Visualizzazioni totali

venerdì 31 gennaio 2014

Anche se l'insegnamento di Gesù ha ben poco di originale, l'intensità della sua predicazione fece di lui un grande Maestro. 110

Chi giudica la predicazione di Gesù, senza i consueti pregiudizi dogmatici dei cattolici, riconosce chiaramente che in essa c'è poco di originale come già ebbe a rilevare Celso nel II secolo.. Risulta lapalissiano che Gesù nella sua interpretazione del momento storico e nelle sue idee escatologiche (catarsi universale da lui prevista imminente) si è completamente sbagliato.

Dando per scontato che la sua visione del mondo, era quella propria dell’epoca – e non potava essere altrimenti - nella quale non erano estranee credenze bizzarre nella presenza di spiriti, angeli e demoni, il tratto caratteristico del Gesù sinottico è dato dall’intensità della sua predicazione.

Con la sua consequenzialità rigorosa, con l’esclusione del superfluo e con la sottolineatura dell’essenziale, Gesù va ben al di là di molte concezioni precedenti. Egli fu capace di scuotere e di attrarre, come è capace di fare ancor oggi. «Chi si trova vicino a me, sta vicino al fuoco», suona una sua frase tramandata al di fuori dei testi biblici canonici. Dietro la sua predicazione, ed è questo l’elemento più significativo, si trova il Gesù sinottico: vita e dottrina vi coincidono.


Ma ciò non toglie che Gesù condivide questo tratto con ogni altro vero Maestro. Infatti, come una valutazione storica non riesce a scorgere nel suo messaggio nulla di «originale», allo stesso modo non può non vedere in lui un uomo incomparabile. Fu quindi uno dei tanti insigni Maestri. Prima di lui c'erano stati, tanto per fare qualche esempio, Buddha, Socrate e tanti altri, e, come Goethe fece notare a Lavater, non abbiamo bisogno di strappare le splendide penne ai mille volatili del cielo al fine di adornare con esse un unico uccello del paradiso.

W.F.Goethe


martedì 28 gennaio 2014

Anche la scuola cinica era diffusa in Galilea. 109

È sicuramente dimostrato che nei pressi della Nazareth attuale, esisteva una scuola filosofica cinica dal III secolo a.C. che perdurò fino ad epoca cristiana inoltrata. D’altra parte, i predicatori cinici erano presenti dappertutto: anche nelle regioni intorno alla Galilea. Essi, come Gesù, si muovevano da una località all’altra, parlando nelle piazze e nei vicoli. Sarebbe davvero assai strano che Gesù, nel suo continuo peregrinare nei villaggi della Galilea, non ne avesse mai sentito parlare.

Il cinismo, fenomeno culturale ben diverso dallo stravolgimento assunto nell’uso linguistico moderno, presenta non poche affinità col cristianesimo. Nel cinismo veniva particolarmente evidenziato, rispetto a tutte le altre scuole filosofiche greche, il concetto di monoteismo e la condanna del culto degli dèi. 

Esso, inoltre, proclamava l’ideale etico della autarcheia, che combatteva aspramente la ricerca di onori e ricchezze, il lusso e la corruzione, e concedeva ben poco credito alle conoscenze e alle scienze tradizionali. I suoi predicatori vaganti, spesso uomini di profonda saggezza e pieni di dignità e denominati già allora episkopoi (vescovi), percorrevano l'intero mondo antico, rivolgendosi preferibilmente al popolino, ai poveri e agli schiavi, e non si peritavano di frequentare i più diseredati e i malfamati.

Come Gesù affermò una volta che non sono i sani ad aver bisogno del medico, bensì i malati, allo stesso modo il discepolo di Socrate, Antistene, fondatore del cinismo, all’accusa di frequentare cattive compagnie, ribatté con queste parole: «Anche i medici stanno vicini ai malati, ma non per questo hanno la febbre». Non era poi raro il caso di cinici, che talvolta godevano di notevole prestigio presso le comunità cristiane, scambiati per cristiani e, viceversa, di cristiani scambiati per cinici.




Antistene


venerdì 24 gennaio 2014

L'influenza del pensiero greco sull'insegnamento di Gesù. 108

Dobbiamo tener presente che la Galilea, chiamata spregiativamente la «Galilea dei Pagani» ai tempi di Gesù, non era allora un paese esclusivamente giudaico, ma contava una parte della sua popolazione di cultura ellenistica, composta da latifondisti stranieri, guarnigioni romane e da ebrei della diaspora ivi immigrati (e totalmente ellenizzati). Senza contare. le schiere di pellegrini che, specie in occasione delle festività, la transitavano per affluire a Gerusalemme. La città santa contava allora quasi 50.000 abitanti, ma vi giungevano ogni anno circa 120.000 pellegrini.

