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venerdì 29 maggio 2015

56 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte quarta - La divinizzazione di Gesù.

Con la nascita dell'impero romano l'Imperatore venne ben presto divinizzato come Redentore, come Benefattore e Salvatore dell’Umanità, come Luce del mondo e Figlio di Dio. Già Augusto fu oggetto di un simile culto ed ancor più lo divennero gli Imperatori successivi, soprattutto Claudio, Nerone, Vespasiano e Domiziano.
Questo culto dei Cesari si basava sulla credenza che nel sovrano s’incarnasse la divinità, che egli fosse il Redentore che avrebbe posto fine all’antico male del mondo e avrebbe dato inizio ad una nuova età felice, come preconizzava Virgilio nella IV Ecloga.
Quando il culto degli Imperatori, venerati come divinità e chiamati Kyrioi (Signori in senso divino) trapassò nella figura di Gesù, ebbe inizio il processo della sua divinizzazione. Gesù è chiamato «Redentore» già nella Lettera di Paolo ai Filippesi (3,20), che risale agli ultimi anni della vita dell'apostolo e venne composta a Roma, dove allora regnava Nerone, che portava il titolo di Cesare, Imperatore, Dio, Salvatore.
Fu Paolo, quindi, che per primo iniziò la divinizzazione di Gesù, trasformando la sua persona umana in un Dio sceso sulla Terra per redimere l’umanità.
Infatti, la teologia critica nega che il Gesù storico si sia attribuito i titoli messianici, come Figlio di Dio, Figlio di Davide, Figlio dell’Uomo che gli evangelisti gli assegnarono successivamente nei loro Vangeli, e mette in risalto che non fu mai oggetto di culto da parte della comunità primitiva di Gerusalemme.
Mai gli apostoli e i familiari, tra cui Giacomo suo fratello, allusero alla sua divinità. Per loro era soltanto una persona umana: un uomo privilegiato da Dio, il profeta annunciato da Mosé, il «servo» di Dio. Nei Vangeli di Matteo e Luca, invece, in seguito alle molte manipolazioni apportate, Gesù subisce una metamorfosi semidivina che diventa addirittura divina nel successivo Vangelo di Giovanni e negli Apocrifi.
Ma a smentirli provvede il Vangelo più antico, quello di Marco nel quale Gesù viene presentato sempre come uomo, ben consapevole dell’enorme distanza tra sé e la divinità, e mai concepito preesistente e identico a Dio. I due versetti che alludono alla sua divinità: “Inizio del vangelo di Gesù Cristo [Figlio di Dio]” (Marco 1,1) e «In verità, quest’uomo è stato il figlio di Dio» (Marco 15,39), sono considerati dai teologi critici assolutamente non autentici.
Infatti, Gesù in questo Vangelo non è onnipotente e onnisciente, né assolutamente buono come avrebbe dovuto essere se fosse equiparato a Dio. A Nazareth, “non poté compiere alcuna opera potente (Marco 6,5)”; a proposito del giorno del Giudizio dichiarò che nessuno ne conosceva il momento preciso, ad eccezione di Dio, «neppure il Figlio» (Marco 13, 32); ad un ricco che lo definisce «buono» risponde: «Perché mi chiami buono? Nessuno è buono, soltanto Dio» (Marco 10,18).
Queste limitazioni apparvero funeste ad alcuni Padri della Chiesa che le negarono, considerandole un falso (Ambrogio, De fide 5,8) o le stravolsero completamente (Basilio, Epistole 236,2).
La divinità di Gesù, iniziata da Paolo ma del tutto ignorata dalla Chiesa di Gerusalemme, fu perciò imposta dalla Chiesa ellenistica di derivazione paolina e codificata come dogma, come vedremo in seguito, dal Concilio di Nicea del 325, su pressione di Costantino.
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giovedì 28 maggio 2015

L'influsso delle religioni misteriche su Paolo di Tarso e il primo cristianesimo. 214

Paolo nacque a Tarso (oggi Turchia) in una città allora molto fiorente in cui era grande la tensione culturale e religiosa, essendo il centro di convergenza di tutte le teologie escatologiche del vicino Oriente. In essa era diffusa la tendenza sincretica che portava a fondere e a mescolare i vari culti misterici alla cui base c'era la concezione dell'immortalità dell'anima che veniva redenta dalla morte e dalla resurrezione degli dèi soterici, Mitra, Adone, Attis e Osiride, immolatisi per la salvezza dell'umanità.

È indubbio che Paolo, come ogni altro bambino nato e cresciuto a Tarso, dovette subire il fascino delle grandi cerimonie che si svolgevano in onore degli dèi misterici, considerati salvatori divini, e assimilarne inconsapevolmente i riti e i significati profondi, soprattutto i due sacramenti più importanti, che egli adotterà poi per il suo cristianesimo personale, il battesimo e l’eucaristia.

Infatti, in tutte le religioni misteriche ellenistiche esistevano due momenti cultuali dominanti: il banchetto sacro ritualizzato, durante il quale si mangiava la carne del Dio, cioè del dio-animale (agnello, toro o pesce) a lui sacrificato, e si beveva un calice di vino a simboleggiare il suo sangue, e il battesimo, inteso come cerimonia unica di affiliazione ma anche come lavacro di tutte le colpe. I banchetti sacri affondavano le loro radici negli antichissimi riti del cannibalismo rituale, praticato non per istinto ferino ma per acquistare le particolari energie fisiche e spirituali della vittima, mangiandone le carni.

Il quotidiano contatto con questi riti pagani impedì all'ebreo Paolo di crescere con l'incontrastabile certezza, comune a qualsiasi gerosolimitano di nascita, di essere il centro religioso dell'universo e di considerare i gentili (gli infedeli incirconcisi) nient'altro che rozzi e reietti peccatori e lo portò ad aprirsi alla spiritualità pagana che annoverava oltre che i riti misterici anche scuole filosofiche di altissimo livello etico. L’influenza del paganesimo sul cristianesimo, che si accentuerà sempre più nel II e nel III, appare già imponente nelle Epistole paoline con l'istituzione dei due sacramenti cristiani più importanti: il battesimo e l’eucaristia, scopiazzati dai pagani.


