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martedì 31 marzo 2015

39 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte seconda. Paolo di Tarso 2

Le Religioni Misteriche, dette anche Misteri, erano culti di divinità provenienti dalla Tracia, dall’Asia Minore, dalla Siria, dall’Egitto, diffusi in Occidente molti secoli prima del cristianesimo. Essi, interiorizzati e moralizzati dai greci, non operando distinzioni razziali o di casta, erano diffusi in tutti gli strati sociali e promettevano la liberazione dai vincoli del male e la speranza in un destino felice nell’aldilà, partecipando al banchetto dei beati e vivendo nella perenne gioia dei Campi Elisi. Per il raggiungimento della futura vita celeste e dell'immortalità era necessario ottenere la purificazione, la rinascita e la filiazione divina, e soprattutto, attuare l'ascesi tramite il dominio degli istinti e delle passioni.
È indubbio che Paolo, come ogni altro bambino nato e cresciuto a Tarso, dovette subire il fascino delle grandi cerimonie che si svolgevano in onore degli dèi misterici, considerati salvatori divini, e assimilarne inconsapevolmente i riti e i significati profondi, soprattutto i due sacramenti più importanti, che egli adotterà poi per il suo cristianesimo personale, il battesimo e l’eucaristia.
Infatti, in tutte le Religioni Misteriche ellenistiche esistevano due momenti cultuali dominanti: il banchetto sacro ritualizzato, durante il quale si mangiava la carne del Dio, cioè del dio-animale (agnello, toro o pesce) a lui sacrificato, e si beveva un calice di vino a simboleggiare il suo sangue, e il battesimo, inteso come cerimonia unica di affiliazione ma anche come lavacro di tutte le colpe. I banchetti sacri affondavano le loro radici negli antichissimi riti del cannibalismo rituale, praticato non per istinto ferino ma per acquistare le particolari energie fisiche e spirituali della vittima, mangiandone le carni.
Il quotidiano contatto con questi riti pagani impedì a Paolo di crescere con l'incontrastabile certezza, comune a qualsiasi gerosolimitano di nascita, di essere il centro religioso dell'universo e di considerare i gentili (gli infedeli incirconcisi) nient'altro che rozzi e reietti peccatori e lo portò ad aprirsi alla spiritualità pagana che annoverava anche scuole filosofiche di altissimo livello etico.
Venuto a Gerusalemme per studiare da fariseo si trovò a scegliere tra due realtà ignominiose: quella reazionaria dei sacerdoti, dei farisei e degli erodiani, che accettava la connivenza opportunistica col dominio romano, e quella rivoluzionaria, radical-fondamentalista dei messianici jahvisti, che propugnava una dissennata e delirante ribellione agli oppressori.
Dovette, in un primo momento, scegliere la prima, pur essendo la più ignobile, perché il suo ruolo di cittadino romano e il suo ceto glielo imponevano. Scartò l'altra che, pur essendo patriottica, era priva di ogni senso della realtà e sorretta da un fanatismo folle e foriero d'immani catastrofi (che si verificarono puntualmente qualche decennio dopo).
C'era forse una terza via, che possiamo definire come “qualunquismo di modo”, ma la tempra, fortemente morale dell'uomo, non l'avrebbe mai accettata. In base alla sua scelta diventò un feroce poliziotto mercenario al soldo del Tempio.




venerdì 27 marzo 2015

38 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte seconda. Paolo di Tarso 1

Finora abbiamo accennato più volte, ma sempre di sfuggita, a Paolo di Tarso, meglio conosciuto nel mondo cattolico come l'apostolo San Paolo. Ora è giunto il momento di parlare diffusamente di questo personaggio straordinario che è ritenuto da molti studiosi, e giustamente, uno dei più grandi geni religiosi dell'umanità e il vero inventore del cristianesimo.
In questi ultimi capitoli della seconda parte tratteremo il periodo in cui Paolo, dopo aver perseguitato ferocemente i primi seguaci della "Via", subì una folgorante conversione che lo portò, almeno in un primo tempo, a condividere tutte le aspettative messianiche della Chiesa di Gerusalemme. Nella terza parte del presente libro, che lo vede protagonista assoluto, delineeremo invece il suo distacco dall'ebraismo a la creazione del suo cristianesimo personale.
Chi era Paolo di Tarso e quali prove storiche abbiamo della sua esistenza? Nessun documento storico di fonte non cristiana parla di lui e noi lo conosciamo soltanto attraverso le sue Lettere e gli Atti degli Apostoli.
È molto significativo il fatto che di lui non venga fatta menzione non solo da parte degli storici ebrei suoi contemporanei, come Giuseppe Flavio, Filone Alessandrino e Giusto di Tiberiade, ma neppure nelle Lettere degli apostoli Giuda, Giacomo il Minore e Giovanni, i quali, in base agli Atti, lo conobbero.
Solo la Seconda Lettera di Pietro ne parla esplicitamente, ma questa lettera è universalmente ritenuta un falso, e la stessa CEI, nella versione della Bibbia del 1989, la riconosce come tale.
Paolo è totalmente ignorato anche dai primi apologeti e scrittori cristiani, come Giustino, morto a Roma nel 165, che attribuisce la conversione dei pagani esclusivamente ai dodici apostoli (Apologia I,39-45), e Papia, vescovo di Geropoli (Asia Minore), vissuto nella prima metà del II secolo, che scrisse un'apologia sulle “Sentenze del Signore.”
Il primo a farci conoscere Paolo fu Marcione, filosofo di Sinope sul Mar Nero. Costui nel 140 presentò alla comunità cristiana di Roma il suo vangelo gnostico assieme ad alcune Lettere affermando che erano state scritte da un certo predicatore siriano di nome Paolo che aveva conosciuto gli apostoli di Cristo.
Nonostante queste grosse lacune storiche sulla persona di Paolo, gli studiosi, attraverso un'attenta lettura delle sue Lettere e degli Atti, hanno ricostruito la sua vita. Paolo nacque a Tarso (attuale Turchia) fra il 5 e il 10 d.C. da una famiglia di ebrei collaborazionisti dei romani e ciò spiega perché, ancor giovanissimo, si sia messo al soldo dei sacerdoti del Tempio per dare la caccia ai seguaci di Gesù, da lui ritenuto un messianista jahvista fatto crocifiggere da Pilato come un pericoloso ribelle. Di famiglia sicuramente benestante e che godeva della cittadinanza romana, Paolo probabilmente fin da piccolo portò un duplice nome: quello ebraico di Saul e quello romano di Paolo.
Di professione forniva tende agli accampamenti delle legioni romane per cui fu costretto a viaggiare spesso e a tenere frequenti contatti in ambienti sia ebraici sia greco-romani.
Ancor giovane sviluppò una coscienza ostile al messianismo, radicalmente interpretato, ma aperta ai contributi teologici delle spiritualità gentili. Per lui fu di importanza fondamentale nascere e trascorrere gran parte della sua giovinezza lontano dalla Palestina, fra i gentili, in una città come Tarso, in cui era grande la tensione culturale e religiosa, essendo il centro di convergenza di tutte le teologie escatologiche del vicino Oriente.
In questa città, infatti, era diffusa la tendenza sincretica che portava a fondere e a mescolare i vari culti misterici alla cui base c'era la concezione dell'immortalità dell'anima che veniva redenta dalla morte e dalla resurrezione degli dèi soterici, Mitra, Adone, Attis e Osiride, immolatisi per la salvezza dell'umanità.
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giovedì 26 marzo 2015

La Chiesa Cattolica per giustificare il primato petrino creò tutta una messe sterminata di documenti falsi. 205

La Chiesa Cattolica, di fronte alle numerosissime contestazioni riguardanti il primato petrino e la sua poliitca imperialistica, non si limitò a giustificare le sue pretese servendosi del passo spurio di Mt. (16, 18), ma creò tutta una messe sterminata di documenti falsi, come le Decretali pseudocirilliche e
pseudoisidoriane, centinaia di epistole papali fasulle e falsi decreti conciliari.