E non si deve trascurare il fatto che vi regnava una casata reale di cultura ellenistica: Erode I il Grande (37-4 a.C.), despota orientale e suddito dei Romani, che non era ebreo ma idumeo, i suoi figli Archelao, Filippo ed Erode Antipa, quest'ultimo governatore di Galilea e Perea, il «Re Erode» dei Vangeli. Costoro si circondavano cli dotti greci, amavano la letteratura e l’arte greca, edificavano città su modelli architettonici greci (Cesarea), contribuendo così all’ellenizzazione della Galilea.

Le città greche di Hippos e di Gadara si trovavano non lontano dal teatro dell’attività pubblica di Gesù e sono visibili dalla riva occidentale del lago di Genezareth. Molti ebrei parlavano greco, e parecchi avevano nomi greci (fra i discepoli di Gesù, ad esempio, Andrea e Filippo); anche l’aramaico era contaminato da una ricchissima terminologia ricalcata sul greco. Rabbini palestinesi spesso compivano i loro studi non solo ad Alessandria, ma anche ad Atene e a Roma. Le sinagoghe di Galilea recano tracce evidenti dell’influenza greca, e anche a Gerusalemme esistevano sinagoghe greche. Persino la lingua del culto era spesso il greco.

Molto spesso si sente dire che Gesù, della cui esistenza esteriore sappiamo solo quello che ci tramandano i Vangeli, intraprese viaggi in quelli che allora erano considerati paesi stranieri. Molti studiosi ammettono senza difficoltà la possibilità che Gesù sia stato sfiorato dagli atteggiamenti filosofici allora più diffusi e lo riconoscono anche alcuni teologi cattolici.

Molte espressioni usate da Gesù come: «Dare è più gratificante che prendere» si
trovano negli scritti di Aristotele. L’altra massima intorno all’angustia delle porte che conducono alla salvezza e alla larghezza della via che conduce alla perdizione è già presente in Esiodo e nel racconto di Prodico concernente le scelte di vita di Eracle.

L’esortazione di Gesù al discepolo che vuol dare sepoltura al padre «Lascia che i
morti seppelliscano i morti! Ma tu va’, e annuncia il Regno di Dio» trova corrispon-
denza nel comportamento del discepolo di Serapide, che alla morte del padre non
abbandona il Serapeion «in nome di Serapide». O ancora, il discepolo di Gesù che
non deve por mano all’aratro né voltarsi indietro ha un riferimento preciso nel con-
tadino corinzio, il quale fu talmente avvinto dalla lettura del Gorgia platonico, che
abbandonò l’aratro per recarsi da Platone. E la proibizione di portare con sé due
vesti suggerisce immediatamente l’utilizzazione da parte di Gesù del patrimonio

concettuale della filosofia cinica.

Platone


martedì 21 gennaio 2014

L’insegnamento di Gesù era già prefigurato nel Giudaismo. 107

In generale, il Gesù dei Sinottici, pur con tutta la sua ostilità verso l’uso farisaico
della Legge, non vi si allontana mai del tutto. Anzi, spesso si si trovano dei paralleli (addirittura letterali) nella letteratura rabbinica.

Le parole di Gesù «Sarete misurati con lo stesso metro, col quale avrete misurato» trova riscontro letterale in una parte del Talmud. Nella letteratura giudaica del tempo troviamo letteralmente o quasi la parabola di Gesù del trave e della pagliuzza; e ancora la sua osservazione, secondo cui era sufficiente la pena che ogni giorno reca con sé; oppure il detto sul tesoro celeste che né tignole nè ruggine potranno corrodere (Mt.7, 3 sgg.; 6, 34; 6, 19).

Il suo ammonimento: «Chi guarda una donna con concupiscenza, ha già commesso adulterio nel proprio cuore» (Mt.5,28) si ritrova nel Talmud nella forma seguente:«Chi osserva intentamente una donna dev’essere giudicato come se avesse usato con lei un commercio sessuale». Quando Gesù dice «E’ meglio per te che vada in rovina una sola delle tue membra, piuttosto che venga scagliato nell’inferno tutto il tuo corpo» (Mt.5, 29), l’ammonimento corrisponde all’insegnamento giudaico:«E’ meglio che il tuo ventre scoppi, piuttosto che precipiti nell’abisso della perdizione».