Mitra dio del Sole


martedì 26 maggio 2015

55 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte quarta -Le prime comunità cristiane 2

Vescovi, presbiteri e diaconi furono spesso accusati di avarizia, avidità di potere, ambizione arrogante e simonia. La Chiesa si era trasformata in una spelonca di lucratori senza scrupoli e si era rapidamente mondanizzata.
La situazione peggiorò quando con l'esautorarsi del prestigio e dell'importanza dei Profeti e dei Maestri, i vescovi aggiunsero alle funzioni economiche anche quelle pastorali ed eucaristiche. Alla fine del II secolo essi avevano tutto il potere nelle loro mani: economico, giuridico e pastorale (celebrare l'eucaristia, ammettere nuovi fedeli, somministrare il battesimo e così via); inoltre erano inamovibili fino alla morte e governavano la loro comunità come monarchi assoluti.
Erano eletti dal popolo e fino al 483 anche i vescovi di Roma vennero eletti dai fedeli romani. Una carica così importante suscitava sempre enormi e smodati appetiti per cui alla morte di un vescovo, l'elezione del successore spesso avveniva tra risse furibonde, come ci racconta Gregorio di Nazianzio, Padre della Chiesa.
Nel 366 quando i due candidati Damaso e Ursino si contesero il trono episcopale della Città Eterna, i partigiani delle due fazioni si massacrarono crudelmente all'interno delle chiese, disseminandole di centotrentasette cadaveri. Ci furono anche seggi episcopali ereditari. Policrates di Efeso fu l’ottavo vescovo nella sua famiglia (Eusebio di Cesarea, op. cit. 5,24). Infatti allora i vescovi, come i presbiteri, erano sposati. Nel corso del IV secolo le comunità cristiane diventarono più numerose e più ampie e s’accrebbe, di pari passo, la necessità di una più articolata gerarchia ecclesiastica. La carica di vescovo diventò sempre più importante e progressivamente fu sottratta al suffragium plebis, l’antico diritto di voto dei laici. Il vescovo venne nominato dall'alto o cooptato da altri vescovi e al posto dei diritti elettorali ai laici fu concesso quello dell'assenso a cose avvenute.
Non fu più concesso ai laici di chiamare gli ecclesiastici di più alto grado col nome di “Fratelli” ma con quello di “Signori” e il vescovo col titolo di “Santo Padre”. Nel V secolo alla presenza del vescovo furono imposti il baciamano e la prosternazione e dal VII fu introdotti l'uso dell'incensazione, come si faceva in precedenza davanti all'imperatore romano.
Nelle primitive comunità cristiane chiunque, anche uno schiavo, poteva diventare vescovo. Successivamente, sotto Papa Leone I, fu vietato a schiavi, liberti e popolani di accedere alle cariche ecclesiastiche anche inferiori.
Abbiamo visto che le primitive comunità cristiane erano autonome e indipendenti. Con il consolidarsi del potere dei vescovi si stabilì tra di loro dei legami che divennero sempre più stretti e che diedero origine ad un sistema clericale minuziosamente regolato e burocratizzato.
Era nata la Chiesa. Inventore del concetto di Chiesa fu Tertulliano. Fu lui a travasare nell'istituzione da lui concepita l’intero edificio giuridico romano. Mezzo secolo dopo, Cipriano dichiarò la Chiesa unico strumento di salvezza.
Lapidaria la sua frase che era tanto cara a papa emerito Ratzinger: «Fuori della Chiesa non c’è salvezza” (Cipriano, De unitate ecclesiae 6; epistole 55,24; 73,21).
La Chiesa ha da sempre sostenuto un'ininterrotta successione di vescovi a partire dall’epoca apostolica onde dimostrare il trasferimento da Dio a Gesù, da Gesù agli apostoli e da questi ai vescovi e ai papi delle cariche ecclesiastiche. Una successione del genere non è mai esistita. Ma la Chiesa, procedendo a falsificazioni di ogni genere, ha colmato i vuoti tra gli apostoli e i vescovi monarchi inventando tutta una serie di nomi fasulli. Il termine «apostolico» è diventato per essa un collante universale.
La dottrina, i dogmi, le forme di culto, il canone, la Chiesa stessa e quant'altro, tutto secondo essa è di origine apostolica. Ma in realtà si tratta soltanto di un cumulo di falsi.
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venerdì 22 maggio 2015

54 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte quarta -Le prime comunità cristiane 1

La diffusione del cristianesimo pagano-cristiano fondato da Paolo fu rapida e capillare in tutte le contrade dell'impero romano a causa di molteplici circostanze favorevoli. Anzitutto, l’unità politica della monarchia universale di Roma che ovunque offriva pace, sicurezza e garanzia della legge. Poi, un ottimo sistema di comunicazioni, con strade eccellenti dall’Eufrate alla Britannia e buoni collegamenti marittimi. Infine, una serie di altri importanti fattori: la diffusione del greco, divenuto lingua internazionale, la tolleranza religiosa accettata universalmente e la multirazzialità che favoriva i miscugli etnici.
Determinante fu anche il sincretismo religioso che fondeva armoniosamente i differenti culti orientali verso una superiore divinità universale. Così l'egiziano Serapide si fuse con Zeus, Helios, Asclepio e altri dèi; la dea Iside con Demetra, Artemide, Athena, e Afrodite.
Infine, a favorire il cristianesimo, fu la sua forte impronta sociale in quanto si rivolgeva alle classi più derelitte, ai ceti più bassi, soprattutto a schiavi e liberti, proclamando tutti gli uomini fratelli e predicava un ethos imperniato sull'amore per il prossimo.
Le prime comunità cristiano-ellenistiche che si svilupparono dapprima in Oriente (Siria e Turchia attuali) e poi nel restante impero romano, erano libere, autonome e indipendenti l'una dall'altra. Giudicando la fine del mondo ormai prossima vivevano appartate dalla società, applicando un rigoroso comunismo, basato sulla proprietà comune dei mezzi di produzione e di consumo. Tertulliano nel suo Apologo, raccontando la vita dei cristiani del suo tempo, osserva: "ogni cosa è in comune tra noi, tranne le donne; perché la comunanza da noi si ferma dove inizia presso gli altri.”
Chi guidava le prime comunità cristiane non veniva imposto dall'alto o eletto dai fedeli ma derivava la sua autorità per il carisma spirituale che sapeva emanare. Era chiamato Profeta ed era considerato in grado di avere visioni e di comunicarle alla comunità. Paolo era uno di questi e tutti i suoi seguaci credevano ciecamente ai suoi rapimenti.
Il cristianesimo più antico fu dunque carismatico e profetico. Assieme al Profeta c'era anche un altro personaggio importante nella comunità, chiamato Maestro, il cui compito consisteva nell'istruire i fedeli su Dio.
Accanto a queste due guide spirituali c'erano altre persone, incaricate di funzioni prevalentemente economico-amministrative e sociali: raccolta delle offerte, assistenza dei bisognosi, allora molto numerosi, servizio alle mense e così via. Godevano di un prestigio notevolmente inferiore rispetto ai Profeti e ai Maestri ma erano indispensabili. Ricorrendo alla terminologia pagana, erano chiamati diaconi (gli inservienti più comuni), presbiteri (quelli di rango più importante) e vescovi (i controllori).
A mano a mano che l'influenza degli spirituali (Profeti e Maestri), andò scemando in seguito al procrastinarsi della parusia, crebbe per contro, nel II secolo, l'influenza dei vescovi e dei presbiteri, i quali, essendo i dispensatori di denaro e di altri beni, acquisirono sempre più importanza e prestigio. In un tempo relativamente breve, i vescovi subordinarono i presbiteri e poterono disporre, ad libitum, di tutte le entrate e le donazioni della comunità, senza dover render conto a nessuno del loro operato, se non al buon Dio. Il Sinodo di Antiochia (nel 341), tentò, inutilmente, di mettere sotto controllo il comportamento amministrativo dei vescovi. Essi continuarono a servirsi dei capitali ecclesiastici autonomamente, soprattutto per consolidare la loro posizione personale. Per accrescere le loro entrate si dedicarono in particolar modo alla conversione dei ricchi, con la conseguente rivalutazione della ricchezza e dei ceti superiori. L'affluire di sempre maggiori ricchezze nelle mani dei vescovi determinò, come ci fa sapere Origene, gravi fenomeni di decadenza morale e religiosa.
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giovedì 21 maggio 2015

