si mangiava la carne del Dio, cioè del dio-animale (agnello, toro o pesce) a lui sacrificato, e si beveva un calice di vino a simboleggiare il suo sangue, e il battesimo, inteso come cerimonia unica di affiliazione ma anche come lavacro di tutte le colpe. I banchetti sacri affondavano le loro radici negli antichissimi riti del cannibalismo rituale, praticato non per istinto ferino ma per acquistare le particolari energie fisiche e spirituali della vittima, mangiandone le carni.


Il quotidiano contatto con questi riti pagani impedì a Paolo di crescere con l'incontrastabile certezza, comune a qualsiasi gerosolimitano di nascita, di essere il centro religioso dell'universo e di considerare i gentili (gli infedeli incirconcisi) nient'altro che rozzi e reietti peccatori e lo portò ad aprirsi alla spiritualità pagana che annoverava anche scuole filosofiche di altissimo livello etico. Le sue Lettere, sono zeppe, infatti di formule tratte dal lessico religioso dei pagani, che in modo sorprendente spesso coincidono anche concettualmente con le idee delle religioni misteriche e con la filosofia greca. Il culto di Mitra, che denota tanti e sorprendenti parallelismi col cristianesimo, proprio a Tarso, patria di Paolo, aveva un santuario già in epoca precristiana. Nella stessa Tarso c'era poi il culto di una divinità agreste che muore e risorge, Sandan, protettrice della città, la cui morte e resurrezione veniva celebrata solennemente tutti gli anni. Ovviamente in quella città erano ben conosciuti Adone, Attis e Osiride, divinità che muoiono e risorgono.



Dio Mitra


martedì 1 luglio 2014

Nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi Paolo rimanda la Parusia a fine die. 153

A poco a poco, col passare degli anni, la speranza di Paolo nell'imminente arrivo della Parusia svanì, e la delusione fu accelerata dalla morte di molti cristiani, ai quali aveva solennemente promesso che sarebbero vissuti fino all’arrivo del Signore. E allora giustificò i casi di morte non previsti assicurando che anche i fratelli defunti sarebbero subito risorti all’arrivo del Cristo e con lui saliti al cielo, mentre tutti i defunti del passato avrebbero dovuto attendere fino alla resurrezione finale.


Ma alla fine lasciò perdere del tutto tale credenza originaria. La Seconda Lettera ai Tessalonicesi, infatti, riguardo alla Parusia dice esattamente il contrario di quanto era stato affermato nella prima. In essa anziché condannare ogni calcolo apocalittico, Paolo prende posizione contro l’idea di un immediato ritorno di Gesù.

Se. Infatti, nella Prima lettera egli dichiarava che quel giorno era inatteso e giungeva improvvisamente, come un ladro nella notte, nella Seconda comunica ai destinatari l’esistenza di tutta una serie di tappe importantissime non ancora compiute che procrastinavano l'evento ( 2 Thess. 2, 3 sgg.). Inoltre, sconfessando la Lettera precedente, prega i confratelli, affnché non si lascino trascinare nella confusione ingenerata da un’epistola che «si millanta dovrebbe provenire dalla mia penna»! (2 Thess. 2, 2).

Evidentemente la Seconda Lettera ai Tessalonicesi si proponeva di svalutare e svuotare di significato la Prima, data la scarsissima credibilità dell'imminente avvento del Parusia ormai sconfessata dai fatti, e di abituare i fedeli all’inevitabile ritardo del ritorno di Cristo.


La Parusia


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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)