Visualizzazioni totali

venerdì 26 febbraio 2016

16– Il falso Jahvè. Mosè l'egiziano 4

Neppure la storia dell'adozione regge. Nell'antico Egitto, specie ai tempi di Mosè, i faraoni erano considerati esseri divini e le loro figlie potevano generare figli solo congiungendosi a consanguinei stretti, scelti dallo stesso faraone. Il matrimonio ideale era quello tra fratello e sorella, che avevano pari sangue divino. Date queste circostanze nessuna principessa sarebbe stata autorizzata dal faraone ad adottare un figlio che non fosse, almeno parzialmente, di origine regale. Figurarsi il figlio di schiavi semiti, discendenti dagli hyksos, i nemici più detestati dagli egiziani!
Ma c'è un'ulteriore prova, ricavata direttamente dalla Bibbia, che ci attesta che Mosè era egiziano: il suo notevole impaccio a parlare col popolo di origine semita che aveva adottato in quanto, non conoscendone la lingua, faticava ad esprimersi e doveva ricorrere, come interprete, al suo presunto fratello Aronne. La "lingua tarda" di Mosè, di cui parla la Bibbia (Esodo 4,10) sarebbe altrimenti inconcepibile nella bocca di un principe e condottiero, che "fu istruito in tutta la sapienza degli egizi ed era potente in parole ed opere" (Atti 7, 22).
Una volta messo in chiaro che Mosè era un egiziano di altissimo rango "potente in parole e opere", prima di spiegare come divenne il fondatore del monoteismo e il condottiero del gruppo eterogeneo di semiti che successivamente darà origine al popolo d'Israele, cerchiamo di capire che cosa significa "che fu fatto istruire in tutta la sapienza degli egizi".

giovedì 25 febbraio 2016

L’influenza della filosofia greca su Paolo. 249

A Tarso, dove Paolo nacque e visse la prima parte della sua vita, il sincretismo filosofico-religioso si respirava nell’aria e l’Apostolo non poté evitare di assimilarlo, sia pure inconsciamente. Secondo Strabone (Geographia, 14, 9 sgg.) in quella metropoli ellenistica gli abitanti superavano in zelo filosofico persino gli Ateniesi e gli Alessandrini.

Paolo, ebbe come lingua madre il greco, che parlava e scriveva di sicuro correntemente; compì la sua missione per decenni in ambiente greco o grecizzato e nelle sue Epistole denota una fortissima influenza dell’ellenismo, del platonismo. Egli poté così assimilare gli insegnamenti degli stoici e dei cinici, allora assai diffusi e letti, sia perché nella sua città insegnava lo stoico Atenodoro, precettore di Augusto, sia perché, come ci raccontano gli Atti (Atti,17, 18), Paolo sostenne, in più occasioni, delle discussione coi filosofi stoici ed epicurei.

Ma nella sua città natale era molto diffuso anche il culto degli dei soterici fra i quali primeggiava quello del dio Mitra. Una delle cerimonie più fastose e solenni di Tarso, infatti, celebrava ogni anno la resurrezione del dio Sandan. Dunque, Paolo aveva dimestichezza con le filosofie dell’ellenismo pagano e coi Misteri che caratterizzavano il clima intellettuale e spirituale del sua città d'origine. Il suo cristianesimo, quindi, venne fortemente impregnato di motivi ellenistici e misterici e le sue comunità subirono continuamente i loro influssi.

I contatti col giudaismo non avvennero per Paolo direttamente e nelle sue forme autentiche, cioè gerosolimitane, ma attraverso le sinagoghe della diaspora ellenistica, influenzata perciò dalle concezioni della filosofia greca, specialmente della stoa. Delle quattro fonti, dalle quali si nutrì Paolo per creare il suo cristianesimo personale e tutto quanto ne conseguì: ellenismo, religione misterica, giudaismo e tradizione gesuana di Gerusalemme, quest’ultima fu in ogni caso la meno significativa.