Le religioni misteriche ispiratrici del cristianesimo. 213

Le religioni misteriche, già operanti molti secoli prima del cristianesimo, erano culti di divinità straniere provenienti dalla Tracia, dall’Asia Minore, dalla Siria, dall’Egitto, che furono in un primo momento rimaneggiati, interiorizzati e moralizzati dai greci, e infine introdotti nell’Impero Romano tramite gli schiavi, i soldati e i funzionari statali. Al tempo di Paolo godevano di grandissima popolarità in ogni regione sottoposta a Roma, tanto che tutta la classe dirigente, compresi gli imperatori, vi erano iniziati; erano divenuti, insomma, forme di religiosità universale.

Queste religioni, dette anche i Misteri, presentavano tratti fondamentali comuni: garantivano il loro beneficio senza riguardo all’appartenenza sociale o nazionale, senza fare differenza tra liberi e schiavi, tra potenti e gente comune, tra ricchi ed emarginati, come avverrà poi col primo cristianesimo. Al fondamento della fede misterica si trovava la liberazione dai vincoli del male e la speranza in un destino migliore nell’Aldilà: si promette una nuova vita, la partecipazione al banchetto dei beati, la gioia dei Campi Elisi (una specie di paradiso), l’acqua viva.

L'ottenimento di tali beatitudini celesti avveniva attraverso diversi processi di divinizzazione che comprendevano la purificazione e la rinascita, la filiazione divina e l’immortalità. Strumenti indispensabili per il raggiungimento di questo scopo erano due sacramenti: il battesimo e l'eucarestia, intesa quest'ultima come agape sacra, nella quale si credeva di mangiare e di bere il Dio, e si esperimentava con una Unio Mystica, con un dolore sconvolgente e una gioia esaltante, il destino della propria morte e resurrezione. Questa prassi tendeva naturalmente a una concezione religiosa monoteistica.

Ovviamente, in contrapposizione alla speranza della beatitudine per gli eletti, i Misteri annunciavano il terrore della punizione ultraterrena per i non eletti, cioè per tutti coloro che non si purificavano delle loro colpe. Già nel V secolo a.C. Platone aveva fatta propria la dottrina dell’espiazione delle colpe nella vita ultraterrena, elaborata dall’Orfismo o dal Pitagorismo, con una prima rappresentazione dell’Inferno e degli sgherri affocati di Satana. In questo periodo erano ormai diffuse anche rappresentazioni pittoriche dei tormenti post mortem inflitti ai peccatori.

Nei Misteri svolgevano un ruolo essenziale gli effetti emozionali scatenati dai riti ai quali i Misti (così venivano chiamati i fedeli delle religioni misteriche) partecipavano mediante solenni processioni, accompagnate da musica e da giochi luminosi; tutti mezzi esteriori, dunque, tesi da un lato a soddisfare nelle masse il piacere dello spettacolo, ma anche, dall’altro, a costringere al raccoglimento interiore e ad avvincere profondamente gli animi. Una fascinazione psicologica ben calcolata, del tutto analoga a quella presente ancor oggi nelle forme del culto cattolico. A proposito dei riti che si svolgevano ad Eleusi: l’antica sacralità del luogo, l’antico rituale, la misteriosa oscurità, la luminosità improvvisa, esercitavano un’impressione simile a quella di una solenne cerimonia in S. Pietro in Vaticano al giorno d'oggi. .

Nelle confraternite misteriche non erano rari esercizi ascetici, ad esempio il digiuno, tesi al raggiungimento di una condizione visionaria o estatica. Per il raggiungimento della futura vita celeste e dell'immortalità, infatti, non era solo necessario ottenere la purificazione, la rinascita e la filiazione divina, ma si doveva, soprattutto, attuare l'ascesi tramite il dominio degli istinti e delle passioni.


Platone


martedì 19 maggio 2015

53 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte terza. Fine dei cristiano-giudei.

