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venerdì 18 dicembre 2015

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A tutti i gentili lettori auguro un felice anno nuovo. Il blog riprenderà martedì 5 gennaio 2016. Leo Zen

110 - “L'invenzione del cristianesimo” - Le fonti del Nuovo Testamento. Le fonti romane ed ebraiche

Gli storici romani Tacito, Svetonio e Plinio il Giovane hanno scritto su Cristo poche righe (senza mai chiamarlo col nome di Gesù), dalle quali emerge un personaggio totalmente diverso da quello che ci propongono i Vangeli. Non un predicatore pacifico, propugnatore della non violenza e dell'amore universale, ma un agitatore politico estremamente pericoloso, sul genere dei terroristi che oggi minacciano l'Occidente.
Di conseguenza anche i cristiani sono descritti come una setta turbolenta e perniciosa, responsabile di frequenti disordini per istigazione del loro Messia (Cristo). Gli storici latini ben sapevano che il termine greco Christos traduceva l'ebraico Messia (Mashiah in aramaico) che era un titolo regale che significava "l'Unto", cioè il prescelto da Jahvè per essere il re dei Giudei, e, in perfetta sintonia con Pilato, consideravano giusta la condanna a morte di Gesù come un ribelle che propugnava la liberazione nazionale e religiosa del suo popolo.
Come abbiamo visto in precedenza a proposito di Tacito anche i testi latini sono stati talora oggetto di interpolazioni da parte di amanuensi cristiani per essere adattati alle esigenze catechistiche e teologiche della Chiesa.

Le fonti ebraiche sono nulle come quelle latine e in base ad esse Gesù risulta praticamente uno sconosciuto. L'autore fondamentale è Giuseppe Flavio, che in Antichità Giudaiche (o Storia dei Giudei) ci tramanda due riferimenti importanti: uno riguarda Gesù e l'altro il fratello di Gesù, di nome Giacomo Ma la sua testimonianza (conosciuta come «Testimonium Flavianum») è considerata dagli storici un'evidente manipolazione della Chiesa e quindi totalmente falsa.
II testo si riferisce a Gesù, ma, come spiega l'esegeta Guy Fau: "I passaggi riguardanti Gesù, detto il Cristo, appaiono la prima volta nel IV secolo per opera di Eusebio di Cesarea non trovandosi ancora nell'opera “Storia dei Giudei” ai tempi di Origene (185-254), poiché è proprio Origene che ci assicura nel suo "Contra Celsum", che Giuseppe Flavio non ha mai parlato di un Gesù detto il Cristo. La falsificazione è quindi così manifesta che la Chiesa stessa non difende più questi due passi di Giuseppe Flavio” (Guy Fau - La Fable de Jesus Christe. III - Le silence des auteurs Juifs, Editions de l'Union rationaliste, Paris, 1964).
Anche lo storico ebreo Giusto di Tiberiade nella sua cronaca che va da Mosé agli anni in cui vide la luce il Vangelo di Giovanni, tace di Gesù esattamente come Giuseppe Flavio, nonostante fosse suo contemporaneo e quasi conterraneo. Infatti, viveva a Tiberiade non lungi da Cafarnao. Ce lo conferma il patriarca Fozio di Costantinopoli che avendo il libro di Giusto sottomano (svanito nel X secolo) si meravigliava del fatto che non parlasse di Gesù. Il dotto ebreo Filone di Alessandria, che sopravvisse a Gesù di circa vent’anni, e di cui possediamo circa cinquanta scritti, nelle sue opere parla diffusamente delle sette giudaiche, in particolar modo degli esseni e menziona perfino Pilato, ma ignora totalmente Gesù e anche Paolo. E pensare che, a detta di Fozio, era ritenuto un cristiano pentito.
Sono invece importanti, per capire la derivazione di molti detti di Gesù e del suo messianismo jahvista, i Rotoli del Mar Morto, rinvenuti a Qumran nel 1947 e alla fine del 2001 pubblicati in versione integrale. Comprendono i commenti ai testi biblici scritti dalla comunità degli esseni e gli statuti che erano alla base della loro setta, quali: la Regola della Comunità, la Regola dell'Assemblea, il Documento di Damasco, le Regole della Guerra dei Figli della Luce contro i Figli delle Tenebre e il Commentario di Abacuc.


FINE

giovedì 17 dicembre 2015

Come la comunione, nata come offerta per i poveri, si trasformò in un atto sacrificale per la divinità. Parte seconda. 241

Nelle comunità protocristiane non si conosceva la concezione più tarda della Chiesa, secondo la quale ci si poteva accostare a Dio mediante un sacrificio offerto dagli uomini ed era necessaria la presenza dei sacerdoti quali mediatori fra la comunità e Dio. Quindi, l'eucaristia trasformata da pasto serale in servizio divino antimeridiano, non fu intesa inizialmente come un «sacrificio» vero e proprio, parallelo ai banchetti sacrificali dei pagani ma piuttosto come un sacrificio simbolico, come già Paolo aveva scritto nel sue Lettere, esortando i fedeli a offrire i propri corpi come sacrificio a Dio.