All’ammonimento di Gesù: «Ma io vi dico: chiunque vada in collera col fratello, sarà sottoposto al giudizio; e chi dice “sciocco” al proprio fratello sarà sottoposto al giudizio del Sinedrio; e chi gli dice “stolto” sarà sottoposto al fuoco dell’inferno»,fa eco il parallelo rabbinico: «Chi dice al suo prossimo “servo”, colui sarà sottoposto al bando; chi gli dice ‘bastardo”, colui riceverà le quaranta [frustate]; chi gli dice “empio”, colui potrà dire addio alla propria vita». La predicazione di Gesù appare, dunque, prefigurata nel Giudaismo e solo in questo contesto diventa completamente intelligibile.


Talmud


venerdì 17 gennaio 2014

L’amore verso i nemici predicato da Gesù. 106

Quando nei Vangeli si dice di amare i nemici e di porgere l'altra guancia, ci si riferisce ai nemici personali, cioè a quelli che vivono nell'ambito della comunità, non mai ai nemici esterni, a quelli cioè del popolo d'Israele, come gli oppressori romani, e tanto meno ai nemici di Jahvè, i pagani in genere. Tutti costoro dovevano essere odiati e sterminati senza pietà, come aveva ordinato Mosè. Nessun giudeo, per quanto mansueto, avrebbe accettato questo tipo di perdono, e invece di porgere l'altra guancia ad un oppressore romano gli avrebbe vibrato una pugnalata nella schiena, come facevano gli zeloti ai quali, appartenevano Gesù e i suoi apostoli. Il rigoroso pacifismo di Gesù, inteso in senso universale, fu aggiunto a posteriori ai Sinottici, quando la Chiesa ellenizzata soppiantò quella messianica dei giudei e si aprì ai gentili.

Ma il caratteristico comandamento del Vangelo: ama il prossimo tuo come te stesso, pur riferito al solo ambito comunitario era diffuso da tampi antichissimi e presso tutti i poopoli più evoluti. Coincide chiaramente col motto di Buddha: «Agisci come se ciò che fai accadesse a te; non uccidere, e non concedere nessuna possibilità che altri lo faccia». Nella letteratura buddhistica si trova, inoltre, questa frase: «Non adirandosi si supera la collera; il male si vince col bene; l’avido si vince coi doni; con la verità si vince il bugiardo». Anche Platone proibisce all’uomo di compiere il male, anche nel caso ch’egli lo subisca da parte di altri.

L’amore per i nemici personali non era ignoto neppure alla Stoa. Un parallelo singolare con la parola di Gesù: «Pregate per chi vi perseguita, affinché siate figli del padre celeste. Infatti, egli fa si che il sole sorga sui buoni e sui malvagi, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt. 5, 44 sg.) lo troviamo in Seneca: «Se tu imiti gli dei, fa’ del bene anche agli ingrati! Infatti il sole sorge anche per i malfattori, e il male è aperto anche ai pirati».
Un comandamento assolutamente uguale, fondato su analoghe motivazioni morali lo troviamo persino da parte delle autorità ebraiche e anche nel Vecchio Testamento, benché limitatamente ai nemici appartenenti al proprio popolo. 

In ogni caso, già per Geremia e Isaia era cosa commendevole lasciarsi schiaffeggiare e sottoporsi allo scherno, per cui il duplice comandamento gesuano dell’amore, che da sempre il Cristianesimo ha considerato proprietà esclusiva, deriva dalla teologia ebraica tradizionale.


Buddha



martedì 14 gennaio 2014

La dottrina di Gesù. (Parte seconda) 105

Nemmeno il concetto gesuano di Dio è nuovo, di quel Dio immensamente buono e misericordioso, che ama il peccatore publicano e la meretrice più del fariseo tronfio della propria virtù, che gioisce del ritorno di un figlio perduto più che di novantanove giusti. Infatti, già il Vecchio Testamento, almeno nella parte attribuita a Giosia, affermava che Dio inclina verso colui che si converte, anzi, che è proprio la disponibilità di Dio alla misericordia che rende possibile la conversione
dell’infedele.

Il concetto della figliolanza divina era assai diffuso presso gli Ebrei. Del «Padre
che sta nei cieli» essi parlarono molto prima di Gesù, il quale, per altro, vi accenna
piuttosto di rado. È solo, infatti, nei Vangeli posteriori a Marco, specie nel Vangelo giovanneo, che l’uso del nome del Padre diventa più frequente in bocca a «Gesù». Ma anche la definizione gesuana di Dio quale «Padre mio» (Mt. 7,21; 10, 32; 11, 27), pronunciata da Gesù, si trova già in molti Rabbini.