La Chiesa di Gerusalemme, dopo un lungo periodo di tranquillità, durante la quale aveva goduto dell'appoggio di molti farisei e soprattutto del popolo che la stimava per la sua alta pietà e per il suo continuo prodigarsi a favore dei poveri, ricevette nel 63 un durissimo colpo con la lapidazione di Giacomo, fratello del Signore, suo capo incontrastato fin dalla morte di Gesù, nonché nemico implacabile di Paolo. La sua morte sembrò a tutti un autentico omicidio su commissione.
Mentre, come faceva più volte al giorno, si recava al Tempio per pregare, Giacomo fu aggredito per la via, gettato dalle mura e lapidato. Il sommo sacerdote Anania ne aveva ordinato l'uccisione, tra l'indignazione popolare, poiché Giacomo aveva pubblicamente osannato al fratello crocifisso come al figlio di David. Quindi la sua fine fu ignominiosa e crudele come quella del congiunto. S. Brandon, analizzando le cause che determinarono la lapidazione di Giacomo fratello di Gesù, giunge alla conclusione che queste andavano ricercate nell'affiliazione del basso clero coi cristiano-giudei, e quindi col contagio da esso subito dallo zelotismo che alimentava le attese messianiche riguardo a Gesù (la parusia). Difatti fu proprio il basso clero a far scoppiare nel 66 d.C. la ribellione contro Roma, rifiutando di offrire nel Tempio sacrifici all'Imperatore. La lapidazione di Giacomo fu quindi voluta dall'aristocrazia sacerdotale per mantenere lo status quo, minacciato dai cristiano-giudei.
Secondo Giuseppe Flavio in quel periodo la situazione degli ebrei della Palestina peggiorava di giorno in giorno. Il paese era pieno di bande di zeloti, di ribelli e di sicari che creavano subbugli e infiammavano le moltitudini alla rivolta. Re Agrippa II e i romani non riuscivano più a controllare la situazione e c'era nell'aria sentore di catastrofe. Nel 66, infatti, in seguito ad un'ennesima ribellione e al massacro della guarnigione romana, scoppiò la Guerra Giudaica, che si concluse nel 70 con la distruzione di Gerusalemme e lo sterminio di gran parte del popolo ebraico.
Dopo l'assassinio di Giacomo a capo della Chiesa di Gerusalemme fu eletto un cugino di Gesù, Simone figlio di Cleofa. Secondo Eusebio di Cesarea questo Simone, per intervento divino, nel 70 riuscì ad abbandonare Gerusalemme poco prima della caduta della città, e a rifugiarsi a Pella in Perea. In seguito, rientrò coi pochi cristiano-giudei superstiti. Si riformò una piccola comunità cristiana che sopravvisse, in mezzo a infiniti stenti, fino al 135, quando, nella seconda e definitiva distruzione di Gerusalemme da parte dell'imperatore Adriano, anch’essa dovette fuggire dalla città.
Sotto il nome di nazirei e di ebioniti, i pochi cristiano-giudei salvatisi con la fuga continuarono a sopravvivere in piccoli gruppi sparsi in Palestina, Siria e Asia, considerati eretici dalla chiesa trionfante di Paolo, come ci attestano i Padri della Chiesa. Essi continuarono ad usare solo il Vangelo originale degli Ebrei, in lingua ebraica, e rimasero osservanti scrupolosi della Legge, rifiutando tutte le invenzioni teologiche di Paolo. Tra di loro c'erano i discendenti di Gesù. Credevano ancora che Gesù sarebbe ritornato come Messia e Re per instaurare sulla Terra un regno millenario di pace, giustizia e prosperità. L'ultima importante incarnazione del Messia nazionale d'Israele fu quella di Bar Kochba che nel 135 d.C. determinò, con la sua insurrezione, la seconda e definitiva distruzione di Gerusalemme e della Palestina. L'imperatore Adriano, di fronte a quell'ennesima rivolta, pensò bene di risolvere il problema alla radice. Ordinò di cancellare a Gerusalemme e nella Palestina ogni traccia che si riferisse all'ebraismo e al cristianesimo. Quindi fece spianare il Golgota, sconvolse radicalmente ogni aspetto della vecchia città santa e sulle rovine del Tempio fece erigere, come suprema profanazione, un tempio pagano con le statue di Giove Capitolino e di altre divinità.
Ciò determinò la cancellazione di tutti i monumenti religiosi ebraici e cristiani rimasti dopo la guerra del 70.
Quindi tutti i riferimenti attuali ai luoghi santi (ad esempio il santo sepolcro individuato da Elena, madre di Costantino, nel IV secolo) sono inattendibili sotto ogni punto di vista (alla luce anche delle successive stratificazioni apportate dai musulmani nel lungo periodo della loro dominazione). Furono i pellegrini e i crociati a inventarli nel Medioevo, assieme all'ubicazione della città di Nazareth.
Non pago degli stravolgimenti radicali operati a Gerusalemme e in Palestina, Adriano proibì agli ebrei, che si erano salvati nella fuga, di rientrare, pena la morte, nei loro territori e nella nuova Gerusalemme, ribattezzata Aelia Capitolina, e da allora iniziò la vera diaspora ebraica che durò fino alla nascita dello Stato d'Israele nel 1948.
I resti della nazione ebraica, scampati alla strage, furono costretti, di fronte ad un avvenimento così catastrofico, a riesaminare la loro storia. Allora divenne a tutti chiaro che il messianismo era stato una stolta, assurda e delirante chimera, dalla quale bisognava subito e definitivamente prendere le distanze, perché la sconfitta suonava come un giudizio inappellabile di Dio.
Le Apocalissi passarono subito di moda e Roma cessò di essere la grande Meretrice, la grande Babilonia assetata del sangue dei martiri e l'Impero non fu più considerato il regno del maligno e delle potenze sataniche ma l'espressione della volontà divina, cui tutti, anche i cristiani, dovevano sottostare.
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venerdì 15 maggio 2015

52 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte terza. Pietro e Paolo.