Raggiunse il culmine col Constitutum Silvestri contenente la falsa donazione di Costantino. Questo libercolo, considerato il falso dei falsi, la madre di tutti i falsi secondi tutti gli storici, fu per il papato più utile di dieci diplomi imperiali. Costituisce una delle pagine più ignobili della Chiesa perché utilizzato senza scrupoli per secoli nonostante fosse chiaro a tutto il mondo, non escluso quello cattolico, che si trattava di una assoluta falsificazione. Questo documento afferma di riprodurre un editto emesso da Costantino I con il quale l'imperatore donava a papa Silvestro e ai suoi successori le seguenti concessioni:
Questa falsa donazione venne utilizzata dalla Chiesa nel medioevo per avvalorare i propri diritti sui vasti possedimenti territoriali in Occidente e per legittimare le proprie mire di carattere temporale e universalistico.

La proclamazione del primato del vescovo di Roma sull'intera cristianità fu pagato a caro prezzo, però, dalla Chiesa cattolica; infatti dopo una prima scissione temporanea (484-519), nel 1054 tutta la Chiesa cristiana d’Oriente si separò definitivamente da Roma.



Papa Silvestro I


martedì 24 marzo 2015

37 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte seconda. La Parusia e la nascita del cristianesimo giudaico. 3

Nel 44, quando Agrippa I, nipote di Erode il Grande, fu nominato dall'imperatore Claudio re della Giudea e del territorio dello zio, il tetrarca Filippo, avvenne una dura repressione nei loro confronti. Appena insediatosi come re di Gerusalemme, costui, già intimo amico di Caligola, si alleò coi sacerdoti del Tempio nell'intento di reprimere con durezza ogni gesto d'insofferenza del popolo contro i romani.
Così, si diede ad arrestare e a uccidere zeloti e messianisti ed anche i seguaci di Gesù, equiparati a questi ultimi e sempre odiatissimi dai grandi sacerdoti e dagli erodiani.
Si riteneva, infatti, che il loro movimento predicasse la rivolta contro la casta sacerdotale e il disprezzo verso le autorità costituite, in quanto affermava che lo stato di cose di allora sarebbe presto finito per far posto alla realizzazione messianica in cui Gesù sarebbe tornato come re per governare lo Stato dei Santi.
Tra i molti arrestati ci furono Simon Pietro e Giacomo, figlio di Zebedeo e il fratello di costui Giovanni. Giacomo, e forse anche Giovanni, furono giustiziati di spada (condanna che presupponeva un'accusa politica) per ordine del re, mentre Pietro riuscì a fuggire dal carcere.
Il re non osò toccare l'altro Giacomo, il fratello del Signore, perché da tutti troppo stimato e considerato un santo. Sia negli Atti sia nelle Lettere di Paolo, Giacomo fu considerato il principale esponente della Chiesa di Gerusalemme. Da come ci viene descritto da Eusebio di Cesarea era senz'altro un esseno ed anche uno che aveva fatto voto di nazireato.
"Costui (Giacomo) era santo fin dal grembo materno. Non beveva vino né altre bevande inebrianti e non mangiava assolutamente carne. Mai forbice toccò la sua testa; non si spalmava di olio e non prendeva il bagno. Non indossava abiti di lana, ma solo di lino. Era solito recarsi da solo nel Tempio. Lì stava in ginocchio implorando perdono per il popolo talché le sue ginocchia erano diventate callose come quelle di un cammello, perché stava continuamente genuflesso a pregare Dio." (Eusebio di Cesarea, Storia ecclesiastica, op. cit., II, 23, 4-18). La persecuzione non durò molto perché Agrippa I morì poco dopo e Simon Pietro poté rientrare a Gerusalemme. Da allora i cristiano-giudei non furono più molestati.
Dobbiamo tener presente, però, che il cristianesimo in questa prima fase del suo processo evolutivo, era tutt'altra cosa da quello pacifista, degiudeizzato, spoliticizzato e salvifico che conosciamo oggi, dopo la trasformazione teologica operata da Paolo e divenuta definitiva in seguito alla distruzione della Chiesa di Gerusalemme nelle guerre giudaiche del 70 e del 135. Esso era ancora strettamente legato al messianismo jahvista e in stretta relazione con la setta degli zeloti e l'essenismo.
Prima di affrontare l'irruzione di Paolo nel cristianesimo giudaico e la sua creazione del neocristianesimo, ci soffermiamo brevemente ad esaminare l'origine dei due nomi coi quali venivano chiamati i cristiano-giudei: nazirei ed ebioniti. Il termine "nazireo" deriva dal titolo col quale nei Vangeli è chiamato Gesù: "Iesous o Nazoraios" in greco, “Jeoshua ha Nozri" in ebraico, che non significa, come abbiamo già spiegato: "Gesù di Nazareth o Gesù il Nazareno o il Nazaretano" ma "Gesù che aveva fatto voto di Nazireato." Sulla nascita del nazireato rimandiamo il lettore al capitolo su Nazareth.
L'altro termine: "ebioniti" deriva da "ebionim" i "poveri", uno dei nomi che si davano gli esseni di Qumran (L.Moraldi, I Manoscritti del Mar Morto, Utet, Torino, 1975, pag. 49).. Secondo le informazioni dateci da Giuseppe Flavio e Filone Alessandrino e confermate dai Rotoli del Mar Morto, essi rifiutavano la proprietà privata e la ricchezza e donavano agli altri i loro beni terreni quando diventavano membri della comunità.
Nella letteratura qumraniana spesso i membri della setta sono chiamati così: "i poveri". Leggiamo nel Documento di Damasco: "allorché Dio visiterà la terra… quelli che gli prestano attenzione sono i poveri (Ebionim) del gregge; questi saranno risparmiati nell'epoca della visita, mentre i restanti saranno dati alla spada, quando verrà il Messia" (Documento di Damasco 19,5-10). Anche nel Commentario ad Abacuc, altro testo esseno, i seguaci del Maestro di Giustizia sono definiti "ebionim" (i poveri). Questo termine non era riferito tanto agli indigenti, a coloro cioè che dovevano vivere in povertà per mala sorte o per un rovescio di fortuna, ma piuttosto a quelli che avevano scelto la povertà come libera elezione, come dispregio della ricchezza, e che ritenevano la frugalità un sovrabbondante benessere. Come appunto gli esseni (Filone, Quod omnis probus sit liber, Utet, Torino, 1998). Eusebio di Cesarea ci conferma che gli "ebioniti" erano una setta che derivava direttamente dagli insegnamenti dell'apostolo Giacomo a Gerusalemme (M.Black, The Scrolls and Christian Origins, Nelson, London, 1961 (ristampa 1983).