Tarso: rovine


martedì 23 febbraio 2016

15 – Il falso Jahvè. Mosè l'egiziano. 3

 Grazie ad una campagna travolgente Mosè ricacciò gli invasori e successivamente sposò una principessa etiope per suggellare la pace (Giuseppe Flavio, Antiquitates Judaicae II, 238-257). Il matrimonio di Mosè con una principessa etiope è confermato anche dalla Bibbia: in Numeri 12,1 si narra come Mosè avesse sposato una donna cushita; per tradizione, la Terra di Cush è proprio il paese di cui parla Giuseppe Flavio, vale a dire l'Etiopia.
Se Mosè era un principe della corte del faraone, governatore, gran sacerdote e condottiero. doveva essere anche d'origine egiziana e non semita.
Altro elemento fondamentale che ci aiuta a determinare l'origine egizia di Mosè è il suo mitico salvataggio dal Nilo, che non regge all'esame storico e sa tutto di leggenda. Otto Rank (Il mito della nascita dell'eroe), equiparando la nascita di Mosè a quella d'altri grandi personaggi mitici dell'antichità, quali Sargon, Ciro, Paride, Edipo, Romolo, Giasone e così via, aveva scoperto che le nascite di questi eroi seguivano un comune schema narrativo precostituito, che includeva: il concepimento da parte di una vergine o di una donna d'altissimo lignaggio, la nascita segreta, l'esposizione del neonato alle fiere o in un canestro sulle acque di un fiume, il salvataggio fortunoso, l'adozione di una famiglia umile o di alta nobiltà, il superamento di molte vicissitudini, la trasformazione del bambino in eroe o sapiente e, infine, il ritorno per riottenere i suoi diritti e vendicare gli oltraggi subiti. Nel caso di Mosè la nascita da umili ebrei era indispensabile, altrimenti i nazionalisti israeliti mai avrebbero accettato come loro gran legislatore e liberatore uno straniero.

venerdì 19 febbraio 2016

14 – Il falso Jahvè. Mosè l'egiziano 2

 Già nel 1906 Eduard Meyer, storico tedesco, si era convinto che il racconto del salvataggio di Mosè fosse stato aggiunto a posteriori, allo scopo di attribuire un'origine ebraica a un personaggio che era palesemente un egiziano (E. Meyer, Die Israeliten und ihre Nachbarstamme, pagg. 46-47). Per sconfessare lo scriba compilatore dell'Esodo possiamo fare questa considerazione: come avrebbe potuto la figlia del faraone dare un nome ebraico al bambino trovato nel canestro, dal momento che il faraone suo padre, stando alla Bibbia, aveva dato l'ordine categorico di uccidere tutti i neonati ebrei?
In secondo luogo, a dimostrazione dell'origine egizia di Mosè, abbiamo le testimonianze storiche extrabibliche di Strabone, Celso e Giuseppe Flavio. Strabone afferma che Mosè era un gran sacerdote egizio il quale, entrato in conflitto con la società del suo tempo per motivi religiosi, finì per adottare un popolo diverso dal suo al quale divulgò il culto dell'Ente Divino (Strabone, Geographica, XVI 2,35-36, e 2,39). Celso sostiene più o meno le stesse cose, come ci racconta Origene (Contra Celsum III, 5-8). Infine, Giuseppe Flavio, il massimo storico antico del popolo ebraico, quasi contemporaneo di Cristo, attribuiva al sacerdote egizio Manetone, che sotto i Tolomei poté accedere ai più antichi papiri, l'affermazione che "il sacerdote (Mosè) che formò la costituzione e le leggi degli ebrei fosse originario di Eliopoli" (Giuseppe Flavio, Contra Apionem I, 250, 265 e 286). Eliopoli era una città santa, tutta templi e obelischi, capitale del XIII nomo del Basso Egitto.
Su Mosè principe della casa reale abbiamo due ulteriori testimonianze di Strabone e Giuseppe Flavio le quali aggiungono nuovi particolari. Scrive infatti Strabone che Mosè era stato sacerdote ma anche "signore di una parte del Basso Egitto" (Strabone, Geographic, XVI 2,35), cioè governatore, probabilmente, della provincia di Gosen dov’era concentrata la maggior parte dei semiti ridotti in schiavitù. E Giuseppe Flavio c'informa che quando le truppe etiopi invasero il sud dell'Egitto, il faraone Tut-ankh-Amon affidò a Mosè l'incarico di respingere l'aggressione.


