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venerdì 27 febbraio 2015

30 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte prima. La Passione. 6

Prima di concludere il nostro discorso sulla condanna a morte di Gesù, dobbiamo affrontare un'altra mostruosa assurdità sostenuta dai Vangeli e avvallata dalla Chiesa. Riguarda il ballottaggio tra Gesù e Barabba.
Se, a proposito di Barabba, chiedessimo ad un qualsiasi ecclesiastico chi era questo personaggio, ci sentiremmo rispondere, senza la minima esitazione: un brigante assassino.
Niente di più falso e lo dimostreremo con chiarezza. Le false notizie a proposito di costui riguardano tre aspetti: il suo vero nome, il motivo del suo arrestato e il motivo per cui fu liberato.
Cominciamo dal nome. Nella traduzione corrente del Vangelo di Matteo troviamo: "Avevano in quel tempo un prigioniero famoso… detto Barabba" (Matteo 27,16).
Ma è una traduzione che omette una parola importante. Il testo greco antico infatti recita: "" (Novum Testamentum Grece et Latine, E. Nestle, Stuttgart, 1957) che tradotto significa: "Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, Gesù Barabba".
Ecco che scopriamo il primo altarino: il cosiddetto Barabba si chiamava Gesù. Ma le traduzioni attuali ne censurano il nome. Come mai? Non è forse perché anche Gesù era chiamato nei Vangeli Jeshu bar Abbà cioè "Gesù il figlio del Padre" (sinonimo in ebraico di Dio) esattamente come Barabba? Data questa omonimia ci chiediamo perplessi: i Gesù erano veramente due o si trattava di una sola persona, sdoppiata in base al meccanismo di censura?
Chiarito il nome, cerchiamo ora il motivo per cui era stato arrestato. La solita traduzione fuorviante ci dice: "(Barabba)...era in prigione perché aveva preso parte ad una sommossa del popolo in città ed aveva ucciso un uomo" (Parola del Signore, Editrice LDC-ABU, Leumann, Torino, pag. 206).
A sbugiardare questa plateale manomissione ci pensa il testo originale di Matteo, già citato in precedenza (e confermato pure da Marco):
"", che va tradotto così: "Avevano in quel tempo un prigioniero famoso, Gesù Barabba, il quale era stato messo in carcere in occasione di una sommossa scoppiata in città e di un omicidio" (Matteo 27, 16).
Marco è dello stesso parere: "Un tale chiamato Barabba si trovava in carcere insieme ai ribelli che nel tumulto avevano commesso un omicidio" (Marco 15,7). Quindi, entrambi questi evangelisti non dicono che Barabba fosse uno dei rivoltosi e un omicida, ci dicono soltanto che era stato arrestato in coincidenza di un tumulto, durante il quale era avvenuto un omicidio.
Ma ci fanno capire, tra le righe, che era totalmente estraneo ai disordini nei quali era stato coinvolto.
Esaminiamo ora il comportamento di Pilato.
Dopo aver condannati a morte sia Barabba che Gesù, sotto la pressione popolare, libera il primo, condannato a morte per un reato politico di sua pertinenza, e manda alla crocifissione (pena riservata ai ribelli politici) Gesù per un reato religioso di pertinenza esclusiva del sinedrio. Come possiamo spiegare un fatto così apertamente assurdo e contraddittorio?
Con l'ammettere che tutto si è svolto all'incontrario di quanto affermano i Vangeli. Barabba, prosciolto dall'accusa politica, ritenuta inconsistente anche dagli stessi Vangeli, viene liberato; Gesù, riconosciuto colpevole di insurrezione armata, reato politico gravissimo, viene condannato alla crocifissione.
A detta dei Vangeli la condanna a morte fu richiesta a furor di popolo. Le sorprese in questo processo non finiscono mai. Com'era possibile che la stessa gente che una settimana prima aveva acclamato esultante Gesù che entrava a Gerusalemme, col grido di "Osanna al di figlio di David, al re d'Israele", ora, la stessa folla, ne richiedesse con urla feroci la condanna a morte?
E che di fronte a Pilato che si lavava le mani per affermare, simbolicamente, la sua innocenza, gridasse imbestialita: "Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli" (Matteo 25,25), invocando su di sé e i suoi discendenti la più spietata automaledizione della storia?
È chiaro che una simile cosa non è mai potuta accadere e che questi avvenimenti sono stati inventati per la necessità ideologica dei Vangeli di far ricadere la colpa della condanna di Gesù esclusivamente su chi quella colpa non l'ha mai avuta, cioè il popolo ebraico.
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giovedì 26 febbraio 2015

Il primato papale contraddice le concezioni di tutti gli antichi Padri della Chiesa. 201

Il più antico elenco a noi noto dei vescovi romani, l’annuario ufficiale dei Papi,
riporta quale primo vescovo della città un certo Lino che avrebbe ricevuto l’incarico dell’ufficio episcopale addirittura da Pietro e Paolo. Successivamente Lino venne retrocesso al secondo posto per consentire all'apostolo Pietro di essere considerato il primo vescovo di Roma. Ma questo elenco papale, il celebre Liber Pontifìcalis,
messo insieme intorno al 160 da uno straniero, il cristiano d’oriente Egesippo, sulla cui vera identità si nutrono pesanti dubbi, secondo molti storici sarebbe del tutto inattendibile.

Persino taluni dotti cattolici devono ammettere che nella prima parte, quella più antica, il libro pontificale è una contraffazione che non offre nulla all’attenzione dello storiografo. Anche gli anni dei singoli episcopati calcolati fino al 235 sono arbitrai e del tutto approssimativi. A ciò si aggiunga che i vescovi di Roma per più di due secoli non si interessarono mai della presunta introduzione del primato ad opera di Gesù. Anzi tutta quanta la Chiesa antica nulla sapeva di un primato onorifico e giurisdizionale del vescovo di Roma. Insomma, i più antichi vescovi di Roma non furono «Papi» e nemmeno vollero esserlo; fu solo nel corso di un lungo periodo storico che crebbero le pretese egemoniche dei loro successori, e trascorsero secoli prima che avanzassero la pretesa alla guida universale della Chiesa.

Su imitazione dell’amministrazione imperiale romana, nel corso del III secolo ai vescovi delle capitali delle provincie, i Metropoliti, venne riconosciuto il predominio sugli altri vescovi, per cui singole sedi episcopali guadagnarono via via un’importanza particolare. In tal modo, ad esempio, il vescovo di Alessandria godeva di un’autorità superiore sui circa cento vescovi d’Egitto, quello di Cartagine su quelli africani, quello di Antiochia su gran parte dell’episcopato siriaco, quello di Roma sulla Chiesa italiana, ma non sul resto dell’Occidente.