Però questo simbolismo, presente nella letteratura postapostolica, non soddisfaceva la fantasia dei cristiani, sempre a contatto coi sacrifici cruenti dei pagani, per cui fu giocoforza rivestirlo di qualcosa di materiale, di palpabile, specialmente attinente al nutrimento del corpo.

Ecco quindi che le donazioni, in un primo tempo deposte sull’altare per i poveri o per la Chiesa, vennero intese in tal senso e a poco poco i concetti di sacrificio dominanti nella religiosità pagana subentrarono sempre più nella definizione del pasto comunitario cristiano, con i cui elementi costitutivi - il pane e il vino - fu assai agevole stabilire una relazione con il vecchio concetto di sacrificio.

Così, intorno al 150 Giustino definì «sacrificio» la donazione di offerte in natura nell’eucaristia e il concetto di sacrificio fu trasferito alle preghiere del sacerdote e alla solennità eucaristica. Intorno al 250, poi, Cipriano pose in relazione tale antico concetto con le sofferenze di Gesù, interpretando la comunione come un sacrificio offerto dal sacerdote a imitazione di Cristo. Mentre, quindi, per Giustino, Ireneo e in generale per tutti i Padri della Chiesa del tardo II secolo, la Comunione è un sacrificio di ringraziamento della comunità purificata, nel III secolo con Cipriano divenne un sacrificio di riconciliazione per la comunità peccatrice.


A seguito di ciò si impose rapidamente nella Chiesa la teoria del sacrificio della Messa, di una ripetizione incruenta del sacrificio di Gesù sulla croce, in stridente contrasto con la primitiva religione cristiana priva di sacrifici e di sacerdoti. Ecco come il significato originario della Comunione venne capovolto, vale a dire che da offerta per i poveri era ormai divenuto un atto sacrificale per la divinità.

S.Cipriano


martedì 15 dicembre 2015

109 - “L'invenzione del cristianesimo” - Le fonti del Nuovo Testamento. Lettere di Paolo.

Le quattordici Lettere attribuite a Paolo sono documenti che hanno subito dal I al IV secolo delle indubbie contraffazioni. Non tutte sono di sicura attribuzione; alcune infatti potrebbero essere degli artifici letterari dei suoi discepoli. Tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere che la Lettera agli Ebrei non è di Paolo e forse nemmeno la seconda Lettera ai Tessalonicesi. Molti dubitano anche della paternità della Lettera agli Efesini.
In base ad uno studio esegetico dei concetti espressi in esse, alle ricerche filologiche e storiche e di confronto eseguite dalla scuola di Tubinga, e ad un'analisi elettronica eseguita sul vocabolario dei testi, sono soltanto quattro le Lettere di sicura attribuzione: la Lettera ai Romani, quella ai Galati, e le due ai Corinzi (Josif Kryevelev, Analisi storico critica della Bibbia, Edizioni Lingue Estere, Mosca, 1949). Le quattro di cui si parla risultano a loro volta così manipolate e contraffate, che alcuni esegeti, come M. Goguel (L'apotre Paul et Jèsus Christ, Libraire Fishbacher, Paris, 1904), giungono ad affermare che le due lettere ai Corinzi sono un assemblaggio di sei altre Lettere mal ricucite, e che la Lettera ai Romani presenta ben cinque finali.
Considerando le contraffazioni eseguite sulle quattro Lettere, che possono essere ritenute autentiche, cosa dobbiamo dire delle altre dieci e soprattutto delle ultime quattro che furono sicuramente redatte dopo il 140, non essendo tra quelle portate a Roma da Marcione? Lascio a voi la risposta.
Scritte nell'arco di quindici anni, le Lettere di Paolo sono i documenti più antichi del Nuovo Testamento e di fondamentale importanza per conoscere alcune vicende della vita avventurosa di Paolo e la creazione della sua teologia.
La prima Lettera ai Tessalonicesi viene fatta risalire all'anno 50-51. Nelle Lettere Paolo parla pochissimo di Gesù, che non ebbe mai modo di conoscere se non attraverso le sue presunte visioni celesti, e degli apostoli che avvicinò di sfuggita solo quattro volte. In Galati, dice che Gesù era un ebreo, nato da donna. In Romani, che discendeva da David, si rivolse solo ad Israele, fu senza peccato e siede alla destra di Dio, aspettando il giorno del suo ritorno, ritenuto da Paolo imminente. In Corinzi, che aveva dei fratelli, che fu crocifisso, ma resuscitò il terzo giorno, mostrandosi a Pietro, agli apostoli e allo stesso Paolo. Non accenna alla verginità di Maria e all'annunciazione, invenzioni tardive dei suoi seguaci.
Elementi comuni alle Lettere sono: il rigore etico indispensabile per aspirare alla salvezza; il significato mistico della morte e resurrezione di Gesù e l'assoluta fede in Cristo.
Ma al di là dei contenuti comuni, ogni Lettera fa riferimento a situazioni particolari delle singole chiese fondate da Paolo, e reca i consigli per ovviare ai problemi che le travagliavano. In alcune Lettere ci sono importanti riferimenti personali che ci consentono di conoscere qualcosa della vita di Paolo, dei suoi contrasti con la Chiesa di Gerusalemme, delle sue autodifese nei confronti dell'accusa di essere un millantato apostolo. Non sempre le notizie che ricaviamo dalle Lettere collimano con quelle che riscontriamo negli Atti. Le Lettere, però, assieme agli Atti, sono documenti di fondamentale importanza per la conoscenza (anche se parziale) del cristianesimo primitivo e della formazione della teologia paolina.
Sono scritte in uno stile appassionato e d'intensa religiosità. Fin dal suo primo apparire ebbero un'enorme ripercussione presso tutti i cristiani ellenisti perché venivano lette e commentate in pubblico e scambiate tra le varie chiese ellenistiche. La loro influenza sulla nascita del cristianesimo eguagliò forse quella dei Vangeli, che nella versione attuale, come abbiamo visto, discendono direttamente dall'influsso di Paolo.
Questi sono i fondamentali documenti canonici che sono alla base del nostro cristianesimo ma che hanno poca attinenza, come abbiamo visto in precedenza, col Gesù storico, cioè col vero Gesù crocifisso da Pilato come un ribelle sovvertitore. Sono stati creati, infatti, allo scopo di trasformare Gesù da Messia fallito, quale fu nella realtà, a Salvatore e Redentore universale, quale ce lo propone la teologia paolina, dopo averlo demessianizzato e degiudeizzato.