Né gli evangelisti, né Paolo, né tanto meno gli apocrifi, parlano favorevolmente di Pietro. Nella prima parte degli Atti si tratta diffusamente di lui, ma in modo leggendario per cui la sua persona storica ci risulta completamente sconosciuta, come del resto anche quella di molti altri apostoli.
Forse Pietro guidò inizialmente la nuova setta della Via (1 Cor. 15,7; Atti, 1,14)), ma quando Giacomo, fratello di Gesù, giunse dalla Galilea per unirsi agli altri apostoli che attendevano il ritorno del Risorto, costui ne divenne il capo incontrastato e Pietro passò in secondo piano. Infatti di Pietro non si accenna più negli Atti a partire dalla metà del libro, mentre si continua a parlare di Giacomo che fino al 63 fu il capo incontrastato della Chiesa di Gerusalemme.
La tradizione cattolica, che poggia le sue basi soprattutto sulla Patristica, ci ha fatto credere che tra Pietro e Paolo ci siano stati sempre dei i rapporti assidui e di stretta collaborazione.
Ma leggendo le Lettere e gli Atti, gli unici documenti che possono testimoniare la verità, ciò non risulta affatto. Gli incontri (o meglio gli scontri) tra Paolo e gli apostoli a Gerusalemme sono stati rarissimi, non più di quattro, come abbiamo narrato in precedenza, e sempre caratterizzati da ambiguità e da diffidenze reciproche.
Con Pietro, comunque, c'era stato un altro incontro ad Antiochia. Ma quello di Antiochia fu un vero e proprio scontro durante il quale Paolo accusò Pietro e Barnaba di ipocrisia e segnò l'inizio di un contrasto che si rivelò subito duro e insanabile e che fece perdere a Pietro la faccia in quanto fu costretto a sottostare alle disposizioni impartite da Giacomo (il vero primo degli apostoli).
Come si vede, incontri brevissimi, quasi sempre burrascosi per non dire drammatici. Nell'ultimo incontro, durante il quale Paolo rischiò il linciaggio, Pietro non viene mai nominato, forse perché già morto. Gli Atti tentano di occultare questo enorme e inconciliabile conflitto tra i due apostoli e la Patristica poi li ha falsamente accomunati nel martirio a Roma sotto Nerone.
La Chiesa, infine, li ha santificati nello stesso giorno, avvallando la tesi che i due hanno sempre agito in perfetta armonia. Coloro che sostengono che tra i due apostoli c'era un accordo amorevole potrebbero invocare, a loro sostegno, la Seconda Lettera di Pietro nelle quale l'apostolo nomina Paolo come un carissimo fratello (2 Pietro 3,15-16).
Ebbene, questa lettera è universalmente ritenuta un falso, e la stessa CEI, nella versione della Bibbia del 1989, la riconosce come tale, definendola un artificio letterario. Il suo autore l'avrebbe composta un secolo dopo la morte dell’apostolo e avrebbe preso in prestito il nome di Pietro per conferire allo scritto una più elevata dignità. Concludendo: non troviamo un documento, databile al primo secolo, che attesti il legame tra i due apostoli; solo la tradizione inattendibile, perché inventata, come tante altre, dai Padri della Chiesa, lo ha sostenuto con ostinazione.
Altra cosa incredibile: né Paolo, che scrisse da Roma le sue ultime lettere citando i nomi di molti dei suoi collaboratori, né gli Atti degli Apostoli, che arrivano fini al 62, accennano mai alla presenza a Roma di Pietro. Anche gli scritti cristiani fino alla metà del II secolo ignorano la questione. Infatti, il viaggio di san Pietro a Roma e la sua disputa con Simon Mago, la sua crocifissione ed altri episodi a lui riferiti, sono narrati esclusivamente in libri dichiarati apocrifi dalla Chiesa stessa, come gli Acta Petri.
Un gran numero di storici e di teologi ha negato, quindi, tout court, la presenza di Pietro a Roma.
Uno di essi, il teologo K. Heussi, già nel 1936, dopo accurate analisi dei testi antichi, l'aveva esclusa categoricamente. (K.Heussi, Die roimische Petrustradition. in Theol. Literaturzeitung, 1959, nr. 5, 359 sgg.).
Più recentemente lo storico Michael Grant (Saint Peter, Penguin Books, London, 1994) ha messo in evidenza che ci sono otto incontrovertibili motivi che negano sia la presenza romana di Pietro, sia il suo presunto status di vescovo della città. Uno di questi è che se Pietro si fosse trovato a Roma all'arrivo di Paolo (o che fosse ancora vivo il ricordo di una sua precedente venuta), Luca ne avrebbe sicuramente data menzione nell'ultimo capitolo degli Atti, come aveva menzionato gli altri incontri tra i due a Gerusalemme e ad Antiochia.
Anche il presunto ritrovamento del sepolcro di San Pietro, inteso come prova archeologica della sua sepoltura, è stato più volte annunciato e altrettante volte smentito, perché di esso non è stata trovata una traccia sicura. Quindi, la presenza a Roma e la cattedra pontificia di Pietro costituiscono uno dei falsi più vistosi della Chiesa, finalizzato a suffragare il dogma dell’episcopato universale del vescovo di Roma. Pietro quindi non fu né il primo vescovo di una presunta successione apostolica né, tanto meno, il primo papa.
La Chiesa adduce a prova del martirio di Pietro e Paolo la persecuzione subita dai cristiani nell'anno 64 da parte di Nerone in seguito all'incendio di Roma. Ma di questo martirio non c'è traccia in nessun documento storico e nemmeno ecclesiastico del primo secolo.
Secondo l'abate cattolico francese Louis Duchesne, autore di una monumentale e rigorosa storia della Chiesa (L.Duchesne, Histoire ancienne de l'Eglise, Paris, Fontemoing, 1911) e di un Liber Pontificalis (L.Duchesne, Liber Pontificalis, t. I-Il, Parigi 1886-1892. Riedizione con un terzo tomo di C. Vogel, Parigi 1955-1957), ricavati dagli archivi del Vaticano, che ricostruiscono con grande rigore storico la genealogia dei pontefici, i primi nove vescovi di Roma, compreso lo stesso Pietro, erano da togliere perché mai esistiti.
Infatti, la carica episcopale monarchica si impose a Roma soltanto nel IV secolo e per molto tempo tutti i vescovi furono considerati alla pari e nessuno di loro godette di uno stato privilegiato rispetto agli altri. Per Cipriano, Padre della Chiesa, non esisteva un vescovo dei vescovi, poiché nessuno poteva costringere all’obbedienza con autorità tirannica i propri confratelli. Solo nel IV secolo, ad imitazione dell’amministrazione imperiale romana, i vescovi dei capoluoghi delle province acquisirono il controllo dell'intera loro regione e furono chiamati metropoliti.
I metropoliti erano quattro: quello di Alessandria che controllava l'Egitto, quello di Antiochia che guidava l'episcopato siriaco, quello di Cartagine che sovrintendeva all'episcopato dell'Africa del nord, e, infine, quello romano che vigilava sulla Chiesa italiana ma non sul resto dell’Occidente.
I vescovi di Roma nei primi secoli non si interessarono mai della presunta introduzione del Primato di Pietro. Solo nel V secolo un decreto di Papa Gelasio I, inteso a stabilire l'autenticità dei 27 testi del Nuovo Testamento, decretò anche l'istituzione del primato papale su tutti i vescovi della cristianità, basandosi sul passo di Matteo: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa.... Io ti darò le chiavi del regno dei cieli; tutto ciò che legherai in terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai in terra sarà sciolto nei cieli" (Matteo 16,18-19).
Ma questo è un altro clamoroso falso, come tanti altri passi, aggiunto al Vangelo di Matteo dopo il IV secolo, quando si consolidò il concetto di Chiesa, travasando in essa l’intero edificio giuridico romano. Al tempo di Matteo, ovviamente, nessuno era a conoscenza di questa istituzione non ancora inventata. Quindi il papato non deriva da questo passo del Vangelo di Matteo, unico dei Sinottici a riportarlo, quantunque anche Marco e Luca narrino la medesima scena (Marco 8:27-30 e Luca 9:18) .
Se fosse vero che Gesù intendeva fare di Pietro "il primo papa", ci sarebbe almeno qualche allusione negli Atti degli Apostoli, nelle Lettere di Paolo, o nel resto del Nuovo Testamento. Invece in questi testi non risulta nemmeno una sola volta  che Pietro abbia esercitato nella Chiesa primitiva una funzione di comando. Anzi, quando si riunisce il primo Concilio a Gerusalemme, questo viene presieduto da Giacomo, uno dei fratelli di Gesù, e non da Pietro, che pure era presente. Solo con Gelasio I si può, quindi, ipotizzare l'istituzione del papato. Il termine papa (padre), inizialmente titolo onorifico di tutti i vescovi per parecchi secoli, solo con l’inizio del secondo millennio diventò prerogativa esclusiva del vescovo di Roma.
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giovedì 14 maggio 2015

Il disprezzo gesuano di qualsiasi cultualismo esclude categoricamente che Gesù sia stato il creatore della Chiesa. 212

Gesù infrange tutti i formalismi e le minuzie della Legge, non osserva il sabato, si preoccupa poco del digiuno (Mt. 9, 14; Mc. 7, 7), disprezza i vacui esercizi dei bigotti (Mt. 15, 9; Mc. 7, 7), anteponendo l’amore del prossimo e la riconciliazione col nemico all’atto sacrificale. Sdegnato, schernisce coloro che abbandonano a se stessi i propri genitori, ma recano preziosi doni al Tempio; coloro che recitano interminabili preghiere e poi divorano i patrimoni delle vedove (Mc. 7, 9 sgg.; Mt. 23, 14). Respinge le formule confessionali (Lc. 6, 46; Mt. 7, 21), nega l’utilità delle prescrizioni purificatrici (Mc. 7, 15; Mt. 15, 11), si contrappone all’autorità delle Scritture (Mt. 5, 21; 27; 31;38; 43), raccomanda la preghiera lontana dalla pubblicità e condanna il cicaleccio e le belle parole: «Quando pregate, non dovrete fare le tiritere dei pagani, che credono di venire ascoltati a furia di parole» (Lc. 5,34; Mc. 2, 19; Le. 11, 37 sgg.).