Ma poiché Roma era da secoli considerata la capitale del mondo, nel IV secolo tale privilegio onorifico cominciò ad essere attribuito anche alla Chiesa romana. Ma ancora agli inizi del V secolo il Papa Anastasio si considerava capo
solo dell’Occidente, e fino a Leone I (440-461) i vescovi romani perseguirono il consolidamento del loro Patriarcato sull’Occidente piuttosto che il primato sull’intera
comunità. Leone I , per primo elaborò la teoria del primato papale basandosi sul Canone VI di Nicea, che in una traduzione latina, risalente agli anni successivi al 445, reca l’intitolazione "De primatu ecclesiae Romanae" e sostiene già nella prima frase che la Chiesa romana possedeva da sempre il primato (primatum) su tutti i vescovi cristiani. Ma questo canone è considerato un falso
.
Però, proprio durante il pontificato di Leone I, il Concilio di Calcedonia del 451 - con
circa seicento vescovi il più grande della Chiesa antica - stabilì nel Canone 28
l'equiparazione dei vescovi romani e di quelli costantinopolitani. Infatti, dopo il trasferimento a Costantinopoli della residenza imperiale, il Patriarca della nuova capitale divenne un pericoloso avversario del vescovo di Roma, anche perché la Chiesa d’Oriente non pensò mai di riconoscere la superiorità di quella romana.







Liber pontificalis


martedì 24 febbraio 2015

29 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte prima. La passione 5

Torniamo a Pilato che quando vide Gesù condotto in catene davanti a sé, chiese stupito ai sinedriti, come se in quel momento cadesse dalle nuvole, di quale accusa era imputato quell'uomo. Incredibile! Aveva mandato in piena notte seicento soldati ad arrestarlo e non sapeva perché l'aveva fatto!
Non è tutto! I sinedriti, che nella casa di Caifa avevano condannato a morte Gesù per bestemmia, con un incredibile voltafaccia cambiarono allora il capo d'accusa imputando Gesù di gravi reati contro il potere imperiale di Roma. Insomma una farsa in piena regola! Scrive Luca: "...lo condussero da Pilato e cominciarono ad accusarlo: «Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re» (Luca 13,2). In altre parole, ti denunciamo un Messia, pretendente al trono dì Israele, un nemico mortale di Roma. E di fronte all'incredulità del prefetto: «Non trovo nessuna colpa in quest'uomo» (Luca 23,3) nonostante le ammissioni esplicite di Gesù allo stesso Pilato di considerarsi il Re dei Giudei, essi rincararono la dose: «Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea fino a qui»" (Luca 23,55). Più ribelle di così! Altro che un predicatore di pace e di non-violenza!
I colpi di scena non sono ancora finiti. Ci pensa Luca, il più fantasioso dei quattro evangelisti, a presentarci il prossimo.
Gli altri tre evangelisti a questo proposito sono completamente muti. Si tratta del trasferimento di Gesù davanti ad Erode Antipa, figlio di Erode il Grande. Quando Pilato venne a sapere che Gesù proveniva dalla Galilea, sottoposta alla giurisdizione di Erode, cercò di scaricare su di lui, presente in quel momento a Gerusalemme, la responsabilità di giudicare Gesù.
Altra assurdità in quanto l'imputato deve sempre essere giudicato nel luogo in cui ha commesso il reato non in quello della sua provenienza. Comunque Erode, deluso per il comportamento di Gesù (aveva rifiutato di compiere prodigi in sua presenza), lo rispedì a Pilato senza emettere alcun verdetto contro di lui e limitandosi solo a schernirlo.
Il processo continuò con Gesù chiuso nel più stretto silenzio (forse nell'aspettativa che il popolo si sollevasse e lo liberasse dai sacerdoti e dai romani) e, nonostante il procuratore romano avesse dichiarato di non trovare in lui nessuna colpa ed Erode lo avesse rispedito senza riconoscergli alcun reato, si concluse con un'assurda condanna a morte di Gesù "per innocenza" al solo scopo (vorrebbero farci credere i Vangeli) di accontentare i giudei che lo accusavano di blasfemia.
Una autentica assurdità. Il Diritto Romano, cui ogni "Legatus Augusti pro praetore" doveva rigorosamente adeguarsi, imponeva l'eliminazione di chiunque avesse apertamente contestato il dominio romano. Stando dunque ai Vangeli, la personalità di Pilato ci appare pavida, cedevole e totalmente stupida, in contrasto con quanto ci tramandò di lui la storia.
Il re Agrippa I, che non era certo uno stinco di santo e che fece decapitare l'apostolo Giacomo, figlio di Zebedeo, e forse anche il fratello Giovanni, considerava Pilato, in una sua lettera a Filone, un "uomo rigido, crudele e spietato". Filone stesso, contemporaneo di Gesù, rincara la dose accusando nei suoi scritti il prefetto romano di "reiterati e sistematici massacri di persone senza processi né condanne".
A dimostrazione di ciò vale la pena di ricordare un solo episodio. Quando Pilato mise mano al tesoro del Tempio per costruire un acquedotto, prevedendo la rivolta popolare mescolò alla folla i suoi soldati travestiti perché potessero massacrare, a bastonate, i capi dei ribelli, come ci racconta Giuseppe Flavio: “con l’ordine di non usare le spade, ma di picchiare i dimostranti con bastoni [..]. I Giudei furono percossi e molti morirono per i colpi ricevuti, molti calpestati da loro stessi nel fuggi fuggi" (Giuseppe Flavio, Guerra Giudaica, II, op. cit.).
Ciò accadde nell'anno 30 d.C., quindi in prossimità della crocifissione di Gesù. Nel 36 d.C. a causa della sua ferocia vendicativa, Pilato fu destituito per ordine del legato di Siria Aulio Vitellio (poi imperatore) e processato. Quindi, era un uomo crudelissimo e determinato, per nulla corrispondente a come ce lo rappresentano i Vangeli. Una cosa è certa: nessun governatore romano si sarebbe lasciata imporre una decisione, come quella di condannare a morte Gesù, dagli schiamazzi della folla, ed è altrettanto certo che non avrebbe mai potuto emettere una sentenza di morte se non fosse stata giuridicamente motivata da accuse, riconosciute fondate, di rivolta politica antiromana e di sedizione armata. Quindi, Pilato non avrebbe mai potuto far giustiziare barbaramente sulla croce Gesù se fosse stato un innocuo pacifista disarmato, che predicava un messaggio puramente spirituale, e i soldati romani non lo avrebbero trattato con dileggio, come ribelle pericoloso, come sedicente “re dei giudei”, se fosse stato un vero messaggero di amore universale.
Singolare è stato il trattamento subito da Pilato da parte della Chiesa pre-costantiniana, la quale, per ingraziarsi Roma, giunse quasi a santificarlo insieme alla moglie Procla o Procula (ed è tuttora canonizzato sia dalla Chiesa Copta, sia da quella Etiopica).
Ma, dopo il trionfo del cristianesimo, secondo Eusebio di Cesarea, venne fatto morire nei modi più atroci: decapitato, annegato nel Tevere, perseguitato da frotte di demoni, e così via.