venerdì 11 dicembre 2015

108 - “L'invenzione del cristianesimo” - Le fonti del Nuovo Testamento. Atti degli apostoli.

Sono attribuiti, come abbiamo visto in precedenza, ad un discepolo di Paolo che esplicitamente se ne attribuisce la paternità. Si tratta di Luca, un medico di origine siriana convertito personalmente da Paolo, che seguì l'apostolo in molti dei suoi viaggi e fu testimone oculare di alcuni avvenimenti che racconta in prima persona. Ma abbiamo visto che l'attribuzione non è certa e che, secondo alcuni, riguarderebbe un certo Dema, probabilmente proprietario e conduttore dell'imbarcazione che servì a Paolo per molti dei suoi viaggi. Sono documenti poco attendibili, perché scritti per esaltare la teologia paolina in contrapposizione a quella giudaica, e spesso sono anche in contraddizione con le Lettere che la Chiesa attribuisce a Paolo.
Nacquero con l'intento di dimostrare che tra i due cristianesimi sviluppatisi dopo la crocifissione di Cristo: quello dei cristiano-giudei della Chiesa di Gerusalemme, guidato da Giacomo, fratello del Signore, di tendenza messianica ed ascetico-essena, e quello dei neo-cristiani ellenisti, fondato e guidato da Paolo, di tendenza universalistica e salvifica, c'era stata una continuità lineare, una derivazione spontanea che escludeva conflitti e divergenze.
Ma il tentativo di nascondere le grosse tensioni scoppiate tra le due Chiese e l'inevitabile scisma di Paolo dall'ortodossia ebraica, fallisce miseramente in mezzo a molteplici incongruenze. Infatti, in questa narrazione delle vicende degli apostoli troviamo dei vuoti incredibili. Gli apostoli sono accennati di sfuggita solo una volta e nel corso della narrazione si fa menzione soltanto di Pietro, Giovanni e soprattutto di Giacomo, fratello di Gesù.
Pietro scompare dal testo dopo lo scontro con Paolo ad Antiochia e non compare mai a Roma, dando ragione a coloro che sostengono che i presunti riscontri storici ed archeologici della presenza di Pietro nella capitale dell'Impero sono del tutto inesistenti e quindi risulta privo di ogni fondamento anche il suo martirio sul Colle Vaticano.
Più che gli Atti degli Apostoli potremmo chiamarli gli Atti di Paolo perché gran parte del testo si concentra esclusivamente sull'operato di questo millantato apostolo, esaltandolo oltremodo.
Vanno considerati, quindi, come propaganda finalizzata a convincerci che il neocristianesimo di Paolo discende direttamente dalle visioni celesti di questo millantato apostolo, che mai conobbe Gesù nella carne, e mai quindi ne apprese la dottrina.


giovedì 10 dicembre 2015

Come la Comunione, nata come offerta per i poveri, si trasformò in un atto sacrificale per la divinità. Parte prima. 240

L’agape protocristiana, che nelle comunità più antiche aveva luogo quotidianamente dopo il tramonto come atto di carità per i più poveri, tra i quali si annoveravano molti schiavi ed emarginati, cessò progressivamente di essere un pasto comunitario per trasformarsi in una cerimonia sacrificale. Già Paolo, che per primo l'aveva istituita a Corinto, aveva a poco a poco provveduto a trasformarla, invitando i fedeli a mangiare a casa loro e a celebrare negli abituali incontri serali un pasto puramente simbolico. Quindi l'agape fraterna, nata come servizio sociale per i bisognosi, già con lui si era trasformata in un rito salvifico soprannaturale di tipo pagano.