venerdì 20 marzo 2015

36 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte seconda. La Parusia e la nascite del cristianesimo giudaico. 2

Col passare del tempo i cristiano-giudei si divisero in due schieramenti: i nazirei giudei e quelli ellenisti. Il primo gruppo era costituito da ebrei nati e residenti in Palestina; il secondo dagli ebrei della diaspora, fortemente ellenizzati, rientrati a Gerusalemme.
Pur nella comunanza della stessa religione, erano diversi per la lingua usata (aramaico per i primi, greco per i secondi). Uno dei capi degli ellenisti era Stefano, giovane dotato di un'oratoria straordinariamente efficace. Costui, sfoggiando una gran dottrina ricca di citazioni e reminiscenze bibliche, attaccò ripetutamente i sadducei e i farisei con l'accusa di aver tradito Gesù, consegnandolo ai romani. Ritenuto blasfemo per le sue accuse, e per aver dichiarato di aver visto, in una visione celeste, il Messia Martirizzato assiso alla destra di Dio Padre in attesa di ritornare sulla Terra per dare inizio al nuovo Regno d’Israele, fu lapidato dalla folla inferocita (senza che i romani intervenissero minimamente ad impedirlo, a dimostrazione che gli ebrei erano liberi di eseguire sentenze di morte per motivi religiosi e non dovevano ricorrere al prefetto romano).
I cristiano-ellenisti subirono allora una dura persecuzione, soprattutto per opera di un giovane fariseo della diaspora, chiamato Shaul, poi conosciuto come Paolo di Tarso (il San Paolo della Chiesa). Molti furono arrestati e condannati a morte, altri si salvarono rifugiandosi in Asia ove crearono nuove comunità ad Antiochia, a Damasco e a Cipro. Così il cristianesimo cominciò a diffondersi anche tra gli ebrei della diaspora che erano circa tre milioni sparsi nelle varie contrade dell'impero romano ed erano rimasti, più o meno, fedeli all'osservanza della legge ebraica. Il cristianesimo era considerato da costoro un completamento della legge mosaica e nessuno di essi ventilava l'ipotesi che fosse una nuova religione. Saranno questi cristiani ellenisti, fuoriusciti dalla Palestina, che, come vedremo nel proseguo del libro, daranno origine al nostro cristianesimo quando Paolo ne diverrà il capo indiscusso.
Da Antiochia alcuni ebrei cristiani si trasferirono a Roma, che allora annoverava una grossa comunità ebraica, concentrata soprattutto nei quartieri più disagiati di Trastevere, ove svolgeva i commerci minuti e l'artigianato minore.
A dar credito ad Orazio e a Giovenale, importanti poeti latini, questa comunità era piuttosto detestata dalla maggioranza dei romani. I nuovi arrivati non furono bene accetti dai loro connazionali che mal sopportavano il nuovo movimento messianico da loro propagandato.
Gli ebrei della diaspora, infatti, più o meno integrati coi gentili, non condividevano le deliranti aspettative messianiche dei correligionari rimasti in Palestina, anzi le rigettavano con fastidio, consapevoli della loro pericolosità politica. Essi avevano accettato l'impero romano come un dato di fatto e il messianismo era chiaramente incompatibile con questa loro accettazione e con l'esenzione, loro concessa dai romani, di quanto potesse essere contrario alla loro fede.
Vedremo in seguito che questo gruppo, pur esiguo di cristiani, darà luogo a grossi disordini nella capitale e costringerà l'imperatore Claudio a cacciarli da Roma nel 41. Infatti, il partito nazireo di Gerusalemme veniva considerato sovversivo dai romani, come dalla gerarchia sadducea ufficiale di Gerusalemme.
I pagani non furono toccati da quella prima fase evangelizzatrice che si svolgeva esclusivamente nell'interno delle sinagoghe, finché avvenne che alcuni ebrei ellenisti di Antiochia, accanto ai correligionari, inserirono nel loro gruppo anche alcuni pagani, chiamati "timorati di Dio", che frequentavano le sinagoghe come uditori, essendo attratti dal monoteismo e dalla profonda eticità dell’ebraismo, e questi nuovi fedeli furono chiamati per la prima volta cristiani. Questa parola greca significava messianisti. Cristo (Christòs), infatti, era la traduzione in greco di Unto, Liberatore d'Israele, in altre parole, Messia.
La Chiesa di Gerusalemme, temendo che il coinvolgimento dei pagani potesse creare delle deviazioni nell'osservanza della Legge, inviò il levita Barnaba a studiare la situazione. Questi non riscontrò alcuna irregolarità e tranquillizzò Gerusalemme. Avvenne così la prima cauta apertura verso il mondo dei gentili, vista però con un certo fastidio dalla maggior parte dei cristiano-giudei di Gerusalemme, convinti che l'aspettativa messianica riguardasse esclusivamente il popolo eletto. I cristiano-giudei, dopo l'allontanamento dei cristiano-ellenisti più radicali guidati da Stefano, vissero indisturbati a Gerusalemme, protetti dai farisei e dal loro capo Gamaliele, che li stimava per la loro ligia osservanza della Legge, e durante questo periodo di tranquillità poterono incrementare i loro i proseliti fino a raggiungere alcune migliaia.
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giovedì 19 marzo 2015

L'evoluzione storico-linguistica del titolo di Papa nega validità al primato petrino. 204

L’evoluzione linguistica del titolo papale ci mostra come il Vescovo di Roma, da primus inter pares qual era considerato nei primi secoli del cristianesimo, assunse a poco a poco la pretesa di avere la sovranità assoluta sull'intera cristianità.
Il termine Papa (papa = padre), a partire dal III secolo era diventato il titolo onorifico riservato a tutti i vescovi e ciò rimase in vigore fino alla fine del primo millennio.

Per distinguere il «Papa di Roma» dagli altri «Papi vescovi» fin dal V secolo si usò solitamente l’espressione «Papa della città di Roma» oppure «Papa della Città Eterna» o ancora «Papa romano». Poi, dal V al VII secolo si i cominciò talvolta ad attribuire al «luogotenente di Pietro» - locuzione coniata soltanto nel V secolo - il predicato di Papa senz’altri attributi.


Ma nel 1080 Gregorio VII, nel suo Dictatus Papae, proclamò, con parole altisonanti il primato papale su tutto e su tutti per cui il titolo di Papa era unico e perciò doveva essere esclusivo del Pontefice romano. Questo Papa nel suo Dictatus decretò, in pieno delirio di onnipotenza, "Che solo al Papa tutti i Principi debbano baciare i piedi"; "Che ad Egli é permesso di deporre gli Imperatori"; "Che una Sua sentenza non possa essere riformata da alcuno; al contrario Egli può riformare qualsiasi sentenza emanata da altri"; "Che Egli non possa essere giudicato da alcuno"; "Che la Chiesa Romana non ha mai errato; né, secondo la testimonianza delle Scritture, mai errerà per l'eternità". Quindi con l’inizio del secondo millennio il termine «Papa» diventò prerogativa esclusiva del Vescovo di Roma. Ma, in base all'antica tradizione, il Patriarca di Alessandria d'Egitto ancor oggi si fregia del titolo ufficiale di «Papa».