venerdì 20 febbraio 2015

2 8- “L'invenzione del cristianesimo” - Parte prima. La passione. 4

Giunta l'alba, che probabilmente dava inizio alla vigilia della Pasqua (ma non ne siamo certi perché i Vangeli sono discordi anche su questo), Gesù incatenato fu portato alla sede del presidio romano e consegnato al prefetto della Giudea, Ponzio Pilato.
Come mai Gesù, accusato di bestemmia, cioè di un reato religioso, viene consegnato ai romani per essere giudicato? Sotto il profilo giuridico la cosa non ha senso, perché Roma, ammettendo la più ampia libertà religiosa, non contemplava reati di quel genere. Al limite, era una faccenda puramente interna che gli ebrei dovevano sbrigare tra di loro (in base al principio giuridico romano "sui legibus uti"). E allora?
Gli arrampicatori sugli specchi adducono il pretesto che, non avendo in quel tempo gli ebrei la facoltà di emettere sentenze di morte, dovevano per forza ricorrere ai romani. Una bufala smentita da Giuseppe Flavio (Antichità Giudaiche, Libro 20 - Cap. 9) che spiega che era solo vietato agli ebrei eseguire condanne di morte mediante la spada o la croce ("jus gladii") riguardanti i delitti politici, mentre avevano la facoltà di procedere alla lapidazione, allo strangolamento ed alla decapitazione con la scure per gli altri reati. (v. Giovanni Battista e Stefano protomartire).
Nei Vangeli e negli Atti degli Apostoli si narra di lapidazioni eseguite per motivi religiosi, senza che le autorità romane siano mai intervenute, e molte volte Gesù stesso, stando ai Vangeli, rischiò la lapidazione o di essere gettato dal monte, se non avesse provveduto a mettersi in salvo (Luca 4,28-29 - Giovanni 8,59).
Anche Giacomo, fratello di Gesù, nonostante il grande favore popolare di cui godeva, non fu fatto lapidare dal sommo sacerdote Anania? Se fosse stato vero che Gesù era colpevole soltanto di un reato religioso, sarebbe stato lapidato sic et sempliciter come Stefano e come Giacomo, senza scomodare un esercito di soldati, senza subire la crocifissione, la più ignominiosa delle condanne, riservata solo ai ribelli politici, e senza l'iscrizione "Gesù re dei Giudei". Tutto ciò sembra lapalissiano. E i romani della sua lapidazione se ne sarebbero altamente infischiati.
Sul tradimento di Giuda Iscariota, ovvero di Giuda "sicario", più di uno storico ha sollevato dei dubbi scagionando l'apostolo da ogni addebito, adducendo il fatto che le motivazioni addotte per dimostrare il suo gesto: i trenta denari o l'irritazione per lo spreco dell'unzione nella casa di Betania, sono semplicemente ridicole. Comunque sulla fine di Giuda, il Vangelo di Matteo (l'unico dei quattro che accenna al fatto) e gli Atti discordano vistosamente.
Matteo ci racconta che Giuda, pentitosi del suo gesto, avrebbe gettato i trenta denari nel Tempio e si sarebbe impiccato. I sacerdoti, recuperata la somma, avrebbero comperato con essa il Campo del Vasaio, per la sepoltura degli stranieri, in adempimento delle profezie di Geremia (Geremia 32, 6) e Zaccaria (Zaccaria 11, 12-13). "E presero trenta denari d'argento, il prezzo del venduto, che i figli di Israele avevano mercanteggiato, e li diedero per il campo del Vasaio, come aveva ordinato il Signore" (Matteo 27,9-10). Abbiamo visto in precedenza che pur di far collimare le vicende del Messia con le profezie, gli evangelisti non esitarono ad inventare molti episodi. In questo caso la coincidenza tra la somma percepita da Giuda (trenta denari) e quella richiamata dalla profezia ci appare chiaramente sospetta.
Gli Atti danno una versione molto diversa della fine di Giuda ma bisogna saperla leggere tra le righe per capirla bene. Secondo questa versione Giuda non si pentì affatto del suo tradimento e coi trenta danari comperò un campo, ma poi ebbe una specie d'infortunio: cadde per terra, gli si squarciò il ventre e gli fuoriuscirono tutte le viscere. Strano, perché quello di squarciare con la spada il ventre dei traditori e di spargerne le viscere al suolo era il metodo seguito abitualmente dagli zeloti, e tra gli apostoli di zeloti ce n'erano più di uno, a cominciare da Pietro che non aveva esitato a tagliare l'orecchio a Malco e sicuramente non esitò a fare il karakiri a Giuda, che col suo tradimento aveva fatto fallire l'impresa (P.Zullino, Giuda, Rizzoli, Milano, 1998).
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giovedì 19 febbraio 2015

L'apostolo Pietro non fu mai a Roma e non fu il primo papa. 200

Nessun documento testimonia la presenza dell'apostolo Pietro a Roma, della sua carica episcopale e del suo martirio. Si tratta quindi di una una pura leggenda.
D’altra parte, si narra del viaggio a Roma e del successivo martirio in città dell’Apostolo Giovanni, di cui si sa con certezza che non ha mai messo piede nella capitale dell’impero. Eppure si favoleggia che sotto Domiziano sia stato gettato nell’olio bollente e quindi miracolosamente salvato (Tertulliano praescr. 36).

La cosa più incredibile riguardo la presenza di Pietro a Roma è che né Paolo, che scrisse da Roma le sue ultime lettere citando i nomi di molti dei suoi collaboratori, né gli Atti degli Apostoli, che arrivano fini al 62, accennano mai alla presenza a Roma di Pietro. Anche gli scritti cristiani fino alla metà del II secolo ignorano la questione. Infatti, il viaggio di san Pietro a Roma e la sua disputa con Simon Mago, la sua crocifissione ed altri episodi a lui riferiti, sono narrati esclusivamente in libri dichiarati apocrifi dalla Chiesa stessa, come gli Acta Petri.
Un gran numero di storici e di teologi ha negato, quindi, tout court, la presenza di Pietro a Roma. Uno di essi, il teologo K. Heussi, già nel 1936, dopo accurate analisi dei testi antichi, l'aveva esclusa categoricamente. (K.Heussi, Die roimische Petrustradition. in Theol. Literaturzeitung, 1959, nr. 5, 359 sgg.).
Più recentemente lo storico Michael Grant (Saint Peter, Penguin Books, London, 1994) ha messo in evidenza che ci sono otto incontrovertibili motivi che negano sia la presenza romana di Pietro, sia il suo presunto status di vescovo della città. Uno di questi è che se Pietro si fosse trovato a Roma all'arrivo di Paolo (o che fosse ancora vivo il ricordo di una sua precedente venuta), Luca ne avrebbe sicuramente data menzione nell'ultimo capitolo degli Atti, come aveva menzionato gli altri incontri tra i due a Gerusalemme e ad Antiochia.