I suoi seguaci non accettarono di buon grado questa trasformazione. Infatti, al posto di una pentola ricolma si videro presentare improvvisamente solo una parvenza di cibo, in luogo di un atto di carità, solo una celebrazione cultuale. Leggiamo nella Didaché, sessanta o settant’anni dopo Paolo, che la Comunione, per molte comunità protocristiane, era intesa ancora come un pasto completo, una cena vera e propria.

Solo a partire dal 150 la comunione, o meglio l’atto del culto eucaristico, fu separata definitivamente dalle agapi, i pasti serali comunitari, spostata ad ora antimeridiana e celebrata unitamente alla recita del servizio divino. Tale processo venne favorito dall’ingresso via via crescente di fedeli benestanti, per i quali mangiare coi poveri non era né una necessità né, tanto meno, un piacere, mentre non era disdicevole partecipare ad un pasto simbolico.

 Le donazioni avvenivano ancora, ma non venivano consumate in comune: se ne distraeva il pane e il vino necessari per l’eucaristia e il resto veniva distribuito a poveri, malati ed emarginati. A partire dal lV secolo, dopo la vittoria del cristianesimo con Costantino, l'agape serale non venne più tollerata all’interno della Chiesa, ed infine venne abbandonata del tutto.


S.Paolo


martedì 8 dicembre 2015

107- “L'invenzione del cristianesimo” - Le fonti del Nuovo Testamento. Breve esame dei quattro Vangeli (Parte terza)