Inoltre, l’idea della filiazione divina era presente anche fuori dell’ambito della re-
ligiosità giudaica. Nel terzo millennio a.C. esisteva una preghiera alla divinità così concepita: «Non ho una madre, tu sei mia madre; non ho un padre, tu sei mio padre». Il libro Lotus-Sutra (capitolo IV) contiene una parabola buddhista del figliol prodigo, che, nonostante evidenti differenze, assomiglia alla parabola di Luca.

Anche nell’Inno a Zeus di Cleante, (nato nel 330 a.C.), il pensiero della filiazione divina trova un’espressione grandiosa. Esso ritorna poi soprattutto nella Stoa, dove Dio appare quale Padre premuroso e viene ribadita l’affinità degli uomini con la Divinità. I Greci definivano Dio «Padre» anche più spesso degli Ebrei, benché forse non così confidenzialmente come fa Gesù, la cui invocazione a Dio col termine abba, diminutivo aramaico del linguaggio infantile, che sarebbe meglio tradurre con «babbino» o «papà».

Perfino la relazione madre-figlio come espressione del rapporto fra Dio e uomo era ben nota alle religioni misteriche molto prima del Cristianesimo. Gli studenti ellenistici conoscevano il «caro» Zeus fin dalle prime letture omeriche, così pure la «cara Signora» Atena e la «cara» Artemide.




venerdì 10 gennaio 2014

La dottrina di Gesù. (Parte prima) 104

È estremamente difficile, riconosce la ricerca critica, ricostruire la dottrina del Gesù storico basandosi sui Vangeli e gli altri documenti del Nuovo Testamento. Tuttavia si può tentare, almeno approssimativamente, di cogliere i tratti fondamentali della sua predicazione, nonostante l’incertezza della tradizione,le lacune, le aggiunte, le ambiguità e le esagerazioni.

Accanto alla proclamazione della buona novella, ovvero dell'imminente avvento del Regno di Dio in Terra, al centro della predicazione di Gesù si trovava il comandamento dell’amore; dell’amore per Dio e per il prossimo e anche (entro certi limiti come vedremo in seguito) per i propri nemici.

Sembra che abbia prevalso in lui la tendenza a dimostrare l'ipocrisia farisaica di quanti, al suo tempo, dietro la vana devozione e l'osservanza ligia di infinite prescrizioni, volevano soltanto mascherare il vuoto dello spirito e la durezza del cuore.

Considerava la Legge, come veniva concepita dai farisei, ridotta soltanto all'osservanza di pratiche esteriori che nascondevano un cuore arido ed egoista. Per lui la vera religiosità non aveva niente a che vedere coi digiuni e i sacrifici e le false pratiche di pietà e nemmeno con l'elemosina ostentata ma con la ricerca degli umili e dei reietti d'ogni sorta perché in ognuno di loro c'era l'immagine di Dio. Era quindi contro l’oppressione dei deboli, lo sfruttamento dei poveri, contro la violenza, la vendetta e l’omicidio. Dovrebbero essere stati questi i tratti essenziali della sua predicazione.

Ma un tale insegnamento era veramente nuovo? Non c’è un solo pensiero cristiano che non sia rintracciabile già prima di Gesù nella letteratura «pagana» o «giudaica», scrive Karl Kautsky.

Tutti i concetti fondamentali di Gesù sono poco originali e furono espressi già
prima di lui dai Salmi, dai Profeti ebrei, dai Rabbini, dagli Esseni, ai quali forse appartenne - come ormai ammettono anche alcuni teologi cattolici - da Giovanni il Battista, dal Buddhismo indiano, da Zarathustra, da Socrate, da Platone, dalla Stoa, dal Cinismo e da moltissimi altri saggi dell'antichità.



martedì 7 gennaio 2014

Il risultato più importante della teologia critica. 103

Il risultato più importante della critica biblica, libera da dogmatismi dei secoli XIX e XX, è il riconoscimento della non identità del Gesù di Nazareth col Cristo Dei Vangeli e e della Chiesa. Non è solo il Quarto Vangelo a presentare caratteri di astoricità, ma sono in gran parte astorici anche gli altri tre.

Già quel che i missionari cristiani andavano predicando prima della loro stesura non ha nulla a che fare con la veridicità storiografica, perché alla base della tradizione non si trova lo sforzo di perseguire un intento storiografico, biografico e protocollare, bensì una finalità missionaria e dogmatica edificante, propagandistica, apologetica, polemica e tendenziosa.