Anche il presunto ritrovamento del sepolcro di San Pietro, inteso come prova archeologica della sua sepoltura, è stato più volte annunciato e altrettante volte smentito, perché di esso non è stata trovata una traccia sicura. Quindi, la presenza a Roma e la cattedra pontificia di Pietro costituiscono uno dei falsi più vistosi della Chiesa, finalizzato a suffragare il dogma dell’episcopato universale del vescovo di Roma. Pietro quindi non fu né il primo vescovo di una presunta successione apostolica né, tanto meno, il primo papa.

La Chiesa adduce a prova del martirio di Pietro e Paolo la persecuzione subita dai cristiani nell'anno 64 da parte di Nerone in seguito all'incendio di Roma; persecuzione, però, considerata falsa da parte di molti storici . Ma di questo martirio non c'è traccia in nessun documento storico e nemmeno ecclesiastico del primo secolo.
Secondo l'abate cattolico francese Louis Duchesne, autore di una monumentale e rigorosa storia della Chiesa (L.Duchesne, Histoire ancienne de l'Eglise, Paris, Fontemoing, 1911) e di un Liber Pontificalis (L.Duchesne, Liber Pontificalis, t. I-Il, Parigi 1886-1892. Riedizione con un terzo tomo di C. Vogel, Parigi 1955-1957), ricavati dagli archivi del Vaticano, che ricostruiscono con grande rigore storico la genealogia dei pontefici, i primi nove vescovi di Roma, compreso lo stesso Pietro, erano da togliere perché mai esistiti.

Infatti, la carica episcopale monarchica si impose a Roma soltanto nel IV secolo e per molto tempo tutti i vescovi furono considerati alla pari e nessuno di loro godette di uno stato privilegiato rispetto agli altri. Per Cipriano, Padre della Chiesa, non esisteva un vescovo dei vescovi, poiché nessuno poteva costringere all’obbedienza con autorità tirannica i propri confratelli. Solo nel IV secolo, ad imitazione dell’amministrazione imperiale romana, i vescovi dei capoluoghi delle province acquisirono il controllo dell'intera loro regione e furono chiamati metropoliti.
I metropoliti erano quattro: quello di Alessandria che controllava l'Egitto, quello di Antiochia che guidava l'episcopato siriaco, quello di Cartagine che sovrintendeva all'episcopato dell'Africa del nord, e, infine, quello romano che vigilava sulla Chiesa italiana ma non sul resto dell’Occidente.

I vescovi di Roma nei primi secoli non si interessarono mai della presunta introduzione del Primato di Pietro. Solo nel V secolo un decreto di Papa Gelasio I, inteso a stabilire l'autenticità dei 27 testi del Nuovo Testamento, decretò anche l'istituzione del primato papale su tutti i vescovi della cristianità, basandosi sul passo di Matteo: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa.... Io ti darò le chiavi del regno dei cieli; tutto ciò che legherai in terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai in terra sarà sciolto nei cieli" (Matteo 16,18-19).

Ma questo è un altro clamoroso falso, come tanti altri passi, aggiunto al Vangelo di Matteo dopo il IV secolo, quando si consolidò il concetto di Chiesa, travasando in essa l’intero edificio giuridico romano. Al tempo di Matteo, ovviamente, nessuno era a conoscenza di questa istituzione non ancora inventata. Quindi il papato non deriva da questo passo del Vangelo di Matteo, unico dei Sinottici a riportarlo, quantunque anche Marco e Luca narrino la medesima scena (Marco 8:27-30 e Luca 9:18) .

Se fosse vero che Gesù intendeva fare di Pietro "il primo papa", ci sarebbe almeno qualche allusione negli Atti degli Apostoli, nelle Lettere di Paolo, o nel resto del Nuovo Testamento. Invece in questi testi non risulta nemmeno una sola volta  che Pietro abbia esercitato nella Chiesa primitiva una funzione di comando. Anzi, quando si riunisce il primo Concilio a Gerusalemme, questo viene presieduto da Giacomo, uno dei fratelli di Gesù, e non da Pietro, che pure era presente. Solo con Gelasio I si può, quindi, ipotizzare l'istituzione del papato. Il termine papa (padre), inizialmente titolo onorifico di tutti i vescovi per parecchi secoli, solo con l’inizio del secondo millennio diventò prerogativa esclusiva del vescovo di Roma.


Louis Duchesne


martedì 17 febbraio 2015

27- “L'invenzione del cristianesimo” - Parte prima. La passione 3

Tornando a quella notte drammatica e convulsa, rileviamo che l'unico apostolo a seguire, alla lontana, Gesù dopo il suo arresto, malgrado fosse in grave pericolo a causa del suo intervento armato contro il servo del sommo sacerdote Malco, fu Pietro. L'episodio che concerne il suo ripetuto rinnegamento di essere un seguace del presunto Messia, merita due considerazioni.
1.Anzitutto, il fatto ch'egli poté, per intercessione di un altro discepolo, noto al sommo sacerdote ma che l'evangelista Giovanni rende anonimo, accedere al cortile della casa di Caifa. Chi era quel discepolo? La tradizione vuole che fosse lo stesso Giovanni che racconta il fatto, ma una supposizione del genere non regge minimamente.
Il personaggio in questione, per essere noto al sommo sacerdote e per aver libero accesso alla sua casa, doveva essere di Gerusalemme o dei dintorni della città, e rivestire un ruolo importante nell'ambiente del Tempio. Possiamo azzardare qualche nome: Giuseppe d'Arimatea o Nicodemo. I due sinedriti, che erano di indubbio spessore essendo riconosciuti nei Vangeli come capi dei giudei e chiaramente sostenitori di Gesù (li troveremo al momento della deposizione e della sepoltura), sono i candidati più plausibili.
2. La seconda considerazione che dobbiamo fare a proposito della presenza di Pietro nel cortile di Caifa è che, nell'accusa che i servi della casa gli rivolgono con insistenza, è ripetuto l'epiteto di Galileo. "Anche tu eri con Gesù, il Galileo", "Anche tu sei un Galileo". Termine che potrebbe sembrare a chiunque lapalissiano, indicare cioè la provenienza dalla Galilea. E invece non è così. Questo pseudo attributo geografico in realtà censura il vero significato del termine che significava, in quel tempo, "ribelle, zelota, sicario". Com'era nata questa attribuzione? In seguito al più pericoloso tentativo di rivolta messianica, avvenuta nel 7 d.C. in concomitanza col primo censimento della Giudea, cui abbiamo accennato più volte in precedenza.
Da allora il termine Galileo perse ogni sua connotazione geografica per acquisire il significato politico inequivocabile di appartenenza alla setta dei partigiani jahvisti, osannati dai messianisti come patrioti e considerato feroci briganti da tutti gli altri. La conferma ci viene, oltre che da Giuseppe Flavio, anche da Eusebio di Cesarea, Padre della Chiesa e storico ecclesiastico, che ci spiega come questo termine, ai tempi di Gesù, indicasse chi apparteneva alla setta degli zeloti (Eusebio di Cesarea, Storia Ecclesiastica, IV, 23, 7, op. cit.). Da quanto detto risulta chiaro che nessun abitante della Galilea, uscendo dalla sua regione, si sarebbe definito Galileo per non incorrere in spiacevoli malintesi. Quindi, l'epiteto rivolto a Pietro dai servi di Caifa era un chiaro riferimento alla sua appartenenza agli zeloti.
Ma, tornando al processo giudaico, facciamo osservare che il primitivo Vangelo di Marco non lo conteneva, confermandoci che questo processo fu aggiunto posteriormente per spoliticizzare Gesù e scagionare i romani.