Effettivamente i romani usavano l’espressione deos fatigare, cioè «fiaccare gli dei mediante le parole». Gesti rifiutava, inoltre, una quantità enorme di altre usanze cultuali (Lc. 5, 34; Mc. 2, 19; Lc. 11, 37 sgg.) Ogni imposizione rituale e cultuale venne da lui trascurata e venne da lui dichiarato veramente degno e gradito alla divinità solo il fattivo amore del prossimo.

Come accettare dunque che Gesù, cui stava a cuore solo «l’essenziale», abbia voluto creare un'istituzione così complessa come la Chiesa Cattolica, dotata di un pomposo e mastodontico apparato ecclesiastico, di una gerarchia piena di etichette, cariche, titoli, udienze, baciamani e prosternazioni, liturgie, sacramenti, festività e prescrizioni di ogni genere, nonché innumerevoli templi sfarzosi? Come ritenere che da lui origini la teologia morale cattolica, che spacca il capello in due, né più né meno della morale farisaico-rabbinica del suo tempo e che tenta di imporre coercitivamente a tutti, anche ai non credenti sempre più numerosi, i suoi valori barattandoli per non negoziabili, ma in realtà oppressivi di ogni libertà e negatori di ogni diritto umano e civile?

Il disprezzo gesuano di qualsiasi cultualismo, di qualsiasi moralismo ipocrita e oppressivo, porta ad escludere categoricamente ch’egli sia stato il fondatore di una simile istituzione religiosa e dei suoi complessi apparati dogmatici e sacramentali, perché tale esteriorizzazione dell’eticità gli era del tutto estranea e perchè la sua fede apocalittica, incentrata sull'imminente nella fine del mondo, lo escludeva totalmente.


Basilica di S.Pietro- Roma


martedì 12 maggio 2015

51 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte terza. Paolo a Roma.

Durante il suo soggiorno nella capitale dell'Impero per essere processato da Nerone, egli divenne perfettamente consapevole di aver giocato la carta vincente. Infatti, a Gerusalemme la situazione stava rapidamente precipitando.
Giacomo, fratello del Signore, il suo nemico più accanito, veniva nel frattempo vilmente lapidato per ordine del sommo sacerdote Anania, nonostante godesse della stima dei farisei. Continui focolai di rivolta scoppiavano dovunque e l'intera Palestina, in preda ad un messianismo frenetico e delirante, veniva travolta dalla guerra giudaica che si sarebbe conclusa con la fine di Israele e la distruzione di Gerusalemme.
Non sappiamo se Paolo ebbe modo di conoscere, in tutto o in parte, questi avvenimenti, che senz'altro aveva previsti, perché dopo due anni di permanenza a Roma, in attesa del processo, di lui si perse ogni traccia. La tradizione vuole che durante la presunta persecuzione di Nerone del 64 sia stato martirizzato. Ma è l'ipotesi meno attendibile. Il "Frammento Muratoriano", conservato nella Biblioteca Ambrosiana, si dice che Paolo, prosciolto dalle accuse, se ne andò in Spagna come aveva preventivato di fare nella Lettera ai Romani (Romani 15,24).
Questa tesi fu condivisa da Clemente Romano che nel 96, data molto vicina ai fatti, affermò che l'apostolo giunse all'estremo limite dell'Occidente, allora ritenuto la Spagna. Conferme di questo viaggio si troverebbero anche in Acta Petri e Acta Pauli e, più tardi, in Atanasio, Giovanni Crisostomo e Girolamo.
Il martirio a Roma, per decapitazione, fu menzionato nel 200 da Tertulliano, senza una documentazione adeguata. Eusebio di Cesarea, Padre della Chiesa e contemporaneo di Costantino, nel suo Chronacon lo fa morire nel 67, poco prima dell'uccisione di Nerone.
Alcuni studiosi ipotizzano, invece, che sia vissuto più a lungo e che dopo aver visitato la Spagna, Creta e la Macedonia sia morto di vecchiaia a Nicopoli in Epiro, dove aveva preventivato di ritirarsi fin da quando era a Roma, ed abbia avuto modo di organizzare la Chiesa da lui fondata dotandola di una solida gerarchia.
La cosa più stupefacente è che gli Atti, che sembrano stati scritti in funzione di Paolo, s'interrompano bruscamente nel 62, quasi a significare che tra Paolo e il suo biografo ci sia stata una rottura brusca e irreparabile.
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venerdì 8 maggio 2015

50 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte terza. Paolo di Tarso. Quarta ed ultima visita a Gerusalemme 2

Appena Paolo cominciò a parlare, la folla tumultuante si zittì e lo ascoltò in silenzio. Gli Atti vogliono farci credere che quelli che lo avevano aggredito fossero ebrei non cristiani. Ma ciò è falso perché i cristiano-giudei costituivano una setta abbastanza numerosa a Gerusalemme ed erano sempre presenti in gran numero nel Tempio e rispettati. Un'ulteriore prova del fatto che l'uditorio di Paolo era costituito in gran parte da giudeo-cristiani la deduciamo dal comportamento da essi tenuto durante il suo discorso. Infatti, Paolo iniziò la sua difesa parlando della nuova dottrina della parusia e raccontando che lui, in un primo tempo, l'aveva perseguitata duramente per poi, dopo la rivelazione divina della messianicità di Gesù, abbracciarla e divulgarla. Ma non diede nessuna spiegazione di questa nuova dottrina perché era ben conosciuta da tutti i presenti, i quali si guardarono bene dal contestarla. Il tumulto riesplose violento non appena Paolo affermò che il Signore lo aveva inviato a divulgare la parusia ai pagani.
Era questo un argomento tabù per tutti gli ebrei, cristiani e non, ma nel caso di Paolo la protesta si riferiva soprattutto al suo rifiuto della circoncisione e dell'obbligatorietà della Legge per i pagani convertiti e al fatto che si faceva accompagnare per le vie della città e fino alle porte del Tempio da compagni incirconcisi. "Allora [Dio] mi disse: "Va', perché ti manderò lontano, tra i pagani" Fino a queste parole erano stati ad ascoltarlo, ma allora alzarono la voce gridando: “Toglilo di mezzo; non deve più vivere!” E poiché continuavano a urlare, a gettar via i mantelli e a lanciar polvere in aria, il tribuno ordinò di portarlo nella fortezza" (Atti 22,21-23).
A questo punto, a sceneggiata conclusa, Paolo rivelò al centurione che lo tratteneva d'essere cittadino romano e di godere dei privilegi che solo una piccola minoranza degli abitanti dell'Impero poteva vantare. "Ma quando l'ebbero legato con le cinghie, Paolo disse al centurione che gli stava accanto: «Potete voi flagellare un cittadino romano, non ancora giudicato?"(Atti 22,25).
Per l'autore degli Atti e per i suoi confratelli presenti alla scena (Luca, Timòteo e Tròfimo), lo scontro tra Paolo e gli ebrei, anche cristiani, sanciva il rigetto dei pagani da parte dei cristiano-giudei e quindi giustificava lo scisma che Paolo stava attuando con l'ebraismo.
Per Paolo tutti i ponti erano definitivamente tagliati ora tra il suo cristianesimo universalistico e salvifico, e quello di Gerusalemme, rimasto ancora legato al messianismo jahvista e ad una concezione etnica e religiosa di stampo tribale. Rinchiuso nella Torre Antonia, fu avvisato da un nipote (figlio della sorella) che quaranta giudei avevano giurato di ucciderlo. Il tribuno, preoccupato perché Paolo era cittadino romano, decise di trasferirlo a Cesarea, sotto una scorta di centinaia di soldati. A Cesarea, Paolo rimase due anni, in una specie di blanda prigionia, sotto i procuratori Felice e Festo. Il processo fu celebrato poco dopo l'arrivo di quest'ultimo e alla presenza del re Agrippa II e della sorella Berenice. L'avvocato Tertullo, che patrocinava il sommo sacerdote contro Paolo, accusò l'apostolo di essere il capo di un gruppo di agitatori. "Abbiamo scoperto che quest'uomo è una peste, fomenta continue rivolte tra tutti i giudei che sono nel mondo" (Atti 24,5).
La fama di Paolo, fomentatore di disordini, era quindi conosciuta da tutti. Comunque Paolo si difese con maestria ma si guardò bene dal riferire che aveva gettato la Legge alle ortiche per i cristiani gentili e perfino per gli ebrei che si convertivano alla nuova dottrina.
Festo, non ravvisando colpe a suo carico, gli propose la scarcerazione e il trasferimento a Gerusalemme. Ma Paolo, ben sapendo che in quella città lo avrebbero immediatamente ucciso, in qualità di cittadino romano si appellò a Cesare, cioè all’imperatore, da Paolo definito "autorità istituita da Dio, cui tutti dovevano obbedienza” (Romani 13,1-2). E così ebbe salva la vita e fu trasferito a Roma, come desiderava.
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giovedì 7 maggio 2015