Papa Gregorio VII


martedì 17 marzo 2015

35 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte seconda. La Parusia e la nascita del cristianesimo giudaico. 1

La resurrezione di Gesù, prontamente accettata dagli apostoli, fece abbandonare loro l'idea di rientrare alla chetichella in Galilea e li convinse a rimanere a Gerusalemme per attendere tutti insieme il ritorno del Risorto, ritenuto imminente.
Ebbe inizio così la parusia, cioè l'attesa febbrile del ritorno di Gesù dal cielo in carne ed ossa. Questa seconda metamorfosi di Gesù diede origine al cristianesimo giudaico e determinò la nascita di una setta che fu chiamata "La Via" ma che è meglio conosciuta come la setta dei "nazirei" (Atti 24, 5 e 24,14-15). A proposito del nome "La Via" va ricordato che gli esseni nei rotoli di Qumran designavano se stessi con l'espressione "La Via", in maniera sistematica (R.H.Eisenman, M. Wise, Manoscritti Segreti di Qumran, Piemme, Casale Monferrato (AL), 1994). Essi, ad esempio, si definivano come "I Perfetti della Via" (1QS).
In un primo tempo gli apostoli si raccolsero intorno a Pietro, ai figli di Zebedeo Giacomo e Giovanni. Poi dalla Galilea giunse Giacomo, fratello di Gesù, che ben presto diventò il capo carismatico del gruppo.
I nazirei si incontravano ogni giorno nel Tempio a pregare e poi si riunivano in casa di uno di loro per adempiere al rito esseno della frazione del pane. Tutte le testimonianze sono concordi nel riconoscere il loro straordinario zelo nella pratica del giudaismo rituale: la frequentazione del Tempio, la partecipazione ai sacrifici, l'osservanza delle festività e della legge ebraica, nonché il rispetto del voto di nazireato. "Ogni giorno tutti insieme frequentavano il Tempio e spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore" (Atti 2,46). Giacomo benediceva il pane e lo distribuiva ai presenti. Questa agape fraterna, come leggiamo negli Atti, non aveva niente a che vedere con la cerimonia eucaristica di futura invenzione paolina. Ai cristiano-giudei sarebbe sembrato, infatti, sacrilego ed empio collegare questo pasto comunitario al corpo e al sangue di Cristo, in una specie di cannibalismo rituale. Seguendo le regole ascetiche della comunità qumraniana vivevano in lieta povertà, distribuendo ai poveri i beni di cui disponevano, soccorrendo gli orfani e le vedove nelle loro afflizioni e nei loro bisogni materiali e predicando l'imminente ritorno di Gesù dal cielo (Atti 4,32-35).
Mai passò loro per la mente che la fede nel ritorno del Risorto volesse preludere alla nascita di una nuova religione, staccata dall'ebraismo. Anzi consideravano questa aspettativa come un suo completamento, secondo quanto avevano detto le Scritture e i profeti. La dimostrazione di ciò sta nell'assidua frequentazione del Tempio, cui abbiamo accennato prima. Stando ai primi capitoli degli Atti, essi non avevano alcuna cognizione della natura divina di Gesù; lo ritenevano semplicemente un uomo prescelto dal Signore, e perfino la sua resurrezione non era qualcosa che lo riguardasse esclusivamente, ma un segno dell'inizio dell'era messianica. Se, infatti, avessero proclamato la divinità di Gesù-Dio non avrebbero mai potuto frequentare il Tempio e avrebbero rischiato la lapidazione per la violazione del principio fondamentale dell'ebraismo: il monoteismo. La deificazione di Cristo, che inizierà con Paolo presso i cristiani-ellenisti di Antiochia e verrà poi perfezionata dai Padri della Chiesa e da Costantino imperatore, era allora inconcepibile per i cristiano-giudei della Chiesa di Gerusalemme, che ignoravano pure la nascita verginale, l'istituzione dell'eucaristia e tutte le altre invenzioni mitologiche successive. I rapporti col nazireato e con l'essenismo erano strettissimi.
Infatti avevano scarsa considerazione per l'aspetto esteriore, per ogni forma di lusso e di comodità e non usavano mai forbici e rasoi. In coerenza con la loro tradizione rivoluzionaria e messianica, erano fermamente convinti che la Fine dei Tempi fosse vicina, che Gesù sarebbe tornato sulle nuvole per compiere la redenzione d'Israele e ricostruire il Regno di Dio, provocando la catarsi finale di Israele prima e del mondo dopo.
Infatti Dio: "ha fissato un giorno in cui, a rigor di giustizia, giudicherà il mondo per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone sicura prova col risuscitarlo dai morti" (Atti 17,31).
Questo Risorto era Gesù uomo, non Gesù Figlio di Dio. L’aspettativa escatologica, tema costante della predicazione di Gesù, era fermamente annunciata come imminente, per cui tutti erano convinti di assistervi prima della loro morte.
Lo zelo dei nazirei nel rispettare rigorosamente la Legge, il loro amore per la povertà e la dedizione ai bisognosi favorirono la crescita costante, anche se lenta, del loro numero, che rimase pur sempre limitato (G.Thiessen, Gesù e il suo movimento, Claudiana, Torino, 1979, p. 150), e coinvolsero anche farisei e parte del basso clero.
Probabilmente, usavano come strumento di evangelizzazione una raccolta di epitomi scritti in aramaico che diede poi origine al Vangelo degli Ebrei o Protovangelo di Matteo, fatto distruggere dalla Chiesa e sostituito dai quattro Vangeli, oggi considerati canonici. Gesù era sempre rimasto un ebreo fedele alle prescrizioni della Legge e la sua predicazione si era rivolta esclusivamente ai figli d'Israele. Infatti, sopravvivono nei Vangeli tracce inequivocabili che mettono in bocca a Gesù dei detti, senz'altro autentici, in cui egli dichiara che la sua missione era rivolta esclusivamente alle pecore smarrite della casa d'Israele e non ai pagani, paragonati in modo rozzo e sprezzante a “cani e porci” (Matteo 7,6 – 15,22-26).
Egli non aveva mai tentato di convertire i non ebrei, non li aveva mai indotti a lasciare il politeismo per il monoteismo. Ciò in accordo con la concezione jahvista, che avendo un carattere inequivocabilmente etnico-religioso, non ammetteva che nella causa messianica potessero essere coinvolti anche i non ebrei. I suoi primi seguaci, quindi, seguendo la sua linea, continuarono a diffondere la nuova dottrina esclusivamente tra gli ebrei.
Per quanto riguarda l'osservanza della Legge, considerata imprescindibile per i cristiano-giudei di Gerusalemme, ma rinnegata successivamente da Paolo, essa trova una chiara conferma nei Vangeli. "Non una iota, non un apice cadrà dalle legge" (Matteo 5,18), concetto che viene ribadito anche nella Lettera di Giacomo (Giacomo 2,8).



