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giovedì 31 marzo 2016

Il cristianesimo, fin dal II secolo, fu sempre più influenzato dalla filosofia ellenistica e, in particolar modo, dal platonismo. 254

Per guadagnarsi l’intellettualità che consentisse al mondo culturale più influente di trovare nel cristianesimo quel soddisfacimento offerto dall’elevatezza di pensiero dei Misteri pagani, dalla Gnosi e dell'alta speculazione filosofica greca, nel Il e nel III secolo gli Apologeti della giovane religione cristiana si appropriarono di tutto quello che il mondo pagano aveva da offrire sotto Il profilo intellettuale e religioso.

Scopiazzarono a piene mani: i Misteri, la Stoa, il Cinismo, Pitagora, Platone e Aristotele, persino anche il vituperato Epicuro, la storia della religione di Varrone, Cicerone, Omero (citato da quasi tutti i padri greci della Chiesa), Sofocle, Esiodo, Euripide e, infine, Virgilio, il quale nell’occidente latino assunse la stessa posizione di Omero in quello greco-orientale e ad opera del cristianesimo divenne addirittura, per mezzo della sua Quarta Ecloga, un «Profeta di Cristo».

Bisognava dimostrare che il cristianesimo non era affatto poi tanto diverso dalla cultura dell'epoca, ma, al contrario, ad essa straordinariamente affine e adeguata al suo livello. I pagani illuminati vi avrebbero riconosciuto che la dottrina di Gesù era addirittura un completamento della cultura e della religione antiche. Tutto venne fogocitato con spontaneo, quasi inconsapevole zelo, in un lungo arco di tempo.

Ma fu il Platonismo ad essere recepito in misura maggiore per cui la moderna ricerca teologica vede nella storia spirituale del cristianesimo antico in gran parte nient’altro che la storia del platonismo. I Padri della Chiesa più eminenti, che conoscevano Platone meglio della Bibbia e degli scritti del Nuovo Testamento, collocarono il filosofo greco addirittura accanto a Gesù.

Platone determinò sempre di più la cosmologia cristiana, la dottrina divina, l’etica e la liturgia, e lo stesso Agostino fu pesantemente influenzato dal Neoplatonismo che sostanzialmente non si distingueva granché dal Cristianesimo. Un allievo della filosofessa pagana Hypatia, il Vescovo Sinesio di Cirene, nei suoi scritti contrastò pesantemente le concezioni protocristiane, per lui funeste, al punto di respingere tutti i dogmi che non coincidevano col Neoplatonismo.



Nel VI secolo alcuni autori ecclesiastici si potevano permettere di pubblicare testi stoici come se fossero semplicemente cristiani, limitandosi a sostituire il nome di Socrate o di Platone con quello di Cristo. Nel secolo XV il filosofo fiorentino Marsilio Ficino pretendeva addirittura che nelle chiese si predicasse Platone insieme ai Vangeli.

Platone


martedì 29 marzo 2016

25– Il falso Jahvè. La controreligione del faraone Akhenaton. 3

Anche la tradizionale credenza nell'aldilà subì una radicale trasformazione nella controreligione di Akhenaton. Non più l'idea di una vita dopo la morte in cui l'uomo sarebbe entrato dopo essersi discolpato davanti al tribunale dei morti, conservando quindi la sua individualità, ma la continuazione ad esistere dopo la morte come "Ba", cioè come anima impersonale in perenne contemplazione del nuovo Dio, ad Amarna, la nuova capitale considerata una specie di paradiso terrestre.
Nella popolazione traumatizzata e disorientata iniziò a diffondersi la consapevolezza di una colpa tremenda e irreparabile, e con essa il timore di imminenti sciagure. Ad accrescere queste fosche aspettative si diffusero in tutto il Medio Oriente, proprio alla fine del periodo di Amarna, terribili pestilenze che infuriarono per vent'anni lasciando tracce indelebili nella memoria del popolo.
Per meglio cogliere l'atmosfera d'angoscia di questo periodo persecutorio è utile considerare un graffito redatto di nascosto dallo scriba Pawah nella tomba tebana di Pairi (n. 139). E' una lamentazione disperata rivolta al Dio assente, nella quale è chiamata “oscurità” l'assenza o il ritrarsi del Dio.
"Il mio cuore aspira ardentemente di vederti,
Volgiti nuovamente a noi, o Signore dell'eternità'
Tu eri qui quando ancora niente si era formato
e sarai qui quando essi saranno finiti.
Risplendi di luce, affinché ti veda!"
Nella “stele della restaurazione” di Tut-ankh-amon troviamo altre allusioni a questo terribile periodo di sbandamento religioso determinato dalla teoclastia, dalla distruzione degli dèi, dalla proibizione dei loro culti e dalla trasformazione in tabù dei loro nomi e delle loro immagini:
"Abbandonati erano i templi degli dèi
da Elefantina fino alle paludi del Delta
erano tramutati in cumuli di macerie
ricoperti di cardi.
Le loro cappelle erano come se non fossero mai esistite,
i loro templi erano ridotti a un sentiero.
Il paese era colpito dalla pestilenza
gli dèi avevano voltato le spalle a questa Terra."