Il Gesù dei Vangeli era al suo tempo un anticlericale che combatteva la falsa religiosità. 211

Leggendo attentamente i Vangeli sinottici scopriamo che il Gesù da loro descritto è, inequivocabilmente, antilegalistico, anticultuale, anticlericale, e interpreta senza rispetto l’etica veterotestamentaria della Legge, contrapponendo al «Voi avete sentito», il proprio «Ma in verità io vi dico». La sua battaglia va contro qualsiasi Chiesa organizzata, diretta da una gerarchia strutturata, guidata da un sommo sacerdote e dai suoi accoliti e fossilizzata da teologi e da riti vacui, privi di autentica spiritualità.

Egli si scontrava sempre con la prassi farisaica che portava all'estremo questo tipo di falsa religiosità, rinnegata prima di lui anche dagli esseni, seguaci del «Maestro di Giustizia», ai quali Gesù si ispirava. D'altra parte per i farisei Gesù era considerato un innovatore rivoluzionario, un servitore del diavolo, un sovversivo e seduttore di Israele.

Perché tale ostilità verso un setta della quale Gesù condivideva molti aspetti? I farisei sostenevano opinioni meditate, pregevoli e addirittura idee che lo stesso Gesù andava predicando. Ma la gran parte di loro, specialmente i «separati» , (così soprannominati per la consuetudine di evitare tutti coloro che non rispettavano la pulizia imposta dal rito, le norme alimentari e purificatrici, e quindi erano considerati impuri per il culto) esigevano la correttezza formale ai dettami della Legge fino ai limiti dell’assurdo, nel modo più capzioso, riducendo la religiosità a formalità puramente esteriori e tiranniche che nulla avevano a che fare con l’etica e la religione e soprattutto con lo spirito di carità, con l'autentico amore del prossimo. La loro religiosità era soltanto esteriore, improntata all'ipocrisia e all'ostentazione.

Il Gesù sinottico era tutto l'opposto di tali comportamenti; non deviava dalle esigenze etiche fondamentali mediante sofismi dialettici, proprio perché respingeva l’insignificante e il superfluo, spesso argomento principale dei farisei. Lo irritava il pedante e vuoto formalismo, rigettava i rituali, le vacue usanze codificate, le consacrazioni, le abluzioni, i digiuni, le «pedanterie», per altro chiaramente ricollegandosi in tal modo alle tendenze già proprie degli antichi profeti. Egli scindeva nettamente l’etica dall’implicazione inutile e dannosa col culto.

Richiamandosi agli antichi profeti polemizzava aspramente contro la mera abitudinarietà rituale del clero: «Voi pulite la parte esterna, i calici e le ciotole, ma dentro siete pieni di rapina e di cupidigia!»; oppure: «Questo popolo mi onora con le labbra, ma il suo cuore è lungi da me. E’ vano il culto che mi rendono con le loro dottrine, che sono precetti di uomini». E infine: «Io voglio misericordia, non sacrifici» (Mc. 7,6 sg.; Mt. 9, 13). Non si tratta di concetti nuovi, giacché erano già in Buddha e in Zarathustra, il quale condannava radicalmente i sacrifici di sangue, e si ritrovano addirittura in un antichi testi sacri egizi.


Zarathustra


martedì 5 maggio 2015

49 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte terza. Paolo di Tarso. Quarta ed ultima visita a Gerusalemme 1