venerdì 13 febbraio 2015

26 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte prima. La passione 2

Cominciamo con l'esaminare il comportamento dei seguaci di Gesù all'arrivo dei soldati. Uno degli apostoli, (secondo Giovanni e Luca, l'apostolo Pietro) fece un tentativo di resistenza armata, estrasse una spada e tagliò netto l'orecchio di un servo del sommo sacerdote di nome Malco (Giovanni 18,10).
Come mai in quel ritiro pacifico di uomini in preghiera, come viene descritto dagli evangelisti, c'erano degli individui armati? Ce lo spiega il Vangelo di Luca, riportando le parole proferite da Gesù durante la cena che s'era appena conclusa. "Ed egli (Gesù) soggiunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una». (Luca 22, 36-37). Dunque gli apostoli erano armati e tra essi Pietro si mostrò molto abile nell'uso della spada. È molto emblematico anche che nel quarto Vangelo si parli di indietreggiamento e di caduta a terra dei soldati romani durante l'arresto, segno indubbio che ci fu uno scontro vero e proprio, qualcosa di molto grave insomma (Giovanni 18,6). D'altra parte non aveva senso scomodare seicento soldati romani, in piena notte e in assetto di guerra, e molte guardie del Tempio (Luca chiama in causa anche grandi sacerdoti e sinedriti) solo per arrestare il capo di uno sparuto gruppo di inermi popolani, in un ritiro notturno di preghiera.
Una piccola menzione merita anche il luogo dello scontro, il cosiddetto Monte degli Ulivi. Le precedenti sommosse antiromane (ce ne furono parecchie in quegli anni) partirono sempre da quel monte. Gli insorti, infatti, si radunavano lì prima di tentare l'assalto al presidio romano della Torre Antonia. Sotto Nerone un ennesimo Messia riuscì a raccogliere sullo stesso monte 30 mila seguaci.
Secondo gli evangelisti, dopo l'arresto, Gesù fu condotto nella casa privata del sommo sacerdote Caifa per un sommario processo, esclusivamente ebraico. Certamente questo non corrisponde al vero. Se, infatti, erano intervenuti i soldati romani, il ribelle o i ribelli avrebbero dovuto essere rinchiusi nella Torre Antonia, sede dal presidio romano. (Vedremo che Paolo al suo arresto a Gerusalemme verrà rinchiuso proprio in quella Torre).
Quindi, i modi, il luogo, la dinamica temporale e tanti altri elementi che appaiono assolutamente incompatibili con la prassi giudiziaria ebraica, ci dicono che quello fu un processo inventato a posteriori e aggiunto dopo il 70, o forse dopo il 135, per opera dei seguaci di Paolo, allo scopo di scagionare i romani della responsabilità di aver condannato Gesù e per farla ricadere esclusivamente sulle spalle del popolo ebreo. Infatti, il processo giudaico è una farsa perché porta tutti i segni della illegalità. Anzitutto, non è in una casa privata che si poteva celebrare un processo alla presenza di sacerdoti, anziani e scribi. Anche perché il luogo pubblico addetto alla convocazione del sinedrio era poco lontano e si chiamava "Beth Din". Ma forse gli estensori dei Vangeli, quando inventarono questo processo, non essendo ebrei, non lo conoscevano. In secondo luogo non si celebrava un processo di notte e per direttissima. Le leggi ebraiche di allora prescrivevano il tempo minimo di due giorni per un processo. Anche la dinamica processuale è assurda. I testimoni sono inesistenti e le accuse di carattere religioso molto vaghe e non dimostrate. Ma l'atmosfera, pesantemente drammatica di quella notte, riecheggiava la precedente convocazione del sinedrio durante la quale la tragica fine di Gesù, come abbiamo visto in precedenza, era stata decisa non in base a motivi religiosi ma squisitamente politici perché riguardavano unicamente il suo ruolo messianico-jahvista, come ci racconta Giovanni (11, 47-50). Le parole pronunciate da Caifa in quell'occasione: “ è meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera»" non lasciano adito a dubbi sulla pericolosità politica di Gesù e sulle necessità del suo arresto tempestivo, all'indomani del suo ingresso trionfale a Gerusalemme acclamato dalle folle come l'atteso Messia, e che escludono a priori che si riferiscano ad un mistico maestro di amore fraterno.
Le catastrofiche Guerre Giudaiche del 70 e del 135 d.C. sono la dimostrazione che le preoccupazioni dei sinedriti erano più che legittime e che la distruzione del Tempio e dell'intera Palestina dipesero dai continui tentativi di rivolta scatenati da fanatici messianisti come il Gesù storico. Ciò spiega anche il motivo per cui Paolo, in seguito, sarà spinto a ridisegnare completamente la figura e il messaggio di Cristo e a demessianizzarli completamente.
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giovedì 12 febbraio 2015

L'editto di Claudio del 49 d.C. 199

La tensione tra i giudei cristiani, legati al messianismo jahvista, e i giudei della sinagoga, che invece volevano semplicemente osservare i precetti della Torah e occuparsi dei fatti loro, esplose violenta nel 49 e costrinse l'imperatore Claudio ad espellere dalla capitale sia gli ebrei della diaspora sia quelli della setta cristiana perché (secondo Svetonio) erano continuamente in tumulto per istigazione di Chrestus, (deformazione del nome Cristo?). Naturalmente i romani non ancora in grado di fare delle distinzioni precise tra i seguaci delle due sette ebraiche (Suet., Claud. 25, 3).

Questo episodio è molto significativo e ci fa capire perché anche Paolo, durante il suo apostolato in Asia, entrasse spesso in conflitto con gli ebrei della sinagoga e fosse più volte da loro percosso e minacciato di lapidazione. Gli ebrei della diaspora, infatti, più o meno integrati coi gentili, non condividevano le deliranti aspettative messianiche dei correligionari rimasti in Palestina, anzi le rigettavano con fastidio, consapevoli della loro pericolosità politica. Essi avevano accettato l'impero romano come un dato di fatto e il messianismo era chiaramente incompatibile con questa loro accettazione e con l'esenzione, loro concessa dai romani, di quanto potesse essere contrario alla loro fede.