Parole che non lasciano dubbi sullo sgomento generale provocato dalla tabuizzazione delle divinità.

venerdì 25 marzo 2016

24– Il falso Jahvè. La controreligione del faraone Akhenaton. 2

Il culto del Dio Aton, secondo alcuni studiosi tra cui W.J. Perry (The Primordial Ocean, pagg. 146, 284), derivava dal culto del Dio Ra di Eliopoli, la città santuario dell'antico Egitto nella quale, secondo Manetone, Mosè aveva appreso la religione dei grandi misteri. Anche Sigmund Freud, nel suo saggio sul monoteismo di Mosè fece risalire l'origine delle idee rivoluzionarie di Akhenaton a Eliopoli e al suo antico culto solare (S. Freud. L'uomo Mosè e la religione monoteista, pag 351). In effetti, in Amarna vi erano collegamenti molto chiari con Eliopoli, come per esempio la pietra “Benben”, l'oggetto di culto più sacro, e il toro Mneves, l'animale sacro di quella città.
L'incommensurabile grandezza del nuovo e unico Dio Aton non poteva essere capita né dal popolo né dal basso clero, dati i loro limiti culturali, né poteva venire accettata dai grandi sacerdoti che ben sapevano quali rivolgimenti sociali e politici poteva determinare. Infatti, la repentina e brutale eliminazione degli dèi, così amati e venerati dal popolo, che li riteneva il solo motivo del benessere politico ed economico del paese, determinò un terribile shock e il timore di un crollo dell'ordine sociale e cosmico.
Se a ciò aggiungiamo che non ci si limitò a chiudere i templi e a cancellare le immagini degli dèi, ma si provvide anche a sospendere le feste collegate alla religione – celebrazioni che per il popolo, come abbiamo visto, rivestivano la massima importanza anche sotto l'aspetto sociale - possiamo capire l'enorme angoscia, la sensazione di totale disorientamento che s'impossessò di tutti, dal più ricco al più diseredato esponente della popolazione. Infatti, tutti i complessi e fastosi cerimoniali del culto degli dèi vennero eliminati e i sacerdoti furono esautorati da ogni funzione loro propria .
Siccome nella nuova religione non c'era più posto per schiere celesti – angeli, demoni o altri intermediari – tutte le potenze che fungevano da mediatrici fra Dio e il mondo vennero riunite e monopolizzate nella figura del sovrano (Arthur Weigall, The Life and Times of Akhenaton, pagg. 120-121). Si instaurò un culto sobrio, diretto, quasi asettico. Il faraone era l'unico sommo sacerdote del suo Dio; gli altri sacerdoti si limitavano ad assisterlo in questo servizio, e i nuovi templi, detti ipetrali, erano cortili scoperti in cui si venerava il Dio presente nella luce stessa.


giovedì 24 marzo 2016

Il protocristianesimo fu caratterizzato da un livello culturale piuttosto basso. 253

Nei primi due secoli non solo il livello culturale e sociale dei fedeli cristiani era molto scarso, ma anche quello dei capi cristiani non era allora molto più elevato. Il più eminente avversario dell’eresia nella Chiesa antica, il Vescovo di Lione Ireneo, in uno scritto del 190 ammette, non senza imbarazzo, di «non avere dimestichezza con la scrittura», cioè con la Bibbia, il che non gli impediva di polemizzare con asprezza contro i presunti eretici, scrivendo: «Non vogliamo solo individuare la bestia, ma anche ferirla da tutti i lati» (Iren., adv. Haer. 1, 31).