Come gli Evangelisti posteriori migliorarono in molti punti le affermazioni di Marco, moltiplicando e amplificando i miracoli di Gesù, divinizzandone sempre più l’immagine, allo stesso modo fin dal principio i predicatori cristiani del periodo preevangelico si posero nei confronti della figura storica del Galileo.

Secondo tutta la critica scientifica della Bibbia, i Vangeli non sono storicamente attendibili già nei loro fondamenti, ma sono, al contrario, prodotti letterari mitologizzanti, notevolmente rielaborati dallo zelo fideistico, scritti di edificazione missionaria, che si proponevano non solo di rafforzare la fede dei cristiani, ma anche di guadagnare nuovi adepti.

I loro autori non possedevano alcun interesse verso la realtà storica come noi la concepiamo. In altre parole, si può affermare che i Vangeli sono una creazione fantastica della comunità cristiana primitiva, la quale è la vera plasmatrice dell’immagine del Cristo. A quest’opera non sono estranei gli influssi di miti antichissimi.



Inizio del quarto Vangelo


venerdì 3 gennaio 2014

La teologia critica nega ogni credibilità storica ai Vangeli. 102

Martin Dibelius e Rudolf Bultmann, grandi teologi critici, sono concordi nell'affermare che i Vangeli non sono una biografia, né una storia biografica e neppure la testimonianza di un testimone oculare, bensì «l’opera di uno scrittore, che si muove all’interno della teologia della comunità» e perciò «una creazione della comunità ellenistica». Non è il Gesù storico ad essere predicato, ma l’astorico «Cristo della fede e del culto».

D'altra partei primi cristiani, secondoDibelius, «non erano interessati alla storiografia», non volevano «scrivere storia, ma predicare il Vangelo». Di conseguenza il Nuovo Testamento, non fa altro che illustrare «ciò che la Comunità già credeva intorno a Gesù, non ciò che lui stesso pensava di sé, e nemmeno ciò che altri pensavano di lui durante la sua vita».

Altri teologi Teologi di fama definiscono i Vangeli, «leggende cultuali», «variopinti prodotti letterari», «raccolte di proverbi e parabole, storie edificanti e di intrattenimento», «una mescolanza di verità e invenzione», «nient’altro che una silloge aneddotica», cosicché in essi secondo Martin Werner «non si trova alcun interesse storiografico».

Perciò possiamo dire dire con Maurice Goguel che i Vangeli «possono essere utilizzati soltanto con estrema circospezione». La ricerca critica, dunque, per citare il Teologo Kasemann, «ha reso dubbia su tutta la linea la credibilità storica della tradizione sinottica».

Naturalmente i teologi cattolici, seguendo pedissequamente l'imposizione papale, sostengono tutto l'incontrario della teologia critica protestante seguendo il dettame che: «Non è lecito all’uomo accostarsi alla Scrittura con piglio autoritario, e stabilire quale sia l’autentica figura di Cristo sulla base di criteri qualsiasi appartenenti all’ordine mondano (!); al contrario, egli deve avvicinarsi compunto e obbediente, come alla parola di Dio».

Secondo loro il Libro dei Libri dovrebbe essere letto lasciando da parte qualsiasi punto di vista scientifico, col quale viene affrontata la lettura di tutti gli altri prodotti letterari. Ma chi è al corrente della quantità enorme di contraddizioni e di incongruenze presenti nei Vangeli è perfettamente in grado di rendersi conto perché mai la Chiesa sia costretta a esigere una fede acritica nella Bibbia.


Martin Dibellius



Benvenuti nel mio blog

Questo blog non è una testata giornalistica, per cui lo aggiorno quando mi è possibile. I testi sono in regime di COPYLEFT e la loro pubblicazioni e riproduzioni è libera purché mantengano lo stesso titolo e venga citando il nome dell'autore.

I commenti possono essere critici, ma mai offensivi o denigratori verso terzi, altrimenti li cancello. Le immagini le pesco da internet. Qualche volta possono essere mie manipolazioni.

Se volete in qualche modo parlare con me, lasciate la richiesta nei commenti, vi contatterò per e-mail. Dato che il blog mi occupa parecchio tempo, sarò laconico nelle risposte.

Se gli argomenti trattati sono di vostro interesse, passate parola; e, se site studenti, proponeteli al vostro insegnante di religione. In tal caso fatemi sapere le risposte che avete ottenuto. Grazie.

Lettori fissi

Archivio blog

Informazioni personali

Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)