giovedì 18 febbraio 2016

Quali lingue conosceva Gesù? 248

Al tempo di Gesù il plurilinguismo non pare fosse il segno di una formazione culturale elevata, ma piuttosto il frutto di bisogni concreti, soprattutto legati al commercio. Comunque in Palestina il plurilinguismo era piuttosto diffuso ai tempi di Gesù.

Accanto alla sua lingua madre, l’aramaico, Gesù probabilmente conobbe anche anche il greco, lingua ufficiale dell’amministrazione romana e dell'esercito e molto diffusa anche in Palestina soprattutto nella Decapoli. Inoltre, avendo sicuramente frequentato gli esseni di Qumran, Gesù doveva avere una certa domestichezza con l'ebraico, da almeno due secoli non più lingua popolare ma linguaggio specialistico proprio del culto e dei dotti, usato soprattutto dall'aristocrazia templare. Gli esseni, profondi studiosi della Bibbia scritta in ebraico antico, dovevano conoscerlo perfettamente e Gesù, che senz'altro ebbe un lungo sodalizio con loro prima della sua attività pubblica, potè apprenderlo a Qumran.

Tuttavia, sembra che il greco, molto diffuso in Palestina perché lingua usata da moltissimi ebrei della diaspora che si erano sparsi in tutte le contrade dell'impero romano e da essi diffusa in Palestina quando, di tanto in tanto, rientravano a Gerusalemme per le feste di culto, sia stata la lingua che Gesù ebbe modo di conoscere meglio, sebbene i Vangeli non lo rivelino.

Teniamo presente che l'impero romano, che per mezzo millennio costituì un’unica patria per le diversae gentes comprese tra l’Atlantico e la Mesopotamia e la Britannia e la Libia, non parlava un’unica lingua. Il latino, la sua lingua ufficiale, era poco conosciuto nel mondo orientale in cui prevaleva la lingua greca, espressione e veicolo di una cultura che godeva, negli ambienti della stessa élite romana, di un prestigio superiore. Quello romano fu dunque in sostanza un impero bilingue: il latino e il greco, in quanto lingue della politica, della legge e dell’esercito, oltre che delle lettere, della filosofia e delle religioni, svolgevano una funzione sovranazionale.

È sintomatico il fatto che i primi cristiano-giudei, formatisi a Gerusalemme subito dopo la crocifissione di Gesù, comprendessero due schieramenti: i nazirei giudei (di lingua aramaica) e quelli ellenisti (di lingua greca). Il primo gruppo era costituito da ebrei nati e residenti in Palestina, guidati da Giacomo, fratello di Gesù; il secondo dagli ebrei della diaspora, fortemente ellenizzati, guidato da Stefano, il protomartire cristiano, rientrati a Gerusalemme.

Vale la pena di ricordare anche, per sottolineare l'importanza del greco in quel periodo storico, che Paolo, dato per scontato che conosceva l'aramaico, era però di lingua madre greca, e scrisse tutte le sue Lettere in quest idioma. Infine, che tutto il Nuovo Testamento è scritto in questa lingua e annovera tra i suoi documenti anche Lettere degli apostoli e di Giacomo, fratello di Gesù, scritte in greco.