venerdì 13 marzo 2015

34 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte seconda. La pseudo resurrezione . 2

Sulle apparizioni del Risorto nei giorni successivi regna la più grande confusione tra gli evangelisti. Secondo Luca apparve ai due discepoli di Emmaus (Luca 24,13-42) e agli apostoli a Gerusalemme. Invece per Marco, Matteo e Giovanni, Gesù apparve agli apostoli solo in Galilea e mai a Gerusalemme.
Circa le apparizioni ai soli discepoli, Celso, molto acutamente, si chiese perché il Risorto non apparve anche ai suoi accusatori e giudici, per dimostrare loro la sua reale resurrezione (Origene, op. cit. 2,63-64) mettendo in grande imbarazzi i Padri della Chiesa che non seppero dare al quesito un risposta adeguata.
Ma come apparve Gesù in queste sue manifestazioni, corporeo o incorporeo, riconoscibile o come un personaggio ignoto? Sia nell'uno che nell'altro modo. Infatti in Giovanni la sua figura è così solida che l’incredulo Tommaso può ficcare le dita nelle sue ferite e Gesù inoltre consuma coi discepoli un buon arrosto di pesce; dall'altra appare come un etereo fantasma che non viene riconosciuto come Gesù e può penetrare attraverso porte sigillate (Matteo 28,1-8).
Molto emblematica è la testimonianza dei pellegrini di Emmaus. Dopo aver percorso un lungo tratto di strada con uno sconosciuto, durante il quale vengono rimbrottati da costui per la loro scarsa fede nella resurrezione di Gesù, solo a tavola, al momento di spezzare il pane benedetto, s'accorgono che il loro compagno di viaggio era Gesù risorto (Luca 24,13-31).
Luca è il più confusionario degli evangelisti perché nel suo Vangelo fa avvenire tutte le apparizioni in un solo giorno, mentre negli Atti, lo stesso Luca, le fa durare quaranta giorni.
Per quanto riguarda l'ascensione, le stesse contraddizioni e incongruenze. Matteo ad essa non accenna proprio; Marco ne parla invece esplicitamente (Marco 16,19) ma la sua testimonianza è palesemente aggiunta a posteriori perché nei manoscritti più antichi non c'è. Giovanni la fa raccontare da Maria di Magdala agli apostoli, senza che essi vi abbiano assistito (Giovanni 20,17-18).
Luca presenta due versioni contrastanti. Nel suo Vangelo l’Ascensione di Cristo avviene il giorno della resurrezione, nella sera della domenica di Pasqua e nei pressi di Betania. Negli Atti, invece, quaranta giorni dopo e sul Monte degli Ulivi (Luca 24,50- Atti 1,12). Per ovviare a queste contraddizioni in molti manoscritti antichi il Vangelo di Luca è stato manipolato conservando le parole «e mentre li benediceva si separò da loro», ma togliendo le altre «e venne elevato al cielo» (Luca 24,51). Insomma non c'è nulla di certo, tutto si svolge nel vago e nel pressappoco. Ciò rende evidente che la resurrezione e l'ascensione furono il frutto di fantasie, di vari sentito dire. Sono in molti a ritenere, a cominciare da Celso (vedi: Origene, Contra Celsum, Rizzoli, Milano, 1989), la cui opera corrosiva “Il discorso vero” fu distrutta dai Padri della Chiesa , che il corpo di Gesù sia stato trafugato dalla tomba e nascosto da Giuseppe d'Arimatea e che la resurrezione e l'ascensione siano scaturite dalla fantasia delirante della "pasionaria" e presunta consorte, Maria di Magdala.


giovedì 12 marzo 2015

Nei primi due secoli, talvolta i vescovi di Roma furono contestati da gran parte della cristianità. 203

Non solo i vescovi di Roma per più di due secoli non si interessarono mai della presunta introduzione del Primato di Pietro, ma talvolta furono anche pesantemente criticati dal resto della cristianità. Nel precedente post si è parlato di Stefano I per la sua opposizione al battesimo degli eretici scoppiata tra Roma e Cartagine dal 255 al 257 e la dura contestazione nei suoi confronti dei vescovi africani e asiatici e perfino occidentali con epiteti spesso ingiuriosi e il suo paragone con Giuda.

Un altro scontro, molto duro, tra il vescovo di Roma e i cristiani dell'Asia Minore si verificò in occasione della polemica sulla datazione della festività pasquale, che, iniziata da Sisto I intorno al 115, proseguì per lungo tempo nella cristianità in epoche diverse. L'apice del conflitto avvenne verso la metà deI II secolo quando il vescovo Policarpo di Smirne, si recò spontaneamente a Roma per trovare un compromesso. Ma la sua missione fallì. La diatriba riesplose alla fine del Il secolo quando un altro vescovo di Roma Vittorio I scomunicò l’intera Chiesa d’Asia Minore, la quale, da parte sua, non attribuì gran peso alla faccenda.

Il Vescovo Policrate di Efeso, capo di quella Chiesa, si limitò a scrivere a Roma:
«Fratelli, io, invecchiato nel Signore da 65 anni, io, che ho avuto rapporti coi fratelli di tutto il mondo, io, che ho letto a fondo tutta la Sacra Scrittura, non mi lascerò atterrire da alcuna minaccia; infatti, uomini di me più grandi hanno detto: “Bisogna obbedire più a Dio che non agli uomini».

La prepotenza romana suscitò allora una resistenza pressoché universale: le comunità cristiane si levarono ovunque sdegnate per il comportamento di
Vittorio. Si unirono alla protesta anche molti vescovi occidentali, fra i quali quello
di Lione, il Dottore della Chiesa Ireneo . I cristiani d’Asia Minore
conservarono ancora per due secoli le loro specificità rituali finché l'imperatore Costantino non le abrogò su istigazione di Roma. Ma durante questo conflitto
coi colleghi d’Asia nessuno dei vescovi romani fece mai menzione del celebre passo di Matteo, tirato in ballo e utilizzato propagandisticamente per la prima volta da Stefano I (254-257) durante la diatriba sul battesimo degli eretici.

Fu solo un decreto del V secolo, attribuito al Papa Gelasio I (492-496), ma probabilmente più antico, riguardante le opere permesse e proibite, che contiene la prima attestazione a noi giunta, nella quale il passo di Matteo. (16,18 sg.) viene apertamente considerato il documento istitutivo del primato papale.