Questi ebrei non volevano saperne della fine dei tempi e del ritorno del Risorto, che probabilmente consideravano un falso Messia, volevano soltanto rimanere fedeli alla Torah, essere lasciati in pace e occuparsi dei fatti loro. Consideravano Paolo e i suoi collaboratori degli istigatori. "Quei tali che mettono il mondo in subbuglio sono qui…Tutti costoro vanno contro i decreti dell'Imperatore affermando che c'è un altro re, Gesù" (Atti 17,6-7).

Ambrogio Donini in “Storia del Cristianesimo”, Teti, Milano, 1975, a proposito del nome di cristiani afferma: “Il nome di cristiani è nato in un ambiente non palestinese e veniva usato in senso d'ironico disprezzo (gli “unti”, gli “impomatati”) per distinguere gli ebrei della Sinagoga (ortodossi) dai nuovi convertiti, considerati gente strana, dalla lunga capigliatura, un po' come i nostri capelloni.” Chiaro riferimento al loro voto di nazireato che li costringeva a non far uso di forbici e rasoio. Naturalmente questi erano i cristiano-giudei legati alla Chiesa di Gerusalemme, non i pagano-cristiani fondati da Paolo dopo la sua apostasia dall'ebraismo.


Claudio imperatore


martedì 10 febbraio 2015

25 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte prima. La passione 1

Il tradimento, l'arresto, il processo ebraico e romano, il supplizio, la morte e infine la resurrezione, nel modo in cui sono narrati nei Vangeli, confermano la supposizione della maggior parte degli studiosi che ritengono questi testi risalenti, nella loro forma attuale, a dopo le fatidiche distruzioni di Gerusalemme del 70 e del 135 d.C., e la loro stesura a mani non ebraiche ma gentili.
Nelle due guerre giudaiche del 70 e del 135, infatti, le armate romane, in seguito alle continue insurrezioni di tipo messianico, annientarono definitivamente lo Stato ebraico, cacciarono la totalità dei suoi abitanti dalla Palestina e, praticamente, cancellarono non solo l'intera comunità ebraica ma anche la Chiesa giudaico-cristiana di Gerusalemme.
La Chiesa neocristiana ed ellenistica fondata nel frattempo da Paolo, in opposizione a quella di Gerusalemme, che, come vedremo in seguito, si era ampiamente diffusa in tutte le contrade dell'Impero, divenne, allora, l'incontrastata padrona del campo, senza più nemici e rivali, ma fu politicamente collegata al popolo ebraico che si era dimostrato il nemico più implacabile di Roma.
Infatti, i cristiani apparivano, loro malgrado, gli eredi della religione ebraica e venivano ritenuti, a causa delle guerre del 70 e del 135, una forza rivoluzionaria perniciosa e pericolosa all'interno dell'impero romano. Bisognava, quindi, far apparire il suo fondatore del tutto estraneo alle tensioni messianiche del tempo.
Gli evangelisti, trovandosi in un clima persecutorio nei confronti dei cristiani, ritennero allora che accusare i giudei e non i romani della condanna a morte di Gesù, accreditare l'immagine di un Gesù pacifista e non messianico, che invitava ad amare i nemici (anche i romani, odiati visceralmente da tutto il popolo ebreo), a dare a Cesare quello che era di Cesare e a sacrificarsi come gli dei pagani salvifici per il bene dell'umanità, fino a diventare oggetto di un culto teofagico, potesse far superare la diffidenza verso la nuova religione e conciliarla con l'Impero.
Ecco allora l'invenzione del processo ebraico e la creazione, durante l'arresto di Gesù, di numerosi episodi assurdi e incongrui, intesi a nascondere o a travisare gli accadimenti reali di quella drammatica notte. Noi, leggendo i Vangeli tra le righe e in controluce, metteremo in evidenza tutte queste contraddizioni e cercheremo di stabilire una possibile verità storica. Cominciamo dall’arresto. Gli evangelisti vogliono farci credere che l'arresto di Gesù avvenne per ordine delle autorità del Tempio e per motivi squisitamente religiosi. Gesù si era proclamato Figlio di Dio, andava quindi punito come bestemmiatore.
Tesi assolutamente assurda e che non riesce a spiegare le macroscopiche incongruenze che accompagnarono l'avvenimento: l'urgenza dell'arresto, la complicità di un traditore e lo spiegamento di forze romane. Quella notte, prossima ad una ricorrenza sacra importantissima per gli ebrei, era il momento meno opportuno per l'arresto di un innocuo predicatore reo, al massimo, secondo i Vangeli, di essersi proclamato Figlio di Dio, cosa che per gli ebrei si poteva risolvere con la lapidazione decisa dal sinedrio o a furor di popolo.
Quindi l'accusa di blasfemia in nessun caso richiedeva un così urgente e drammatico intervento. E che bisogno c'era che un traditore con un bacio ne evidenziasse la persona, dal momento che Gesù, a detta degli stessi evangelisti, era conosciutissimo in tutta Gerusalemme e da tutte le personalità del Tempio, comprese le guardie?
Una settimana prima era entrato nella città santa tra un tripudio di gente che lo aveva acclamato festosa come il figlio di David, il nuovo re d'Israele. E nel Tempio discuteva tutti i giorni coi sacerdoti e i farisei di teologia e di giustizia e ne aveva scacciato i mercanti che lo profanavano, suscitando grande scandalo. E, infine, come spiegare che per arrestare un inerme e mite propugnatore della non-violenza, dell'amore del prossimo, occorresse una coorte di soldati romani (Giovanni parla chiaro:  in greco, cohortem in latino, ma ma per la Chiesa, in base alla sua traduzione fuorviante, un vago “distaccamento”), cioè di seicento legionari armati di tutto punto, oltre naturalmente le guardie del Tempio. Cosa c'entravano i soldati romani e in un numero così spropositato col reato di bestemmia, visto che Roma ammetteva in tutti i territori dell'Impero la massima libertà religiosa, e per la cattura di un individuo che i Vangeli ci tramandano come mite e ascetico?
A questo punto una domanda è inevitabile: Gesù venne arrestato per la sua scarsa ortodossia religiosa (e allora cosa c'entravano i soldati romani?) o perché si voleva sedare un'incipiente rivolta armata contro il potere imperiale da lui preparata? Se, come i fatti descritti dimostrano, questa risposta è l'unica valida perché Gesù, convinto di essere il Messia profetizzato dalle Scritture, nella notte del Monte degli Ulivi voleva attuare un colpo di Stato, fallito per l'opposizione dei sacerdoti e degli erodiani, allora tutto è chiaro, anche il gesto di Giuda. Il compito del traditore, infatti, non fu quello, stranamente superfluo, di indicare, col bacio convenuto, il personaggio conosciutissimo da tutti a Gerusalemme, ma di avvertire i sacerdoti tempestivamente che la sommossa stava per avere inizio, al fine di cogliere i rivoltosi di sorpresa, prima che ricevessero eventuali rinforzi da parte del popolo, e di bloccare così l'insurrezione sul nascere.
Ecco allora perché i sacerdoti aspettavano un segno dal traditore e perché era intervenuto un vero esercito. Questa tesi, destinata senz'altro a suscitare un vespaio in chi crede pedissequamente nella tradizione del Gesù solo salvatore spirituale, vedremo che verrà suffragata da ulteriori dimostrazioni nel seguito della passione.





venerdì 6 febbraio 2015

24 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte prima. L'ultima cena.