Giacomo il Giusto


martedì 16 febbraio 2016

13 – Il falso Jahvè. Mosè l'egiziano 1

Abbiamo detto in precedenza che gli scribi che redassero la Bibbia nel VI secolo a.C., con grande abilità elessero Abramo a depositario di tutte le aspettative d'Israele, allo scopo di creare l’idea di un'unica progenitura e di uno svolgimento unitario e ideale della storia del loro popolo, ma, invece, dimostreremo che fu Mosè, principe e gran sacerdote egiziano, a determinare gli elementi fondanti dell'ebraismo.
Incontriamo nella Bibbia due versetti che pur nella loro brevità si rivelano della massima importanza per la conoscenza di Mosè. Il primo afferma che "L'uomo Mosè era in gran considerazione nel paese d'Egitto" (Esodo 11,3), e l'altro che "Mosè fu fatto istruire in tutta la sapienza degli egizi e divenne potente in parole e opere" (Atti 7, 22).
La prima considerazione che possiamo trarre da questi due versetti è che Mosè era un uomo di potere, e al suo tempo essere uomo di potere in Egitto significava avere sangue reale e appartenere alla corte del faraone. L'altra considerazione che possiamo trarre è che Mosè, essendo stato istruito in tutta la sapienza degli egizi, era uno dei grandi sacerdoti in quanto solo costoro potevano accedere alla teologia più alta, quella dei grandi misteri.
Mosè, dunque, non era di origine semitica, come ce lo rappresenta la leggenda biblica, bensì un principe e un gran sacerdote di origine egiziana (Max Weber, Il giudaismo antico, vol. II, pagg. 489 e 564-565). Le prove sono molte e incontrovertibili. Anzitutto il suo nome, molto frequente in Egitto anche tra i faraoni. Lo si trova scolpito in molti cartigli dei bassorilievi dei templi e degli obelischi: Thut-Mose, Ah-Mose, Ra-Mose, Ptahy-Mose, Amun-Mose e così via. Era la forma devozionale abbreviata di un nome teoforo (contenente cioè il nome di un Dio) e significava "bambino di, figlio di". Quindi Ra-Mose voleva dire: bambino del Dio Ra o figlio del Dio Ra (Ahmed Osman, Moses, Pharaoh of Egypt, pagg. 66-67).
In Esodo 2,10 troviamo che la figlia del faraone aveva chiamato il bambino che aveva tratto dal Nilo col nome di Mosè perché, diceva, "l'ho salvato dalle acque". Questo accostamento linguistico deriva dal fatto che lo scriba autore dell'Esodo, ricavava il nome Mosè dal termine ebraico "masa" che significa "trarre". È una forzatura poco convincente, considerata l'origine egiziana del nome, nonché l'ammissione, quasi unanime degli studiosi, che Mosè non fu affatto salvato dalle acque.



venerdì 12 febbraio 2016

12 – Il falso Jahvè. Gli hapiru 4

Ci dice la Genesi che la nazione d'Israele ebbe origine con Giacobbe e i suoi dodici figli, i quali si stabilirono in Egitto nella regione di Gosen, nei dintorni della città di Avari, a nordest del delta del Nilo. Siccome possiamo arguire che vi si trasferirono 470 anni prima della conquista di Gerico, avvenuta intorno al 1320 a.C., possiamo datare l'arrivo degli israeliti in Egitto intorno al 1790 a.C.
Questo periodo corrisponde storicamente alla XIV dinastia, che regnò dal 1800 al 1700 a.C. circa. Sembra molto improbabile, per non dire impossibile, che le centinaia di migliaia di schiavi ebrei, di cui parla la Bibbia al tempo dell'Esodo, discendessero tutti da un solo capostipite, Abramo, vissuto appena quattro secoli prima. Probabilmente ci troviamo di fronte ad un racconto semplificato che elenca soltanto una piccola componente della cospicua massa del popolo semitico immigrata in Egitto durante il XVIII secolo a.C. Nel 1500 a.C. Tuthmosis III, in una seconda campagna, sconfisse definitivamente gli hyksos nella battaglia di Meggiddo e li ridusse in catene (P.Clayton, op. cit., pagg. 109-111). Questo potrebbe essere il periodo cui si riferisce Esodo raccontando come gli israeliti vennero fatti schiavi: "Allora gli egiziani imposero agli israeliti alcuni capi perché li opprimessero con i lavori forzati." (Esodo 1.1).
La conferma possiamo trarla dalle pitture tombali della XVIII dinastia, che rappresentano scene in cui si vedono schiavi hyksos che fabbricano mattoni mentre vengono sorvegliati da capisquadra armati di verghe. È proprio quello che secondo l'Esodo toccò agli israeliti.