Papa Vittorio I


martedì 10 marzo 2015

33 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte seconda. La pseudo resurrezione .1

Mentre i seguaci di Gesù, rintanati nei pressi della Piscina di Siloe, frastornati e increduli dell'ignominiosa fine del loro capo, s'accingevano a rientrare alla chetichella in Galilea, Maria di Magdala, in preda a viva esaltazione, corse ad annunciar loro che aveva trovato la tomba del Maestro vuota.
Quest'annuncio fu come una folgorazione che dileguò, per incanto, il loro sconforto e trasformò la sensazione di sconfitta, causata dalla morte del loro presunto Messia, nell'euforica certezza della sua resurrezione. Una nuova speranza messianica si aprì alle loro menti: il Messia di discendenza davidica era risorto e, asceso al cielo alla destra di Dio Padre, sarebbe tornato sulla Terra, come Messia Martirizzato, sotto le spoglie del Figlio dell'Uomo, preconizzato nel Libro di Daniele.
Circonfuso di potere e di gloria avrebbe, dopo la cacciata definitiva degli oppressori d'Israele, rifondato il regno di David e restaurato l'antico Tempio di Salomone. Il nuovo regno sarebbe stato santo e imperituro e avrebbe costretto i gentili ad adorare Jahvè.
Questa convinzione si diffuse rapidamente tra i seguaci di Gesù e fu alla base del mito della sua resurrezione. Abbiamo visto in precedenza che il mondo antico, soprattutto ai tempi di Gesù, era dominato dalla superstizione più ampia, diffusa a tutti i livelli sociali, per cui visionari, guaritori e taumaturghi operavano ovunque pseudomiracoli di ogni genere, comprese le resurrezioni.
Prima di Cristo, secondo le leggende antiche, erano resuscitati dai morti il babilonese Marduk e molti altri dèi, come il siriano Adone, l’egiziano Osiride, il tracio Dioniso, per citarne alcuni. I miti di questi dèi erano diffusi in tutto l'Oriente e molto noti anche in Palestina.
A similitudine di Gesù, essi avevano subito sofferenze e martirio ed erano anche morti sulla croce. Le analogie col culto cristiano ci appaiono incredibilmente simili. Per fare un esempio: Marduk fu arrestato, processato, condannato a morte, fustigato e giustiziato assieme a due malfattori. Dopo la resurrezione discese agli inferi per liberare le anime dei defunti. Insomma la sua vicenda è analoga a quella di Gesù, per cui la pseudo resurrezione del Galileo apparve al suo tempo quasi normale.
Solo che riguardo a questo importantissimo avvenimento le contraddizioni, le incongruenze e le assurdità superano ogni immaginazione al punto che la teologia storico-critica lo giudica privo di ogni veridicità. La resurrezione vera e propria, infatti, non viene raccontata dai Vangeli canonici ma solo dal Vangelo apocrifo di Pietro, non riconosciuto dalla Chiesa.
I Vangeli canonici si limitano esclusivamente a far rilevare che le pie donne trovarono il sepolcro vuoto e ciò fece sorgere nell'antichità, ma anche nel Medioevo, la tesi che la sparizione del cadavere di Gesù fosse opera di Giuseppe di Arimatea con la connivenza della Maddalena.
Ma vediamo come i Vangeli raccontano la resurrezione di Gesù. Secondo Marco, la mattina della domenica di Pasqua, tre donne si recano con unguenti profumati al sepolcro per l’unzione del cadavere di Gesù, ignorando che questa era già stata fatta da Giuseppe d'Arimatea con spezie del peso di «ben cento libbre» (Giovanni 19,39). In più non si preoccupano di chi le potesse aiutare a smuovere la pietra tombale, che sapevano già sigillata e molto pesante. Trovano la tomba aperta e vuota e un angelo che annuncia loro la resurrezione di Gesù. Di quest'annuncio le tre donne non dicono nulla a nessuno perché impaurite (Marco 16,8). Successivamente Marco fa apparire Gesù anche alla Maddalena che annuncia la sua resurrezione a tutti i discepoli.
Il professor Bart Ehrman (Gesu non l'ha mai detto, Milano, Mondadori, 2007), una delle massime autorità mondiali nel campo degli studi biblici e  studioso di filologia greca ed ebraica, ha recentemente fatto la sconcertante scoperta che il racconto della resurrezione di Gesù non esisteva nei più antichi manoscritti del Vangelo di Marco ma fu aggiunto molto tempo dopo da un ignoto copista. Ha scoperto anche che altri passi evangelici non esistevano nei manoscritti più antichi, come ad esempio quello dell'adultera perdonata. (Giovanni 8,3-11).
In Matteo le donne sono due e vanno solo per dare uno sguardo alla tomba, senza considerare l'unzione del cadavere (Matteo 28,1) e trovano la tomba vuota e un angelo che annuncia la resurrezione e si precipitano immediatamente «a portare la notizia ai discepoli» (Matteo 28,8).
In Luca le donne sono più di tre e incontrano due angeli e dopo l'annuncio della resurrezione recano la notizia «agli undici e tutti gli altri» (Luca 24,9). In Giovanni a scoprire la tomba vuota è la sola Maddalena recatasi di buonora al sepolcro e subito corre ad avvertire Pietro e l'altro discepolo, che Gesù amava, della sparizione del cadavere.
Poi torna alla tomba e, mentre piange, vede prima due angeli vestiti di bianco e poi Gesù, che lei scambia per il giardiniere (Giovanni 20,1-17). Concludendo: per Marco e Giovanni la storia della resurrezione si verifica solo nella testa di Maria Maddalena.

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venerdì 6 marzo 2015

32 -“L'invenzione del cristianesimo” - Parte prima. Considerazioni finali su Gesù.