L'entrata trionfale a Gerusalemme cavalcando l'animale profetizzato per il Messia, la cacciata dei profanatori del Tempio, la cena dell'unzione a Betania, e soprattutto l'ultima cena, furono gli avvenimenti più significativi degli ultimi giorni della vita di Gesù, che dovevano preludere all'inizio dell'insurrezione armata. La domanda più ovvia a questo proposito potrebbe essere: com'era possibile che un così sparuto gruppo di ribelli, sia pure appoggiato indirettamente da alcuni importanti capi dei giudei, come erano ritenuti Nicodemo e Giuseppe d'Arimatea, osasse sfidare la potente guarnigione militare romana, acquartierata nelle Torre Antonia? Una sfida senza senso ai nostri occhi ed anche per le autorità del Tempio.
Ma i messianisti, nel loro delirante fanatismo, ragionavano in altro modo. Anzitutto s'aspettavano l'incondizionato appoggio delle masse popolari, sempre pronte a dare ascolto a chiunque si proclamasse Messia e a seguirlo fino al martirio (vedi il caso più clamoroso ricordato in precedenza, quello di Giuda il Galileo crocifisso con duemila seguaci), ma soprattutto erano convinti che Jahvè sarebbe intervenuto con le sue schiere celesti a dar man forte a chi, nel suo nome, lottava per dar vita al nuovo Regno di Dio.
Ciò premesso, vediamo cosa accadde nell'ultima cena. Per i Sinottici il fatto più saliente avvenuto durante questo convivio che avrebbe dovuto segnare l'inizio della rivolta, fu l'istituzione dell'eucaristia che essi descrivono plagiando le parole di Paolo che affermava, nella prima Lettera ai Corinzi (1 Corinzi 11, 23-29) di averla ricevuta direttamente dal Signore, durante una sua visione celeste. "Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: «Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me». Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunziate la morte del Signore finché egli venga" (1 Corinzi 11,23-26). Parole identiche a quelle che troviamo nei Sinottici, scritti alcuni decenni dopo, copiando Paolo. Come spiegare allora che il quarto evangelista, che secondo la tradizione era un apostolo e quindi presente all'avvenimento, ignori totalmente l'istituzione dell'eucaristia, pur dedicando una maggiore attenzione, rispetto ai Sinottici, ad alcuni particolari importanti, come la lavanda dei piedi, ignorati dagli altri? In realtà, questo sacramento cristiano è una totale invenzione di Paolo. Egli, nella costruzione del suo cristianesimo personale che esamineremo in seguito, adottò la liturgia teofagica (consistente nel cibarsi della carne e del sangue di un dio immolato) a similitudine di quella praticata nei riti pagani in onore del dio Mitra e di altre divinità legate ai culti misterici, molto diffusi a Tarso, città natale di Paolo. Questo sacramento, nella teologia paolina rappresentava la natura sacrificale della morte di Gesù che Paolo vedeva nella stessa luce in cui i seguaci di Mitra e di Eracle vedevano la morte del Toro immolato.
La mistica transustanziazione (il cambiamento cioè del pane e del vino nel corpo e nel sangue del Signore), per quanto puramente simbolica, non solo era del tutto estranea alle concezione ebraiche del tempo, ma addirittura ritenuta empia e blasfema. Prova lapalissiana che derivava dai riti misterici praticati dai gentili. Conclusa la cena, Gesù si recò coi suoi sul Monte degli Ulivi, che forse era il luogo convenuto per il raduno degli insorti. La contraddizione tra Giovanni e i Sinottici sul comportamento di Gesù nell'orto di Getsemani è assoluta. Mentre il Gesù sinottico, in preda ad uno stato di profondo abbattimento fino a sudar sangue, prega, faccia a terra, per rassegnarsi alla volontà divina, il Gesù giovanneo non mostra alcuna traccia di questa agonia e si comporta senza alcuna insicurezza umana. Sembrano due personaggi totalmente diversi.
La stessa contraddizione la noteremo al momento dell'arresto. Nei Sinottici è il bacio di Giuda a indicare Gesù ai suoi nemici; nel quarto Vangelo invece è Gesù che, con tranquilla sicurezza, affronta i soldati dicendo: “Sono io quello che cercate”.
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giovedì 5 febbraio 2015

La prima comunità cristiana di Roma era improntata al messianismo giudaico. 198

La comunità cristiana di Roma non venne fondata da Pietro, che mai soggiornò nella città, ma si formò abbastanza presto ad opera di ignoti giudeo-cristiani, verosimilmente con una «sinagoga speciale». All’epoca si trovavano a Roma circa 50.000 ebrei, diffusi in tutta la città, con tredici sinagoghe e numero si cimiteri.

Come quasi dappertutto, anche qui la comparsa dei cristiani diede luogo a scontri tra i giudei della diaspora, rimasti fedeli alla sinagoga, e i cristiano-giudei che si erano introdotti tra di loro per propagandare la nuova dottrina della parusia.

Probabilmente questi cristiano-giudei seguaci di Stefano, il protomartire cristiano, da Antiochia, dove si erano rifugiati per sfuggire alla persecuzione di re Agrippa di Gerusalemme, si erano trasferiti a Roma e con la loro predicazione dell'imminente ritorno di Gesù dal cielo per creare il nuovo Stato santo d'Israele, avevano gettato scompiglio nella numerosa e piuttosto malvista, a detta di Orazio e Giovenale importanti poeti latini, comunità ebraica.

Secondo gli storici romani Tacito e Svetonio questa setta cristiana era animata da odio non solo contro i romani ma addirittura contro l'intero genere umano. A giustificazione di questo loro giudizio, piuttosto pesante, va ricordato che i cristiani ebrei di Roma erano fortemente imbevuti di messianismo e consideravano imminente la distruzione dell'impero romano per opera di Jahvè.

A riprova di ciò basti citare quanto scriveva allora Giovanni, l'autore dell'Apocalisse, nel suo libro profetico, considerato rivelato dalla Chiesa Cattolica: "Ecco, (Cristo) viene sulle nuvole e ognuno lo vedrà; quelli che lo trafissero (cioè i romani) e tutte le nazioni della Terra si batteranno il petto per lui" (Apocalisse 1,7). E prosegue definendo Roma come la grande Babilonia, la madre delle meretrici e degli abomini della Terra e auspicando una sua distruzione imminente. Parole che denunciavano un clima infuocato ed esaltato da parte di questa minoranza cristiana.