giovedì 11 febbraio 2016

Sinagoga


Il Gesù dei Sinottici fu anche sfiorato da concetti filosofici greci. 247

Gesù, stando ai Sinottici, era figlio di un artigiano di paese e quindi poteva acquisire le sue conoscenze per le strade, i mercati e attraverso la lettura del Vecchio Testamento, ma soprattutto frequentando assiduamente le sinagoghe. Tutti gli ebrei, infatti, imparavano a conoscere nelle sinagoghe i testi sacri, ma solo i pochi che frequentavano scuole di tipo teologico diventavano dottori o scribi. Costoro erano tenuti in gran considerazione dalla gente comune.

Gesù non fu mai un dottore nel vero senso della parola e gli scribi e i farisei, che lo sapevano, lo consideravano un rabbi (maestro) sprovvisto di titoli e quindo lo trattavano con supponenza, nonostante si mostrasse sempre istruito in maniera compiuta quando parlava, e possedesse una conoscenza completa della Legge, sì da poterla discutere apertamente nel Tempio, alla pari con scribi e farisei.

Come spiegare il fatto che Gesù ci appare così preparato nella cultura religiosa del suo tempo? Una possibile risposta a questa domanda possiamo darla ammettendo che egli abbia trascorso un periodo, più o meno lungo, presso gli esseni di Qumran che si dedicavano soprattutto allo studio e all'esegesi della Bibbia e che la sua attività pubblica abbia avuto inizio dopo l'incontro col Battista, che era sicuramente un esseno.

Ma forse alla formazione di Gesù contribuirono anche alcuni insegnamenti filosofici, allora patrimonio comune di molti filosofi pagani, soprattutto degli Stoici e dei Cinici. Infatti a Gadara, dove predicò più volte Gesù, esisteva una scuola filosofica cinica fin dal III secolo a.C. Questa scuola, che certamente Gesù ebbe modo di conoscere, predicava il monoteismo (cioè la condanna del culto degli dèi), il disprezzo per gli onori, il lusso e la ricchezza; l'amore per i deboli, gli umili e gli oppressi. I suoi predicatori vaganti, percorrevano le contrade e i villaggi, rivolgendosi preferibilmente ai poveri, agli schiavi, agli emarginati anche di pessimi costumi. Insomma, come Gesù, che accettava tra i suoi seguaci pubblicani e prostitute.

Se possiamo ammettere che il Gesù dei Sinottici fu sfiorato da concetti filosofici greci, dobbiamo riconoscere che non si diede affatto pena di sistematizzarli in forma di dottrina coerente. Anche perché i suoi seguaci, e perfino i suoi stretti discepoli, erano per usare le parole del Nuovo Testamento «gente ignorante e indotta» (Atti, 4, 13).