l Vangelo di Giovanni attesta un cristianesimo nuovo e molto diverso da quello dei Sinottici, perché si fonda su uno dei concetti essenziali della filosofia ellenistica, quello del Logos. In esso Gesù viene interpretato come la manifestazione fenomenica del Logos «incarnato», disceso dalle sfere celesti per ricondurre gli uomini a Dio in qualità di Redentore. Ci troviamo qui di fronte ad una vera deformazione della dottrina di Gesù per adeguarla agli intellettuali ellenizzati al fine di guadagnarli al cristianesimo.
L'autore, scrivendo per le persone colte e fortemente ellenizzate, non esalta più i poveri, né pone in guardia contro la ricchezza. Ignora lo schietto linguaggio delle parabole proprio dei Sinottici e predilige discorsi ampiamente elaborati che descrivono Dio in maniera astratta. Insomma, il messaggio gesuano viene da lui totalmente intellettualizzato.
Come spiegare una tale trasformazione del messaggio di Gesù? Con l'esigenza di avvicinare al cristianesimo gli ambienti più colti del mondo ellenistico. I Sinottici, scritti com’erano nella koiné greca del linguaggio popolare, erano rivolti soprattutto alle classi più umili, composte in prevalenza di mendicanti, di schiavi e perfino, come attesta Paolo, di ex ladri e delinquenti. La predicazione cristiana che Tacito definiva «esecrabile» e Svetomo «una superstizione empia», andava quindi intellettualizzata per poter fare impressione sui dotti. Quello che si prefigge il quarto Vangelo. Viene dalla Chiesa attribuito all'apostolo Giovanni ma da più di un secolo la bibliologia critica riconosce concorde che non può essere attribuito a questo apostolo, in quanto la sua stesura risale indubbiamente a dopo l'anno 100, cioè a molto dopo che Giovanni e il fratello Giacomo avevano subito il martirio nel 44 per opera di Erode Agrippa I (Atti, 12,2).
Tenendo conto, però, che lo ignorano Marcione, Giustino, Papia e lo stesso Policarpo che, secondo la Chiesa, era discepolo di Giovanni, mentre è menzionato per la prima volta da Ireneo nel 190, possiamo attribuirlo a una data anche più tarda.
Gesù, molto umano in Marco secondo Origene (Commentari, 94), in parte semidivinizzato negli altri due Sinottici, in Giovanni viene completamente divinizzato e in più viene proclamato preesistente ad Abramo e mediatore per ottenere la salvazione.
Mentre il Gesù sinottico nel Getsemani, ad esempio, è in presa a profonde angosce fisiche e spirituali, in Giovanni, che vuole negare in lui ogni tratto di debolezza umana, di queste angosce non c'è traccia e al momento del trapasso Gesù non spira col grido di disperazione raccontato da Marco e Matteo “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Marco 15,34; Matteo 27,46), ma col detto eroico e sovrumano: « È compiuto» (Giovanni 15,34), così come spirò anche il semidio Eracle, che molti storici ravvisano come uno dei modelli più sorprendenti della figura biblica di Cristo.
Quindi questo Vangelo sembra finalizzato a provare la divinità del Cristo, anche nei miracoli descritti «affinché crediate» (Giovanni 20,30). Però non sempre nel testo le definizioni collimano fra loro ad indicare che anch'esso venne alterato con manipolazioni varie che determinarono palesi incongruenze. Come conciliare, ad esempio, che Gesù venga definito contemporaneamente «Re dei giudei» e «Redentore del mondo?» L'una affermazione esclude l'altra. Le divergenze di questo Vangelo coi Sinottici sono molteplici e riguardano sia l'assenza in esso di molti ed importanti episodi narrati dagli altri evangelisti sia, viceversa, la presenza di alcuni significativi avvenimenti, completamente ignorati negli altri Vangeli. Fra i vari episodi citati dagli altri evangelisti e totalmente assenti in Giovanni alcuni rivestono un'importanza fondamentale. Elenchiamoli: 1.le tentazioni cui venne sottoposto Gesù da parte di Satana dopo i quaranta giorni di permanenza nel deserto, 2.le resurrezioni della figlia di Giairo e del figlio della vedova di Nain, 3.altre guarigioni miracolose specialmente di tipo esorcistico, 4.alcune parabole, 5.la trasfigurazione di Gesù sul Monte Tabor, 6.la questione del tributo a Cesare, 7.la piccola apocalisse riferita alla distruzione di Gerusalemme, 8.la condanna a morte di Gesù da parte degli ebrei, 9.la sua ascensione al cielo, 10.il primato di Pietro e 11.l'istituzione dell'eucaristia.
Altrettanto rilevanti sono gli avvenimenti presenti in Giovanni e assenti nei Sinottici. Vediamoli: 1.le nozze di Cana; 2.il dialogo con la samaritana; 3.l'adultera perdonata; 4.la discussione con Nicodemo; 5.la resurrezione di Lazzaro; 6.il lavaggio dei piedi agli apostoli nell'ultima cena; 7. la presenza di un personaggio misterioso, chiamato "l'apostolo che Gesù amava", falsamente ritenuto lo stesso Giovanni.
Esaminarli tutti richiederebbe troppo tempo ma su almeno un paio vale la pena di soffermarci. Cominciamo dall'assenza più incredibile, quella dell'istituzione dell'eucaristia.
Confrontando nei Vangeli sinottici i brani relativi all'ultima cena noteremo che tutti e tre descrivono l'istituzione dell'eucaristia con le stesse parole scritte da Paolo nella sua prima Lettera ai Corinzi (1 Corinzi 11, 23-29). Giovanni, invece, ignora completamente questa istituzione ma rivela particolari importanti, ignoti agli altri evangelisti, come la lavanda dei piedi.
L'eucaristia, quindi, fu un'assoluta invenzione paolina, messa in evidenza anche dal fatto che gli Apostoli non conoscevano una comunione sacramentale. Dopo la preghiera nel Tempio, spezzavano il pane in casa di uno di loro senza sacerdoti e senza alcun apparato cultuale e nemmeno sacramentale (Atti, 2,46; 6, 1 sg.). Infatti la teologia critica non trova alcun rapporto fra il pasto della comunità cristiana primitiva e l’atto cultuale della comunione propagato da Paolo.
Anche il primato di Pietro viene ignorato da Giovanni. Non c'è alcun cenno alle parole di Matteo: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa…” (Matteo 13,20-22). Al contrario, chi in Giovanni sembra prevalere sugli altri apostoli è un personaggio misterioso chiamato: "quel discepolo che Gesù amava" (Giovanni 12,23) di cui abbiamo parlato a proposito di Lazzaro di Betania.
L'episodio del XXI capitolo, che tenta di recuperare il ruolo primario di Pietro mediante la triplice affermazione di Gesù risorto "pasci le mie pecorelle" (Giovanni 21,15-17), è chiaramente un falso accettato da tutta la teologia critica e anche da teologi cattolici. Concludiamo l'analisi del Vangelo di Giovanni facendo rilevare che, pur essendo il più antiebraico dei quattro (i brani apertamente antisemiti, secondo D. J. Goldhagen, sono centotrenta), troviamo espressa in esso la netta convinzione che Gesù fu giustiziato per motivi politici voluti dal clero collaborazionista dei romani e non per motivi religiosi come la blasfemia.

venerdì 4 dicembre 2015

106 -“L'invenzione del cristianesimo” - Le fonti del Nuovo Testamento. Breve esame dei quattro Vangeli (Parte seconda.)