Il Padre della Chiesa Tertuiliano ammise candidamente che fra i cristiani gli idioti erano sempre la maggioranza . Secondo una testimonianza ecclesiastica, nel Sinodo di Antiochia (324/325) persino la maggior parte dei Vescovi «era incompetente in questioni ecclesiastiche di fede» e riguardo al Concilio di Nicea (325) un contemporaneo scrisse che il livello intellettuale di molti padri sinodali era piuttosto basso e li bollò come dei veri e propri cretini (Socrate Scolastico, Storia della Chiesa 1,8) e in un resoconto degli atti del conclave di Nicea, Sabin, Vescovo di Eraclea, scrisse : “Eccetto Costantino stesso e Eusebio Panfilio (Eusebio di Cesarea), essi erano un gruppo di illetterati, creature semplici che non comprendevano nulla”.

Gli ambienti più colti del mondo ellenistico non respingevano solo la plebaglia protocristiana, ma anche la predicazione cristiana, che Tacito definiva «esecrabile» e Suetomo «una superstizione empia». In effetti i Vangeli, specie i tre sinottici, non erano allora in grado di attirare una sola persona colta, scritti com’erano nella Koiné greca del linguaggio popolare e denotanti, con troppa evidenza, sia nello stile che nei motivi le tracce della loro provenienza popolana.

Agli intellettuali essi dovettero apparire, come nota il filologo Eduard Norden, dei «monstri stilistici» oppure, come scrive Heinrich Ackermann, una «demenza di Siriani incolti. Alla fine del II secolo Celso, che vede nella Chiesa «solo stolti e anime di schiavi», così si esprime: «Non siete in grado di mascherare credibilmente le vostre invenzioni nemmeno con le menzogne» (Orig., Cels. 3, 18; 2, 26).

Qualche tempo dopo lo stesso apologeta del paganesimo stigmatizza le dottrine cristiane come «vaneggiamenti», «favole di nutrici», «storielle di un’immaginazione malata e pessimi motivi consolatori», «invenzioni di poeti rimasticate» dai cristiani con eccessiva leggerezza a pro del loro Dio.

Il Cristianesimo, dunque, fin oltre la metà del II secolo comprendeva in generale ceti sociali molto bassi, tanto che molti intellettuali, seguendo Celso, aprirono la polemica letteraria contro i cristiani, mettendo in risalto la loro pochezza intellettuale e culturale. Infatti, la scienza antica rimase decisamente un appannaggio pagano fino al IV secolo.



S.Ireneo


martedì 22 marzo 2016

23– Il falso Jahvè. La controreligione del faraone Akhenaton. 1

Intorno all'anno 1377 a.C., alla morte del faraone Amenofi III, salì al trono il figlio che costui aveva avuto dalla regina Tiye, Amenofi IV. L'Egitto conobbe con lui il più grande sconvolgimento religioso della sua storia.
Nel volgere d'alcuni anni il nuovo faraone cancellò la religione politeista, spodestò la classe sacerdotale e sostituì il molteplice pantheon egizio con un singolare monoteismo di Stato, incentrato sul culto del disco solare chiamato Aton. Anche la capitale fu spostata da Tebe ad Amarna (che allo scopo venne costruita ex-novo), e il sovrano mutò il proprio nome da Amenofi ad Akhenaton, (amato da Aton). Si ebbe così il monoteismo dell'evidenza aperto al popolo. Un monoteismo che negava tanto la pluralità quanto la segretezza del divino, cioè l'idea di un Dio nascosto che si è fatto mistero per il mondo.
Abbiamo visto che la religione dei grandi misteri, imperniata sul monoteismo, era riservata a pochissimi iniziati, persone destinate all'ufficio di sovrano “e tra i sacerdoti [...] a quelli particolarmente provati in seguito a giudizio, in base sia al tipo d'educazione e di cultura, sia di stirpe” (Clemente Alessandrino, Stromata, op.cit.). Gli altri, il popolo nel suo insieme, ne restavano esclusi non solo per motivi politici ma soprattutto per la loro limitatezza culturale e per l’arretratezza spirituale che impediva loro di accedere ad un così sublime ammaestramento. Ebbene, Amenofi IV decise improvvisamente di distribuire a tutto il popolo questo sapere incommensurabile, e di farlo senza sottoporlo a un'adeguata preparazione, per quanto limitata. Decise cioè di gettare, come si suol dire, le perle ai porci.
Per attuare questa sua radicale riforma religiosa, Akhenaton usò una forma di coercizione violenta: i templi furono chiusi, le immagini degli dèi distrutte, i loro nomi cancellali dai monumenti e i loro culti abbandonati. Tutto il variopinto pantheon di divinità antropomorfe e zoomorfe fu sostituito dal Dio Aton, il Dio unico della luce, dotato di trascendenza, onnipotenza, bontà infinita e libero da tutte quelle passioni terrene e plateali, quali aggressività, gelosia, vendicatività che di solito gli uomini attribuiscono al Dio inventato a loro immagine e somiglianza. Aton era anche un Dio sommamente pacifico, che aborriva la guerra, rifiutava i sacrifici cruenti, amava la serenità dell'esistenza umana, i sentimenti del cuore e il rispetto della natura.