martedì 9 febbraio 2016

11 – Il falso Jahvè. Gli hapiru 3

Durante il periodo della dominazione degli hyksos, gli israeliti potrebbero benissimo avere raggiunto nella società egizia l'elevata posizione che la Bibbia attribuisce loro. Infatti, alcuni studiosi affermano che gli hyksos avrebbero riservato una buona accoglienza ai nuovi semiti arrivati, quali Giacobbe e i suoi figli, affidando loro posti di rilievo. Quando però il libro dell’Esodo afferma che sorse un re “che non conosceva Giuseppe” si riferirebbe ai faraoni di Tebe, Kamose e Ahmos, che intorno al 1550 a.C. riuscirono a ricacciare gli hyksos a Canaan e a riunificare l'Egitto, riducendo in schiavitù una parte dei vinti.
Va anche però precisato che nomadi d'origine asiatica arrivarono in Egitto per motivi commerciali, oppure come immigrati, per tutto il II millennio a.C. Specialmente nell'Egitto degli ultimi faraoni della XVIII dinastia e dei primi della XIX, accadde quello che era avvenuto nel paese dei sumeri alcuni secoli prima: gruppi di rozzi nomadi semiti, etnicamente eterogenei, socialmente poco evoluti ed economicamente poveri, entravano alla spicciolata in Egitto in cerca di fortuna, attratti dallo straordinario sviluppo tecnologico delle sue città e dalla loro organizzazione urbanistica e sociale. E naturalmente queste città erano piuttosto turbate dal continuo giungere di stranieri, rozzi e ignoranti, che venivano chiamati "i figli della sabbia". La loro presenza era mal tollerata, anche se alla fin fine sopportata, in quanto offrivano forza lavoro a basso costo (bastava un po' d'aglio, di pan secco e un tugurio per abitazione) e poteva svolgere innumerevoli compiti nella costruzione delle nuove città. Queste popolazioni semitiche erano diverse per etnia, lingua e costumi.
Non è quindi assolutamente pensabile che i semiti, stanziatisi in Egitto in quel tempo, fossero un popolo omogeneo per lingua e cultura, in grado di riconoscersi nella denominazione di ebrei e nella discendenza da Abramo, come invece vorrebbe farci credere la Bibbia. Non erano affatto un popolo che aveva già maturato una sua identità nazionale, anche se avevano un retroterra comune. Ed è per questo che il racconto biblico ci testimonia le grandi difficoltà incontrate da Mosè nel tenere unito questo miscuglio eterogeneo di genti e nell’amalgamarlo in una specie di popolo.
Ovviamente non tutti i nomadi semiti che si trovavano nella terra di Canaan immigrarono in Egitto. Alcuni tentarono di insediarsi stabilmente nella zona. Infatti, nelle tradizioni di alcune tribù israelite non esistono tracce di un soggiorno in Egitto e di un esodo.

venerdì 5 febbraio 2016

10 – Il falso Jahvè. Gli hapiru 2

Nella Bibbia ebraica originale la parola ebrei è resa col termine "habiru", che significa “popolo di là dal fiume”. Secondo l'archeologo e storico Mordechai Snyder "habiru o hapiru" era il nome con cui erano conosciuti gli israeliti agli inizi della loro storia (M. Snyder, Ancient Israel, pagg. 36-51). Nel 1978 Snyder esaminò una tavoletta d'argilla incisa, risalente 1820 a.C., trovata a Mari e conservata al Louvre, nella quale il re di Mari, Zimri-Lim, riferisce di un popolo chiamato «habiru», residente nel suo regno. (Vedi anche M. Magnusson, op. cit., pag. 37).
Anche Giuseppe Flavio, che si occupò di storia ebraica e che nel suo libello "Contra Apionem" raccolse le testimonianze di scrittori pagani sugli ebrei, parla degli hyksos. Egli ci presenta due lunghi estratti ricavati da Manetone, il sacerdote egizio che compilò la storia dell'Egitto sotto i Tolomei, la cui opera, purtroppo, è andata perduta. Nel primo estratto (Contra Apionem I, 73-105) per dimostrare l'antichità del popolo ebraico Giuseppe Flavio si occupa degli hyksos, dei quali dice che avrebbero sopraffatto l'Egitto del delta senza colpo ferire e che avrebbero trattato la popolazione locale con estrema crudeltà.
Gli hyksos avrebbero dominato l'Egitto del nord per oltre un secolo e mezzo, fino a quando i re di Tebe si sarebbero ribellati contro di loro e li avrebbero assediati nella loro capitale Avari. Gli hyksos sarebbero allora emigrati in Siria, si sarebbero stabiliti nella terra poi chiamata Giudea e avrebbero fondato la città di Gerusalemme. Quindi, per Giuseppe Flavio, sarebbero gli antenati degli ebrei.
Il più antico riferimento agli hapiru riscontrabile in Egitto risale al 1500 circa a.C. e si trova in una scena della tomba del grande araldo di Tuthmosis III, Antef, che li elenca tra i prigionieri di guerra catturati durante le campagne del faraone. Altre testimonianze importanti le troviamo nel 1475 a.C. circa, in una scena nella tomba del nobile “Puyemre” a Tebe, risalente al regno di Tuthmosis III: mostra quattro uomini che lavorano su una pressa da vino definiti dai geroglifici: “hapiru che spremono l'uva nel vigneto di Wad-Hor”. Si tratta della terra di Gosen, dove la Bibbia dice che gli israeliti erano tenuti in schiavitù.
Altre testimonianze provengono da una pietra del 1430 a.C. circa, scoperta a Menfi, e dal Papiro di Leyda del 1270 a.C. In questi documenti si spiega che gli hapiru venivano impiegati nella ricostruzione di templi e nella fabbricazione di mattoni. Grazie agli studi testuali dello storico Maurice Bucaille dell'Università di Parigi (Moses and Pharaoh: The Hebrews in Egypt, pagg. 55-56), che negli anni Ottanta del secolo scorso esaminò ulteriori riferimenti sugli hapiru, oggi molti biblisti e antropologi accettano l'ipotesi che gli hapiru fossero gli ebrei che si trovavano in Egitto nei due secoli che precedettero la conquista israelita di Canaan.