Il Vangelo di Matteo è molto legato alla messianicità di Gesù e fa molti riferimenti agli adempimenti profetici, come ad esempio: la dichiarazione della sua origine regale da parte dei Magi, la persecuzione di Erode, la fuga in Egitto e la genealogia regale di Gesù, ignorate dagli altri evangelisti.
Esso inoltre mostra una stretta aderenza alle teorie essene per la sua forte carica sociale e politica in difesa dei poveri e degli umili, culminante nel Discorso della Montagna, vero manifesto dell'ideologia religiosa e sociale di Gesù, ancora ai nostri giorni considerato uno dei momenti più elevati del cristianesimo.
È marcatamente antiebraico e contiene l'automaledizione pronunciata dai gerosolimitani: "Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli" (Matteo 25,25), che tanto peserà sul destino degli ebrei fino ai nostri giorni. Per la Chiesa fu redatto tra il 40 e il 50 (vedi Sacra Bibbia, ed. C.E.I.), ma ciò è assolutamente inverosimile anche perché contiene riferimenti all'uccisione di Zaccaria, figlio di Baracchia, avvenuta, secondo Giuseppe Flavio, nel 67. Molto verosimilmente fu redatto, nella versione attuale, dopo il 150 perché contiene il “Tu es Petrus” che non può essere stato inserito prima in quanto solo in quella data la Chiesa paolina tolse a Giacomo il primato sulla comunità di Gerusalemme per passarlo a Pietro.
L'attribuzione del Vangelo di Luca sembra non implicare nessuna difficoltà dal momento che negli Atti l'autore si collega ad esso attraverso la dedica a Teofilo per rivendicarne chiaramente la paternità. Quindi, i due documenti sembrano scritti dalla stessa persona. Il problema nasce sull'identificazione del vero nome dell'autore comunemente ritenuto Luca, un discepolo di Paolo che lo seguì personalmente in molti viaggi e che di professione faceva il medico.
Alcuni studiosi attribuiscono questo Vangelo e gli Atti ad un personaggio di nome Dema, probabilmente proprietario e conduttore dell'imbarcazione che servì a Paolo per molti dei suoi viaggi. Negli Atti l'autore è spesso presente agli episodi che vengono narrati e dimostra una perfetta conoscenza delle rotte marittime e dei termini marinari che usa con proprietà. Lo troviamo presente nei momenti di navigazione e quasi mai nei viaggi a terra, escluso l'ultimo a Gerusalemme. Altra cosa strana: Luca e Dema appaiano sempre assieme; dove c'è l'uno c'è sempre anche l'altro. Sappiamo che Paolo soffriva di un male oscuro che gli procurava continue sofferenze fisiche, quindi è plausibile che avesse un medico che lo seguisse per dargli le cure necessarie. Ma il medico Luca, supposto autore di Atti e del Vangelo omonimo, non accenna mai alle sofferenze fisiche dell'apostolo e in due occasioni emblematiche: la caduta del giovane Eutico dalla finestra (Atti 20,9-12) e il morso alla mano di Paolo da parte de una vipera (Atti 28,3-4) mostra di non saper dare alcun soccorso medico. In compenso, però, come abbiamo detto sopra, mostra di conoscere perfettamente le rotte marittime, il nome dei venti e le norme di navigazione. Il suo racconto è indubbiamente uno dei documenti più istruttivi sulla conoscenza dell'antica arte della navigazione. Ma l'interruzione improvvisa di Atti suscita la massima perplessità. Scrive Paolo da Roma nel 63 a Timoteo: "Cerca di venire presto da me, perché Dema mi ha abbandonato avendo preferito il secolo presente ed è partito per Tessalonica…Solo Luca è con me" (2 Timoteo 4,9-11). Strana coincidenza: Dema lascia Paolo e gli Atti terminano bruscamente, anche se Luca rimane con l'apostolo. Perché questa rottura improvvisa e inspiegabile? Non è che di fronte al tradimento di Dema: le sue opere: il Vangelo e gli Atti, cambiano paternità e vengono messi sotto il nome del fedele Luca?
Secondo Tatiano, autore del Diatesserone, scritto nel 175, (libro che riuniva in un solo testo i quattro Vangeli canonici), i Vangeli di Luca e di Matteo non contenevano l'annunciazione e la nascita di Gesù, aggiunte soltanto posteriormente, come riteneva anche Girolamo, autore della Vulgata. Ciò dimostra che anche il Vangelo di Luca, come del resto tutti gli altri Vangeli, abbia subito continue sovrapposizioni fino a tutto il IV secolo e oltre.
Comunque questo Vangelo è stato senz'altro scritto, nella sua redazione primitiva, da un discepolo di Paolo, allo scopo di fornire all'apostolo uno strumento di evangelizzazione che fosse in perfetta sintonia con la sua teologia. Luca è il più fantasioso degli evangelisti in campo teologico perché nelle sue opere gli angeli appaiono spesso: annunciano l'incarnazione di Cristo alla vergine Maria, comunicano la nascita ai pastori di Betlemme, proclamano la resurrezione di Gesù e liberano Pietro di prigione. La sua eccessiva mitologia teologica ha destato qualche perplessità anche tra i Padri della Chiesa.