Nelle pagine precedenti abbiamo delineato la figura e l'opera del Gesù storico, mettendo in evidenza le sue aspirazioni regali e messianiche e i suoi stretti legami con gli esseni di Qumran.
Abbiamo denunciato le grossolane manipolazioni che sono state operate sulla sua nascita, sul suo luogo di provenienza, sulla sua famiglia. Abbiamo dimostrato l'appartenenza degli apostoli alla setta degli zeloti. Infine, abbiamo chiarito che la condanna a morte per crocifissione non dipese da motivi religiosi ma squisitamente politici.
Contro queste conclusioni, basate su dimostrazioni chiare ed evidenti, derivate dagli stessi testi canonici, la Chiesa si è sempre battuta, usando ogni mezzo a sua disposizione per depistare la verità storica e sostituirla con la sua verità di regime.
La messianicità di Gesù e dei suoi discepoli, però, come abbiamo visto, è documentata nei Vangeli in modo schiacciante, nonostante i molteplici tentativi per occultarla.
A conclusione del presente capitolo la vogliamo rapidamente riepilogare:
1. l'annunciazione e la genealogia di Gesù in Matteo nelle quali viene proclamato il suo ruolo davidico e regale;
2. la mitica strage degli innocenti ordinata da Erode per eliminare l'annunciato concorrente al trono d'Israele e la conseguente fuga di Gesù in Egitto per sfuggire alla morte;
3. il battesimo di iniziazione essena, somministrato da Giovanni Battista, durante il quale Gesù viene proclamato il Messia che doveva venire per raccogliere il grano e bruciare la pula, cioè a restaurare il Regno di Dio e a dare inizio all’èra messianica.
4. l'ingresso trionfale a Gerusalemme, alcuni giorni prima del suo arresto, durante il quale Gesù viene osannato come il figlio di David e il nuovo re d'Israele;
5. la cacciata dei mercanti del Tempio come profanatori, vero atto di guerriglia di stampo esseno-zelota;
6. l’unzione di Gesù come Messia per opera di Maria di Magdala nella casa di Betania;
7. le parole del sommo sacerdote Caifa sul coinvolgimento politico di Gesù;
8. l'invito di Gesù agli apostoli, alla fine dell'ultima cena, di procurarsi delle armi;
9. il tentativo di opporsi all'arresto con l'uso delle armi da parte di Pietro;
10. l'arresto di Gesù per mano di una coorte romana di 600 soldati;
11.le ammissioni esplicite dello stesso Gesù, in risposta alle domande di Caifa, di essere il Messia e il re d'Israele;
12. le accuse a Gesù dei giudei davanti a Pilato di istigazione alla ribellione, del rifiuto di pagare i tributi a Cesare e di essersi proclamato re d'Israele;
13 la toga rossa e la corona di spine fatta indossare dai soldati a Gesù per irridere la sua pretesa regalità;
14. la condanna alla crocifissione, pena riservata ai ribelli politici;
15. la scritta sulla croce "Gesù, re dei Giudei" fatta mettere da Pilato, come causa della condanna;
16. la concomitante condanna, accanto a Gesù, di due personaggi, quasi sicuramente coinvolti nella guerriglia antiromana, perché crocifissi per ribellione politica;
17. l'esecuzione di Giuda, karakirizzato secondo la prassi degli zeloti;
18. le ripetute attribuzioni della regalità di Gesù nei Vangeli (sei in Marco, cinque in Matteo, due in Luca e otto in Giovanni) e quelle della sua discendenza davidica (una in Marco, sette in Matteo e una in Luca);
19. la lapidazione di Giacomo, fratello di Gesù, perché lo aveva osannato come figlio di David e re d'Israele.
Nei prossimi capitoli vedremo la trasformazione del Gesù storico (il “Jeoshua ha Nozri”), da fallito Messia d'Israele, a risorto Messia Martirizzato, assiso alla destra del Padre e destinato, secondo la profezia di Daniele, a tornare quasi subito dal cielo per riscattare definitivamente Israele.
Esamineremo così la seconda metamorfosi di Gesù che fu all'origine dei cristiano-giudei della Chiesa di Gerusalemme, guidati da Giacomo, fratello del Signore, e dei cristiano-ellenisti del primo Paolo.
La definitiva trasformazione teologica di Gesù in “Nostro Signor Gesù Cristo”, Figlio di Dio, immolatosi per la salvezza spirituale dell'intera umanità, come oggi è ritenuto dall'intero mondo cristiano, e attuata da Paolo e i suoi seguaci, sarà esaminata nella terza parte.    

giovedì 5 marzo 2015

Anche sommi Padri della Chiesa come Ambrogio e Agostino negarono il primato di Pietro. 202

Fu solo nel Medioevo che il papato riuscì a imporre definitivamente il primato della Chiesa di Roma su tutta la cristianità approvando la propria sanzione nei Canones del Vaticano e del Codex juris canonici, il Codice Giuridico della Chiesa romana, entrato in vigore nel 1918.

Il Concilio Vaticano del 1870 definì l’istituzione del primato dottrinale e giuridico del Papa, basandosi in Mt. 16, 18 " E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa", considerato «un insegnamento evidente della Sacra Scrittura», condannando come «opinioni insensate» tutte le altre concezioni, anche quelle della Chiesa antica, compresa quella di Sant’Agostino. Furono dichiarate opinioni perverse anche quelle dei Padri della Chiesa fino al V secolo che conoscevano chiaramente gli insegnamenti della Sacra Scrittura senza mai riconoscere quella supremazia giurisdizionale di Pietro, attribuitagli poi dalla Chiesa.

Anche Paolo ignora questo primato: egli nelle sue Lettere parla di Giacomo, Cefa (Pietro) e Giovanni, limitandosi a definirli «colonne», e come si vede Cefa non viene citato neppure al primo posto! Intorno al 150 Giustino, il più eminente apologeta del Il secolo, che oltretutto allora viveva a Roma, non aveva nessuna idea del primato petrino, tanto che nomina solo due volte l'apostolo Pietro chiamandolo «uno dei discepoli» e «uno degli apostoli».
Nella mole immensa dei suoi scritti Origene non parla mai di un primato del vescovo romano, neppure quando commenta dettagliatamente il passo cruciale contenuto in Matteo (16, 18).

E Cipriano, Padre della Chiesa, non riconobbe mai Ie pretese di primato dei vescovi romani. A suo parere tutti i vescovi erano successori di Pietro e portatori di un’eguale dignità nel senso pieno del termine: «Da noi- scrive Cipriano - non esiste un vescovo dei vescovi, poiché nessuno costringe all’obbedienza con autorità tirannica i propri confratelli». Vescovo, Padre e Santo della Chiesa Cattolica, Cipriano seppe opporsi con durezza al vescovo di Roma durante la polemica sul battesimo degli eretici scoppiata tra Roma e Cartagine dal 255 al 257. Insieme a 86 vescovi nordafricani, nonché a Tertulliano e a Clemente Alessandrino, Cipriano si oppose con estrema decisione al vescovo di Roma Stefano I, che rifiutava l'obbligo di ribattezzare gli «eretici» disposti a rientrare nel cattolicesimo.

Durante questa diatriba il più prestigioso vescovo d’Asia Minore, Firmiliano di Cesarea, evidentemente anche a nome dei colleghi, accusò il vescovo di Roma non solo di «insolenza», «impudenza» , «stoltezza», ma lo definì anche «presuntuoso» «ignorante» e «bugiardo»; e, dulcis in fundo, lo paragonò addirittura a Giuda Iscariota.
Dopo che la posizione di Cipriano, circa la sua approvazione del primato di Pietro, fu definitivamente chiarita, dimostrando che le sue affermazioni in proposito erano un falso aggiunto a posteriori, la fazione cattolica, che fino ad allora lo aveva sempre tirato in ballo quale testimone importante del primato papale, cambiò spudoratamente parere affermando che l'atteggiamento contrario del Padre della Chiesa non inficiava affatto il dogma cattolico del suddetto primato del Papa. Anche il Dottore della Chiesa Ambrogio fu sostenitore dell’uguaglianza di tutti i vescovi. Infatti egli non riconobbe alla Cathedra Petri né un primato onorifico né quello giurisdizionale.
Ma Agostino, considerato il massimo dottore della Chiesa, che agli inizi del V secolo aveva commentato correttamente il passo di Matteo negando il primato papale, fu per questo tacciato di eresia. Il Concilio Vaticano I infatti lo accusò di aver professato «opinioni maligne» (pravae sententiae). Quindi, in base al Sinodo dei vescovi di Spagna, che alla fine del VII secolo riconobbe le pene dell'inferno a chi professava opinioni maligne riguardo alla fede, tutti i Padri della Chiesa contrari al primato papale, nonostante proclamati santi, secondo questo concilio non godrebbero le gioie del paradiso.



martedì 3 marzo 2015

31 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte prima. La crocifissione