Tacito


martedì 3 febbraio 2015

23- “L'invenzione del cristianesimo” - Parte prima. I due errori fatali di Gesù. 2


L'assalto al Tempio avvenne obbedendo a due istanze molto sentite dagli esseni: denunciare il degrado in cui era caduta la casa di Dio, ridotta a spelonca di mercanti e di cambiavalute, a mattatoio crudele di vittime innocenti (ricordiamo che durante la celebrazione delle feste pasquali venivano immolati più di ventimila animali in un lezzo nauseabondo di sangue e di incenso e che gli esseni disapprovavano i sacrifici cruenti) e non più a luogo di devozione e di preghiera; combattere il trionfo di Mammona (il dio denaro) che generava cupidigia, avidità, brama di ricchezza, ed era la negazione della vita semplice, umile e povera che predicava l'ascetismo esseno. Il gesto risuonò come un attacco non solo contro Roma, che doveva garantire l'ordine pubblico, quanto contro la gerarchia templare e tutte le istituzioni religiose d'Israele e suonò sacrilego perfino agli occhi di molti messianisti. Infatti, quel mercato non rappresentava per gli ebrei dell'epoca alcunché di empio in quanto era considerato il centro della vita economica della città e indispensabile al funzionamento del Tempio. Era protetto da guardie, sia giudee sia romane, armate pesantemente e la stessa guarnigione romana era situata nella Torre Antonia, che lambiva il quadrato di mura che circondava il sacro edificio.
Le autorità del Tempio, timorose di ogni sommossa, e tutte le classi alte della città e soprattutto gli erodiani, considerarono questi due episodi una deliberata sfida alle autorità costituite e una seria minaccia di insubordinazione. La festa imminente della pasqua si annunciava particolarmente pericolosa e drammatica. Bisognava correre ai ripari al più presto possibile e sedare la rivolta sul nascere.
I sinedriti si riunirono preoccupati e si dissero: "Se (Gesù) lo lasciamo fare, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione. Ma uno di loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno, disse loro: «Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera»" (Giovanni 11,47-50).
Il destino di Gesù era segnato. La sua condanna era una condanna politica, non religiosa. La presunta blasfemia non c'entrava per niente, per essa c'era solo la lapidazione che il sinedrio era libero di applicare in qualsiasi momento, a suo insindacabile giudizio e senza il permesso dei romani.
A giustificazione di Caifa va detto che il sommo sacerdote e i capi del sinedrio dovevano rispondere di qualsiasi violazione dell'ordine pubblico, e se non riuscivano a reprimere i disordini intervenivano prontamente i romani con rappresaglie durissime. Di queste sotto Ponzio Pilato ce ne furono di orribilmente crudeli, come vedremo in seguito.
In concomitanza a questi due importanti avvenimenti, ne avvenne un altro, non pubblico ma privato, ciononostante pregno di pathos e di intensi significati simbolici, conosciuto come l'unzione di Betània. Anch'esso getta piena luce sulla messianicità di Gesù.
È singolare il modo con cui viene raccontato dagli evangelisti. Giovanni nomina esplicitamente il luogo e dà un nome ai personaggi protagonisti dell'avvenimento; i Sinottici, invece, chiaramente manipolati dal meccanismo di censura, più volte denunciato e usato per mascherare o alterare personaggi ed eventi, lasciano tutto nel vago.
L'episodio, come ce lo racconta Giovanni nel suo Vangelo, possiamo riassumerlo così. A Betania, nella casa di Lazzaro, durante un banchetto serale servito da Marta, sorella di costui, per celebrare l'imminente insurrezione programmata da Gesù e i suoi seguaci, Maria di Magdala, altra sorella di Lazzaro (e presunta consorte di Gesù), si avvicina al Maestro reggendo in mano un prezioso vasetto di alabastro contenente una libbra di nardo, un costosissimo profumo del prezzo, a quel tempo astronomico, di almeno 300 denari.
Di fronte a tutti i presenti infrange il vaso e versa l'unguento profumato sui piedi di Gesù (e secondo gli altri evangelisti anche sulla testa), e lo asciuga coi suoi capelli. I commensali, verosimilmente sbalorditi, esprimono disappunto per l'enorme spreco e Giuda, non nascondendo la sua irritazione, abbandona la cena e si reca dai sacerdoti per concordare il suo tradimento nei confronti del Maestro. Questo è quanto ci dice Giovanni (Giovanni 12,1-11).
Prima di parlare dello stravolgimento dell'episodio fatto dagli altri tre evangelisti, cerchiamo di decodificarlo per capirne i reconditi significati. Anzitutto, perché quel gesto così eclatante nei confronti di Gesù da parte della Maddalena? Per amorosa devozione, per passionale trasporto? Non solo per questo. Quel gesto in realtà, come osservano molti studiosi, era una cerimonia d'unzione che ufficializzava di fronte a tutti, nell'imminenza della rivolta, la dignità messianica di Gesù, come figlio di David e re dei Giudei. E il comportamento di Giuda? Irritazione e disappunto per l'enorme spreco? Disgusto per il gesto plateale della Maddalena? Affatto. Semplicemente: avvertire il Tempio e gli antimessianici che ormai la rivolta era imminente, convinto com'era che fosse destinata ad un tragico fallimento. I tre evangelisti sinottici, nel tentativo di cancellare i riferimenti messianici di Gesù, il suo attaccamento a Lazzaro e alle sue sorelle, e forse anche il fatto che Maria di Magdala era sua consorte, collocano il banchetto in casa di un certo Simone il lebbroso o Simone fariseo, e attribuiscono il gesto dell'unzione ad una donna senza nome, considerata da Luca una peccatrice del luogo. Lazzaro e le sue sorelle svaniscono nel nulla. (Marco 14,3-9; Matteo 26,6-13; Luca 7,37-39).
Il fatto che Lazzaro, così importante per il Vangelo giovanneo, venga dagli altri tre Vangeli deliberatamente fatto sparire al punto da ometterne anche la sua resurrezione, considerata uno dei più eclatanti miracoli di Cristo, dimostra, al di sopra di ogni dubbio, che i Sinottici hanno sottostato all'esigenza di censurare chi, come Lazzaro, era un personaggio forse legato ai più intransigenti gruppi del messianismo ebraico.
Il fatto poi che Maria, sorella di Lazzaro, fosse nella realtà la consorte di Gesù (a questo proposito ricordo che la legge Mishnaica degli ebrei del tempo non lasciava spazio a dubbi: "un uomo celibe non può essere Maestro"), ha contribuito ulteriormente, in base alle esigenze teologiche paoline della divinità di Cristo, a manipolare così grossolanamente gli avvenimenti e a far piazza pulita della famiglia di Lazzaro.

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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)