Come negli altri due Vangeli Sinottici di Marco e Matteo, anche in questo la vicenda pubblica di Gesù viene ridotta ad una sola annata (in Giovanni, invece, dura tre anni), mentre rispetto agli altri Vangeli la visione apocalittica viene meno drammatizzata, per cui dovrebbe essere ulteriormente postdatata la sua stesura definitiva. 

giovedì 3 dicembre 2015

Il più antico servizio divino del cristianesimo? Estatici balbettii! 239

l più antico servizio divino cristiano, quello delle comunità paoline, non ebbe alcun carattere cultuale e non fu celebrato in luoghi deputati allo scopo come templi, sinagoghe o altri edifici sacri, nè era svolto da persone investite di ruoli sacerdotali. Infatti, per l’intera epoca apostolica non esistettero nè sacerdoti, nè sacrifici, nè chiese, né altari.

Durante le riunioni comunitarie, che potevano avvenire in case private o in luoghi all'aperto, lo spirito governava il tutto e ogni partecipante poteva insegnare, profetizzare e parlare in nome di Dio come un «sacerdote del Signore». Tutto ciò ad imitazione della religione greca pagana che nei vestiboli dei numerosi templi ammetteva indovini e maghi che proclamavano a gran voce gli oracoli delle divinità, e nella loro condizione estatica distorcevano follemente i tratti del viso, comunicando alla massa degli spettatori la propria esagitazione interiore. Nelle riunioni cristiane, oltre a ciò. era praticata con una certa frequenza anche la glossolalia, cioè il balbettio di suoni incomprensibili, in «lingue ignote», derivata dai culti dionisiaci.

Quindi, nel più antico servizio divino cristiano, la vita comunitaria era variopinta, diversificata e, secondo il nostro modo di vedere oggi le cose, in preda ad una folle esaltazione perchè, accanto ai profeti e ai glossolali, si muovevano anche taumaturghi ed esorcisti, e tutti con il loro balbettio estasiato, il roteamento degli occhi, il tremore delle membra contribuivano decisamente all’edificazione religiosa.



Oggi questo suona incredibile ad ogni cristiano perchè la Chiesa ne ha pian piano liquidato ogni aspetto, sostituendolo con altari sontuosi, vescovi e sacerdoti divenuti gli unici protagonisti delle cerimonie liturgiche e addobbati con ricchi paramenti satrapeschi, complicate liturgie accompagnate da canti mistici e celebrate in edifici monumentali e sfarzosi.

Comunità cristiana primitiva


martedì 1 dicembre 2015

105 - “L'invenzione del cristianesimo” - Le fonti del Nuovo Testamento. Breve esame dei quattro Vangeli (Parte prima).