giovedì 4 febbraio 2016

Il cristianesimo primitivo fu indifferente alla cultura, all’arte e alla scienza. 246

La Chiesa, fin dalla fine del Medioevo, ha marcato il legame fra servizio divino e arte, fra teologia e scienza, e ha riconosciuto la sua piena disponibilità verso alcune forme di cultura, anche profane. Ma è stata costretta ad ammettere il totale disinteresse del protocristianesimo verso ogni forma d'arte e di cultura.
In effetti, i cristiani dei primordi attendevano parossisticamente l'mmediato avvento della fine del mondo e non si preoccupavano affatto né dell’istruzione, né della cultura, e tanto meno dell'arte. Non si preoccupavano nemmeno di tralasciare ai posteri quanto potesse attestare la loro storia. Solo quando cessò la fede cieca nella parusia e la fine del mondo fu procrastinata a tempio indefiniti, che a poco a poco, lungo un lasso di tempo piuttosto ampio, la cristianità passò dal disprezzo escatologico del mondo a un atteggiamento positivo sempre più deciso verso i valori mondani e la cultura. In origine, quindi, il cristianesimo primitivo era privo di ogni forma di intellettualismo, di un canone di valori e di una teologia morale.

Esso non conteneva neppure in nuce qualcosa che presupponesse il sistema della scolastica o anche soltanto la teologia dei «Padri della Chiesa». Neppure Paolo, d’altra parte, conosceva una speculazione filosofica intorno a Dio: Cristo lo aveva inviato - com’egli ammette - a predicare la buona novella «e non con alta eloquenza, affinché la croce di Cristo non venga impoverita» (1 Cor. 1, 17).

E’ significativo che i primi scrittori cristiani di professione che si avvicinano alla cultura, Giustino e Melitone di Sardi, iniziano a scrivere intorno alla seconda metà del Il secolo, e che al principio del III secolo per Tertulliano l'arte non è altro che figlia del demonio.

D'altra parte il Gesù evangelico, è assolutamente privo di qualsiasi sensibilità verso la vita culturale, la scienza e l’arte, come fu osservato da molti studiosi. Quando alcuni discepoli esaltarono il tempio di Gerusalemme splendido di alabastri, ori e marmi, costruito da Erode il Grande, Gesù, per nulla esaltato dalla munificenza dell'edificio, si limitò a rispondere: non rimarrà pietra su pietra (Lc. 21, 5; Mc. 13, 1 sg.; Mt. 24, 1 sg.). Una vera e propria bestemmia, raccontata da tutti i Sinottici, giacché il Tempio era pur sempre considerato la dimora di Dio, come oggi le chiese cattoliche.