Sulla "via crucis" non c'è accordo tra i quattro Vangeli. I tre Sinottici ci dicono che Gesù era talmente provato dai maltrattamenti subiti dai soldati da essere incapace di portare il "patibulum", cioè l'asse sul quale doveva essere inchiodato. Fu necessario ricorrere all'aiuto di un tal Simone di Cirene.
Il quarto evangelista ci dice al contrario che fu Gesù a portare il patibulum. Luca, sempre il più fantasioso degli evangelisti, racconta che, strada facendo, Gesù si rivolse alle pie donne che lo seguivano affrante, per profetizzare loro la fine di Gerusalemme e le immani sciagure che avrebbero colpito Israele.
Questo brano, conosciuto come "la piccola apocalisse" è una "prophetia post eventum" (aggiunta cioè a posteriori) in quanto allude chiaramente alla guerra combattuta nel 70 d.C. quando l'esercito di Tito, figlio dell'imperatore Vespasiano, attuò la distruzione di Gerusalemme. Una riconferma che i Vangeli cominciarono ad essere scritti dopo quel terribile evento. Giunto sul Golgota, Gesù fu spogliato e inchiodato alla croce, pena riservata ai ribelli politici, assieme ad altri due che la tradizione ci tramanda come dei ladroni, cioè dei mascalzoni comuni.
È l'ennesima frottola. Il testo greco li definisce " (dio lestas)" termine che Giuseppe Flavio usa per indicare gli zeloti, cioè i ribelli politici (i terroristi d'oggi). Erano quindi due correi rivoltosi, quasi sicuramente coinvolti in un atto di guerriglia anti-romana, e quindi crocifissi per ribellione politica.
Probabilmente erano i responsabili della sommossa e dell'omicidio raccontati dagli evangelisti a proposito dell'arresto di Barabba. Il comportamento verso Gesù di questi due ribelli crocifissi viene descritto in modo contraddittorio da Marco e da Luca. Per Marco entrambi lo insultarono. "E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano" (Marco 15,32). Per Luca, invece, uno di essi invitò sarcasticamente Gesù a salvare se stesso e loro, mentre l'altro si raccomandò a lui quando fosse entrato nel suo regno (Luca 13,39-43). Come si vede, le contraddizioni sono continue tra gli evangelisti.
A questo punto i romani, su ordine di Pilato, appongono sulla croce di Gesù il “titulum”, cioè la targa che doveva specificare il motivo della sua condanna. Svetonio e Dione Cassio ci hanno tramandato che il titulum era obbligatorio in ogni condanna a morte. In quello posto sulle croce di Gesù era scritto in tre lingue: aramaico, greco e latino (perché fosse alla portata di tutti): "Questo è il re dei giudei" (Luca 23,38). Prova inconfutabile che Gesù veniva condannato per un reato esclusivamente politico, confermata anche dalle frasi di scherno pronunciate dai presenti all'indirizzo di Gesù morente: "Il re d'Israele scenda ora dalla croce perché vediamo e crediamo" (Marco 15,32).
Prima del sopraggiungere della morte, secondo Marco e Matteo, Gesù ebbe un attimo di smarrimento e pronunciò il grido di terrore e solitudine: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Marco 15,34), inconcepibile se Cristo fosse stato il Figlio di Dio che s'immolava per la salvezza dell'umanità, ma chiarissimo per un aspirante Messia che, avendo fermamente creduto nell'intervento di Jahvè in suo aiuto, constatava con disperazione l'abbandono divino e il fallimento della sua missione.
I Sinottici raccontano che al momento della morte di Gesù accaddero degli eventi soprannaturali, quali: eclissi, terremoti, frane, resurrezioni e lo squarciamento nel Tempio del velo che nascondeva la Sancta Sanctorum, Questi accadimenti straordinari furono totalmente ignorati dai cronisti del tempo e rientrano quindi chiaramente nella pura mitologia.
La morte di Gesù fu molto rapida. Di solito i crocifissi, specie se di costituzione robusta, potevano sopravvivere per molte ore e talora anche per alcuni giorni, soffrendo un'atroce agonia. Ma Gesù, stando ai Sinottici, già dopo poche ore dalla crocifissione era entrato in deliquio e nel primo pomeriggio emise il suo ultimo respiro.
Ormai si avvicinava la sera di quel venerdì, vigilia della Pasqua, e bisognava affrettarsi a procedere alla deposizione perché la solenne festività del giorno dopo non consentiva che fossero ancora esposti i cadaveri dei suppliziati.
E, a questo punto, troviamo l'ennesima conferma che Gesù era stato giustiziato per aver tentato un complotto messianico.
Chi infatti procedette alla sua deposizione e alla sua sepoltura non furono gli apostoli, datisi ignominiosamente alla macchia, e nemmeno i membri della sua famiglia (inspiegabilmente assenti), ad eccezione della presunta consorte Maria di Magdala e della zia Maria Cleofe, ma due importanti esponenti del sinedrio: Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo, che condividevano il suo ideale jahvista. Se Gesù fosse stato condannato dal sinedrio per bestemmia, mai questi due importanti personaggi, definiti capi dei Giudei, avrebbero potuto prendersi cura del suo corpo e dargli sepoltura onorata, in un sepolcro di loro proprietà. Sarebbero stati accusati di disprezzo per il Tempio e di empietà (W. Fricke, Il caso Gesù," Rusconi, Milano, 1988). Il fatto che poterono prendersi cura del corpo di Gesù, senza incorrere nella scomunica del sinedrio, cioè del tribunale religioso, è la prova che Gesù non fu giustiziato per blasfemia ma per ribellione armata. Con l'aiuto delle tre Marie (tra le quali i Sinottici annoverano Maddalena ma non la madre di Gesù) i due sinedriti provvidero alla sepoltura del suppliziato in una tomba di proprietà di Giuseppe d'Arimatea.
Secondo i Sinottici Gesù fu deposto nella tomba avvolto in un lenzuolo funebre (sindone); secondo Giovanni, invece, avvolto in bende intrise di aromi. (Se Giovanni ha ragione allora la Sindone di Torino è un falso conclamato).
Alle prime ombre del crepuscolo di quel fatidico venerdì, il dramma iniziato appena diciotto ore prima, era definitivamente concluso. La rivolta, soffocata ancor prima di nascere, e il mancato intervento delle schiere celesti di Jahvè, avevano fatto fallire l'ennesimo tentativo messianico.
Il disperato grido del Messia fallito, morente sulla croce: "Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato!" era la tragica ammissione di una sconfitta irreparabile. Anche se Gesù, per il fatto di essere stato crocifisso dall'oppressore Pilato, era per l'opinione pubblica (esclusi i grandi sacerdoti e gli erodiani) un patriota martire, per i suoi seguaci la sua crocifissione si trasformò nella fine di ogni speranza. Si erano illusi di sedere alla destra e alla sinistra del trono del nuovo re d'Israele e si trovavano rintanati nei pressi della piscina di Siloe, tremanti d'orrore e di paura perché complici di un criminale giustiziato.
Qui finisce la vicenda terrena di Gesù, uno dei tanti Messia falliti che il clima fanatico dell'epoca faceva nascere e tramontare con una certa frequenza. Di lì a qualche decennio dalla sua morte, il crescente e sempre più esasperato delirio messianico avrebbe portato alla distruzione totale di Gerusalemme e alla cacciata di tutti gli ebrei dalla Palestina, cioè alla fine dello Stato d'Israele.


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Informazioni personali

Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)