venerdì 18 marzo 2016

22– Il falso Jahvè. La religione dei grandi misteri. 3

Immanuel Kant, forse il massimo filosofo tedesco, nella sua "Critica del giudizio" definì quest'epigrafe il pensiero più sublime che sia mai stato espresso. Il vescovo anglicano Ralph Cudworth, acuto studioso dell'antica religione egiziana, accordò all'iscrizione nel tempio di Sais, citata da Plutarco, una posizione di primo piano nella teologia egizia. Interpretò infatti il peplo o velo della dea come il simbolo di una distinzione fra esterno e interno, fra “qualcosa di esteriore e di visibile” e“qualcosa di nascosto e di sublime, invisibile e inconcepibile da parte dei mortali” (Ralph Cudworth, The True Intellectual System pag. 341).
Anche Karl Leonhard Reinhold e Friedrich Schiller, filosofi e letterati tedeschi del XVIII secolo, considerarono la formula saitica " Io sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà" come la ricusazione, la negazione di un nome e la proclamazione di un Dio anonimo e nascosto. Filone Alessandrino interpretò queste medesime parole nel modo seguente: è sufficiente al saggio conoscere Dio a posteriori o tramite le sue opere, ma "chiunque vorrà contemplare la natura non occultata della Divinità, sarà abbagliato dalla trascendente radianza della Divinità e dallo splendore dei suoi raggi” (Filone, De fuga et inventione, Vol. III, pag.146).
La sublime Natura come Essere Supremo e Nascosto era, per i due filosofi tedeschi, la divinità nei cui misteri Mosè era stato iniziato in Egitto. Senz'altro egli passò attraverso tutti gli stadi d'iniziazione fino a giungere alla contemplazione della "Natura" come divinità nascosta, invisibile e senza nome.
I grandi misteri egizi esercitarono un'enorme influenza nella cultura di tutto il mondo antico. Tramite Mosè furono alla base della teologia e della religione dell'Occidente, e tramite Orfeo – latore dell'idea dello Hen kai pan in Grecia – influenzarono le teorie di Pitagora, Eraclito, Parmenide e Platone e degli stoici. Durante il Rinascimento, grazia a due importanti opere: gli Hieroglyphica di Orapollo e il Corpus Hermeticum di Ermete Trismegisto, la teologia egizia determinò la nascita del panteismo cosmoteistico che può essere sintetizzato nel Deus Sive Natura di Spinoza (Baruch Spinoza, Tractatus theologico-politicus) .
Il cosmoteismo greco nella sua versione più frequente era Hen kai pan, "Uno è Tutto", il mondo è Dio. Nella versione spinozista, "Deus sive Natura", si afferma la stessa cosa. Il "kai" della formula greca ha lo stesso valore del "sive" di Spinoza. Non è un'addizione ma una equiparazione. La patria del cosmoteismo quale s'incontra in Plutarco, Diodoro, Filone, Origene e Clemente Alessandrino, nonché in Porfirio e Giambico, era dunque l’'Egitto.

giovedì 17 marzo 2016

Il forte impatto del concetto metafisico del Logos sul cristianesimo. 252 (Parte 2)

La speculazione sul Logos, propria di Platone e della Stoa, era molto coltivata anche da un contemporaneo di Gesù, il filosofo ebreo Filone di Alessandria, le cui concezioni del Logos collimano, con sufficiente esattezza, col Quarto Vangelo. Per Filone, infatti, il Logos diventa un secondo principio divino, il figlio di Dio, un Demiurgo, che discende dalle sfere celesti al fine di ricondurre gli uomini a Dio in qualità di Redentore.

Ma nel mondo pagano già tutta una serie di divinità era stata definita «Logos» da molto tempo prima del cristianesimo: Zeus da Zenone (ca. 336-263 a.C.), fondatore della Stoa; così Dioniso ed Eracle. Ermes, messaggero degli déi, già nel III secolo a.C., era considerato Logos inviato dal cielo ed invocato coi nomi di Rivelatore, Redentore, Pastore, Salvatore, Maestro, Mediatore fra uomo e Dio.