Ma il«Regno di Dio» per Gesù avrebbe avuto inizio proprio con una catastrofe cosmica che avrebbe annientato anche i templi divini. Infatti il Nuovo Testamento insegna che «L’altissimo non abita in una costruzione opera delle mani dell’uomo» (Atti, 7, 48), Ecco perché per lungo tempo la comunità cristiana si raccolse dentro case private e la più antica chiesa cristiana è attestata in Edessa alla fine del l secolo.






Melitone di Sardi


martedì 2 febbraio 2016

9 – Il falso Jahvè. Gli hapiru 1

Le poche notizie storiche che ci sono giunte sulla situazione socio-culturale dei popoli semiti presenti in Palestina tra il 2000 e il 1400 a.C. le traiamo dai testi egiziani di proscrizione (XX-XVIII sec. a.C.), dal racconto di Sinuhe l'egiziano, che visse in Palestina tra i seminomadi (XX sec a.C.), dai testi mesopotamici di Mari e da documenti trovati nell'archivio di Stato dei faraoni Amenofi III e Amenofi IV (Akhenaton) (XVI sec. a.C.).
Grazie a questi documenti sappiamo con certezza che il regno di Mari, che si estendeva lungo l'Eufrate, fu invaso dai babilonesi intorno al 1800 a.C. e la capitale e il palazzo reale (di oltre trecento stanze) distrutti (Magnus Magnusson, BC, pagg. 36-38). I mari, di origine semitica, emigrarono prima in Canaan e poi, in successive pacifiche ondate, in qualità di alleati del nord contro il sud dell'Egitto, penetrarono nella zona del delta, con il nome di hyksos. Una volta divenuti così numerosi da poter sopraffare gli abitanti del luogo, conquistarono il potere.
Così, dal 1700 al 1550 a.C. circa, i semiti controllarono il nord dell'Egitto e in questo territorio per un secolo e mezzo si imposero come faraoni, adottandone lo sfarzo. Elessero a capitale Avari (C.Aldred, Akhenaten, Pharaoh of Egypt,). A conferma di questo ci sono i recenti scavi dell'archeologo austriaco Manfred Bietak (Tell-el-Daba, vol.II).
L'invasione degli hyksos è un avvenimento ricordato dagli storici egiziani con gran sofferenza, quasi come un incubo. Le liste dei loro re, le iscrizioni e più tardi le cronache concordano tutte sul fatto che gli hyksos provenivano da est e che almeno alcuni dei loro re avevano nomi semiti. Uno dei faraoni hyksos, infatti, si chiamava proprio Yakob, Giacomo in ebraico (Peter Clayton, Chronicle of the Pharaohs, pag. 45). Pare fossero una mescolanza di cananei, amorrei, arabi settentrionali, hurrei e hapiru, e che tra essi vi fossero numerosi nomadi.


Benvenuti nel mio blog

Questo blog non è una testata giornalistica, per cui lo aggiorno quando mi è possibile. I testi sono in regime di COPYLEFT e la loro pubblicazioni e riproduzioni è libera purché mantengano lo stesso titolo e venga citando il nome dell'autore.

I commenti possono essere critici, ma mai offensivi o denigratori verso terzi, altrimenti li cancello. Le immagini le pesco da internet. Qualche volta possono essere mie manipolazioni.

Se volete in qualche modo parlare con me, lasciate la richiesta nei commenti, vi contatterò per e-mail. Dato che il blog mi occupa parecchio tempo, sarò laconico nelle risposte.

Se gli argomenti trattati sono di vostro interesse, passate parola; e, se site studenti, proponeteli al vostro insegnante di religione. In tal caso fatemi sapere le risposte che avete ottenuto. Grazie.

Lettori fissi

Archivio blog

Informazioni personali

Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)