I Vangeli hanno alcune caratteristiche fondamentali che li accomunano. Anzitutto sono tutti scritti in greco e almeno in un caso: il Vangelo di Giovanni, in un greco sufficientemente colto. Ora sappiamo che gli apostoli erano dei semplici popolani, quasi sicuramente analfabeti. Lo deduciamo dai Vangeli stessi che spesso mettono in chiara luce la loro pochezza nel comprendere le parole del Maestro. Infatti: ottusità, meschinità e viltà dei discepoli sono sparse largamente per tutti i quattro racconti. Queste considerazioni ci fanno intuire che nessuno dei Dodici può essere considerato autore di uno di questi Vangeli scritti in greco. C'è un altro fatto importante da tener presente: la narrazione di gran parte degli avvenimenti evangelici è spesso imprecisa e confusa riguardo ai luoghi, alle usanze, alla terminologia e alle leggi giudaiche. Incongruenze grossolane si riscontrano tra le diverse narrazioni, ma anche all'interno della stessa. Il che fa presupporre che chi scriveva non solo non avesse assistito ai fatti ma neppure conoscesse la geografia e le usanze ebraiche, quindi non fosse nemmeno un ebreo (e tanto meno un apostolo).
A riprova di quanto detto possiamo osservare anche che, sia nei Vangeli Sinottici, sia soprattutto in quello di Giovanni, si trovano pregiudizi fortemente antisemiti, introdotti allo scopo di far ricadere sul solo popolo ebraico l'infamia di aver assassinato il Figlio di Dio e scagionare del tutto i romani, che furono invece i veri responsabili della sua condanna. D.J. Goldhagen (Una questione morale. La Chiesa cattolica e l'olocausto, Mondadori, Milano, 2003) ne rileva una quarantina in Marco, ottanta in Matteo, centotrenta in Giovanni, centoquaranta negli Atti degli Apostoli. Nel Vangelo di Giovanni, Gesù stesso afferma che gli ebrei hanno «per padre il diavolo» (Giovanni 8, 44).
Con la storica frase di Matteo: "Pilato (…) presa dell'acqua, si lavò le mani davanti la folla: "Non sono responsabile, disse, di questo sangue; vedetevela voi!" E tutto il popolo rispose: "Il suo sangue ricada sopra di noi e i nostri figli" (Matteo 27, 24-25), ha avuto inizio l'antisemitismo che ha trasformato i figli d'Abramo in una genia di perfidi deicidi, perseguitati e sterminati fino a pochi decenni or sono nel mondo cristiano. Quale ebreo avrebbe scritto cose simili! Solo dei gentili potevano averlo fatto.
Ultima considerazione importante: i Vangeli danno la netta sensazione di non rivolgersi agli ebrei ma ai pagani. Anche in questo caso basti come esemplificazione l'istituzione dell'eucaristia, che, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, fu inventata da Paolo adottando un rito misterico, molto diffuso e praticato nei culti pagani teofagici, ma orrendamente sacrilego e blasfemo per gli ebrei.
Passiamo ora in rassegna, brevemente, i quattro Vangeli canonici precisando che gli aspetti più importanti del Nuovo Testamento sono contenuti nei Sinottici, cioè derivano dagli evangelisti Marco, Matteo e Luca, cui dobbiamo le conoscenze fondamentali intorno alla figura di Gesù.
Cominciamo col Vangelo di Marco ritenuto il più antico dei quattro. Il suo autore non è, come narra la tradizione patristica, un seguace dell'apostolo Pietro o suo figlio di nome Marco, ma un discepolo di Paolo appartenente alla comunità cristiano-ellenistica di Efeso. Forse è quel discepolo anonimo di cui Paolo parla nella Seconda Lettera ai Corinzi. "Con lui (altro discepolo anonimo) abbiamo inviato pure il fratello che ha lode in tutte le Chiese a motivo del Vangelo" (2 Corinzi 8,18).
Il fratello lodato a motivo del Vangelo era probabilmente Onesiforo, un discepolo giudeo che durante la prigionia dell'apostolo ad Efeso lo assistette assiduamente e con lui trascorse gran parte del tempo. Dal punto di vista linguistico sembra la traduzione in greco di un Vangelo preesistente scritto in lingua ebraica. Alcuni studiosi ipotizzano che Marco abbia attinto, a sua volta, dal primitivo Vangelo degli Ebrei, distrutto dalla Chiesa, e di cui abbiamo conoscenza dalle confutazioni degli antichi Padri, citate sopra.
La Chiesa considera tuttora il Vangelo di Marco un semplice estratto del Vangelo di Matteo, ritenuto il più antico. Ma già nel 1835 il filologo Karl Lachmann sostenne la priorità di Marco e la sua utilizzazione da parte di Luca e di Matteo. Tesi oggi universalmente ritenuta valida. Marco, quindi, il cui Vangelo è composto di 661 versetti, fu la fonte di Matteo e di Luca. Il Vangelo di Matteo (1068 versetti) ne attinge da Marco 620 e quello di Luca (1149 versetti) 350. Le concordanze dei tre Vangeli Sinottici derivano, dunque, dalla comune dipendenza da Marco. Infatti, essi presentano la medesima successione di eventi e mostrano nelle espressioni un’affinità, che spesso riguarda anche i dettagli più minuti.
In questo Vangelo manca qualsiasi traccia di ricordo personale e Gesù viene presentato come uomo, non subisce cioè la metamorfosi semidivina comune agli altri due Sinottici o addirittura divina come nel Vangelo di Giovanni e negli Apocrifi successivi.
Viene chiamato undici volte «Maestro» e tre volte «Rabbi», mai però viene concepito preesistente e identico a Dio. L'attribuzione di questo Vangelo a Marco è testimoniata, con scarsa attendibilità dalla patristica, e accettata tuttora dalla Chiesa, secondo la quale Marco era un collaboratore di Pietro, che lo predilesse tanto da chiamarlo “suo figlio”.

Ma Guy Fau (La fable de Jèsus Christ, Editions de l'Union rationaliste, Paris, 1964) ha osservato, molto acutamente, che questo evangelista, così prediletto da Pietro, ignora il “tu es Petrus” che troviamo in Matteo (16, 18-19), cioè non lo riconosce come capo della Chiesa. Dimenticanza abnorme per un discepolo prediletto. È da notare che sia nel Codex Vaticanus sia nel Codex Sinaiticus (entrambi del IV secolo) Marco si arresta al 16,8 e quindi sono assenti gli eventi post resurrezione, sicuramente aggiunti posteriormente. 

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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)