Accompagnato da Luca, il presunto autore degli Atti e del Vangelo omonimo, da Timoteo, da Tròfimo di Efeso e da alcuni discepoli di Cesarea, Paolo giunse a Gerusalemme nel periodo della Pentecoste. Perché tanti testimoni, per di più di origine pagana, per un rito di espiazione che avrebbe dovuto essere riservato ai soli ebrei? Forse perché Paolo voleva che i suoi compagni si rendessero conto che lui era una vittima e toccassero con mano la perfidia dei giudei. Ma anche perché voleva, di proposito, provocare i suoi accusatori.
La narrazione in Atti dell'incontro di Paolo con Giacomo e gli anziani (di Pietro non si fa cenno, sicuramente deceduto nel frattempo), è gravida di tensione e di sospetto. Essa riporta le gravi accuse rivolte a Paolo durante i suoi viaggi missionari riguardo il superamento della Legge e l'abolizione della circoncisione da parte dei cristiani ellenisti e perfino degli stessi giudei convertiti. Giacomo, infatti, così lo apostrofa: ".....hanno sentito dire di te che vai insegnando a tutti i Giudei sparsi tra i pagani che abbandonino Mosè, dicendo di non circoncidere più i loro figli e di non seguire più le nostre consuetudini", e conclude accusandolo di predicare “contro la legge e contro questo luogo (il Tempio)” (Atti 21,21).
Accuse gravissime per un ebreo che richiedevano una severa cerimonia di espiazione, da attuarsi secondo una rigida procedura: la rasatura e la lavatura del capo, il divieto per sette giorni di incontrare persone e cose che potessero contaminare in qualche modo il penitente (ad esempio, persone incirconcise), il versamento di una cospicua somma di denaro al Tempio per il sacrificio richiesto e un formale atto di sottomissione che testimoniasse pubblicamente la sua piena adesione all'ebraismo. Paolo, da dotto fariseo, la conosceva perfettamente, ma di proposito e in piena consapevolezza, decise di violarla per sancire definitivamente la sua rottura con la Chiesa di Gerusalemme.
Ecco perché gli servivano i compagni che si era portato dietro.
Infatti, il giorno della purificazione si fece ostentatamente vedere nelle vicinanze del Tempio insieme a Tròfimo, un noncirconciso, scatenando il furore degli ebrei cristiani e non, in quanto con quel compagno al fianco, ritenuto dagli israeliti un pagano, contaminava se stesso, la sua offerta e il Tempio. La testimonianza di Luca, autore degli Atti, gli era indispensabile perché la sceneggiata fosse tramandata in tutta la sua drammaticità e il suo martirio sancito dalla storia.
La reazione dei presenti fu violentissima, come Paolo s'aspettava.
"Allora tutta la città fu in subbuglio e il popolo accorse da ogni parte. Impadronitisi di Paolo, lo trascinarono fuori del Tempio e subito furono chiuse le porte. Stavano già cercando di ucciderlo, quando fu riferito al tribuno della coorte che tutta Gerusalemme era in rivolta. Immediatamente egli prese con sé dei soldati e dei centurioni e si precipitò verso i rivoltosi. Alla vista del tribuno e dei soldati, cessarono di percuotere Paolo. Allora il tribuno si avvicinò, lo arrestò e ordinò che fosse legato con due catene" (Atti 21,30-33).
Paolo sapeva di rischiare grosso, ma la presenza capillare dei romani e la loro rapidità d'azione (la Torre Antonia, sede della guarnigione romana, era poco lontana dal Tempio) lo rassicuravano. Probabilmente, aveva calcolato tutto a puntino. Infatti al tribuno non rivelò subito di essere cittadino romano, aspettò prima di aver da lui il permesso di rivolgersi alla folla con la scusa di calmarla, in realtà per provocarla ulteriormente.

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venerdì 1 maggio 2015

48 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte terza. Paolo di Tarso. Terza visita a Gerusalemme e terzo viaggio missionario.

Allora gli apostoli e l'assemblea degli anziani di Gerusalemme, sempre più allarmati dal comportamento scismatico di Paolo, decisero di riconvocarlo per una spiegazione. Egli accettò l'invito. Di questo suo terzo viaggio a Gerusalemme c'è appena una traccia negli Atti. "Giunto a Cesarea, (Paolo) si recò a salutare la Chiesa di Gerusalemme e poi scese ad Antiochia" (Atti 18, 22).
Nelle Lettere non vi è alcun accenno ad esso. Vi si recò da solo, senza testimoni che avrebbero potuto risultare imbarazzanti in un incontro duro e umiliante per lui. Naturalmente fu Giacomo, fratello del Signore e capo carismatico dei cristiano-giudei, a giudicare l'operato di Paolo.
A Gerusalemme erano arrivati parecchi rapporti contro di lui perché le contestazioni che gli erano state mosse da parte dei giudei, in quasi tutte le città dell'Asia e della Grecia, erano state frequenti ed aspre e avevano suscitato scandalo e indignazione.
Perciò gli fu comminata una pena piuttosto gravosa: avrebbe dovuto sottoporsi ad un rito di purificazione, facendo una pubblica dichiarazione di colpevolezza da effettuarsi il giorno della Pentecoste, accompagnata da un cospicuo sacrificio in denaro da versare al Tempio. Non si fosse sottoposto a questa procedura, avrebbe ricevuto la scomunica. Non conosciamo le reazioni di Paolo perché lui non dice niente a proposito di quest'episodio nelle sue Lettere e nemmeno gli Atti ne parlano.
Sappiamo, però, che poco dopo il suo rientro ad Antiochia, egli ripartì per un ulteriore viaggio in Asia e in Grecia e, secondo quanto aveva fatto in precedenza visitando le comunità cristiane da lui fondate per rinfrancarle nelle fede, si diede a raccogliere anche una colletta per i poveri della Chiesa di Gerusalemme.
Ma la colletta gli sarebbe servita a pagare il prezzo del sacrificio, piuttosto cospicuo, della sua purificazione nel Tempio.
Scrive nella Lettera ai Romani: "Per il momento vado a Gerusalemme, a rendere un servizio a quella comunità; la Macedonia e l'Acaia infatti hanno voluto fare una colletta a favore dei poveri che sono nella comunità di Gerusalemme" (Romani 15,25). Come si vede, egli si guarda bene dal dire la verità sul suo viaggio a Gerusalemme ma non riesce a nascondere una certo preoccupazione sul suo esito: "Vi esorto perciò, fratelli, per il Signor nostro Gesù Cristo e l'amore dello Spirito, a lottare con me nelle preghiere che rivolgete per me a Dio, perché io sia liberato dagli infedele della Giudea e il mio servizio a Gerusalemme torni gradito a quella comunità, sicché io possa venire da voi nella gioia, se così vuole Dio, e riposarmi in mezzo a voi" (Romani 15,31-32). Le sue preoccupazioni per i rischi di quel viaggio le troviamo chiaramente espresse negli Atti. "Ed ecco ora, avvinto dallo Spirito, io vado a Gerusalemme, senza sapere cosa mi accadrà" (Atti 20,22).
Ma non sono soltanto i rischi del viaggio a turbarlo, c'è anche il timore che durante la sua assenza i suoi nemici, cioè gli emissari dei cristiano-giudei, attacchino la sua teologia e sconfessino il suo Vangelo come avevano fatto durante i suoi precedenti viaggi. "Io so che dopo la mia partenza entreranno fra voi lupi rapaci, che non risparmieranno il gregge; perfino di mezzo a voi sorgeranno alcuni a insegnare dottrine perverse per attirare discepoli dietro di sé. Per questo vigilate" (Atti 20,29-31).
I discepoli, intuendo l'angoscia di Paolo, cercano di convincerlo a rinunciare alla partenza. "Avendo ritrovati i discepoli, rimanemmo colà una settimana, ed essi, mossi dallo Spirito, dicevano a Paolo di non andare a Gerusalemme" (Atti 21,4).
Ma Paolo rispose: «Perché fate così, continuando a piangere e a spezzarmi il cuore? Io sono pronto non soltanto a esser legato, ma a morire a Gerusalemme per il nome del Signore Gesù» (Atti 21,13). Paolo, quindi, era ben deciso ad andarci perché aveva in mente un piano ben articolato, ma lo mascherava recitando il ruolo del martirio.
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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)