La dottrina platonica e stoica del Logos nel II secolo fu fatta propria da molti Padri della Chiesa, da Tertulliano a Ireneo e, addirittura letteralmente, dal Vescovo Teofilo, per cui il cristianesimo con le sue successive elaborazioni non fece altro che attribuire un nome nuovo a uno schema concettuale vecchio. Questa speculazione ecclesiastica sul Logos, con la quale si collegò anche la preesistenza di Cristo, anch’essa ignota agli Evangelisti sinottici, non fu un processo evolutivo della dottrina di Gesti, bensì la sua deformazione mediante l'introduzione di elementi ad essa estranei.

Nel Vangelo di Giovanni, l'ellenizzazione dimostra quanto l’autore voglia impressionare le persone colte di lingua greca al fine di guadagnarle alla causa del cristianesimo. La dottrina cristiana dovette essere intellettualizzata nel I secolo perché, salvo poche eccezioni, la massa dei credenti costituiva un coacervo di gente di bassa cultura, formata per lo più da mendicanti e da schiavi, come di attesta Paolo nelle sue Lettere, e non vi mancavano nemmeno ex ladri e delinquenti.

Ancora nel II secolo il filosofo greco Celso, che era dell’opinione che Gesù fosse stato un pericoloso fuorilegge, secondo Origene scriveva: «Che razza d’altra gente avrebbe potuto raccogliere un capobanda?»: valutazione molto condivisa in ambiente pagano dell'epoca




S,Teofilo



martedì 15 marzo 2016

21– Il falso Jahvè. La religione dei grandi misteri. 2

Scrive Damascio, citando Giamblico: “I filosofi egizi del nostro tempo hanno spiegato la verità nascosta della loro filosofia che avevano rinvenuto in certe scritture egizie; ossia esisterebbe, secondo loro, un Principio Unico di tutte le cose, celebrato con il nome di Oscurità Invisibile”. E prosegue: “Nella religione e teologia popolare questo Dio Supremo e Nascosto, era chiamato Hammon o Ammone.” (Damascio, De Principiis, Collection Budé, Paris, 1991, Vol. III, pag. 167).
I misteri maggiori, che spiegavano l'esistenza del Dio Uno e Tutto, non ammettevano un aldilà quale veniva inteso dalla religione popolare, cioè un qualche luogo in cui fossero previsti premi per i giusti e castighi per gli empi. Gli iniziati, nell'ultimo stadio della loro illuminazione, arrivavano a un così elevato grado di conoscenza e di elevazione spirituale che per loro il bene e il male cessavano d'essere, ogni ammaestramento discorsivo diventava vano e muti di fronte al fulgore della Natura, sfociavano nell'immediatezza dell'epòpteia mistico-conoscitiva, nella visione ultima (Clemente Alessandrino, Stromata V,11,17,1).
I misteri maggiori, però, potevano essere riservati soltanto a quei pochissimi fra gli iniziati che fossero sufficientemente forti per virtù e sapienza da reggere alla rivelazione della verità, intesa come superamento del mondo illusorio, e dunque come ammissione di un solo Dio invisibile e senza nome, causa prima e fondamento dell'Essere, "che ha tratto origine da se stesso e dal quale tutte le cose derivano". (Clemente Alessandrino, Protreptikos 74, 4).
Per Plutarco, Pan era equiparato ad Iside quale dea della Natura, una Natura da non identificarsi, come abbiamo visto, con ciò che è palese a tutti nell'evidenza naturale. Scriveva Plutarco che in Egitto, nel tempio della dea Sais, “la statua di Atena, che essi identificano con Iside, reca incisa quest'epigrafe: «Io sono tutto ciò che è stato, che è e che sarà, e nessun mortale mai sollevò il mio velo.»” (Plutarco, op. cit., VIII). Parole, queste, che esprimono il concetto di Natura come sublime divinità dei misteri: astratta, spirituale, anonima, invisibile e fuori della portata della ragione umana.

venerdì 11 marzo 2016

20– Il falso Jahvè. La religione dei grandi misteri. 1

La religione dei grandi misteri si articolava su due punti fondamentali: 1) il pantheon politeistico era da considerarsi - come abbiamo già visto - un'istituzione illusoria e fittizia, sia pure utile al popolo e allo Stato; 2) la vera religione ammetteva l'esistenza di un unico Dio, invisibile e senza nome, l'Essere che tutto crea e tutto comprende.
Gli iniziati, dopo essere stati istruiti sulla natura fittizia degli déi della religione popolare, apprendevano che, al di là del mondo quale appare ai nostri sensi, esisteva un divino che non si poteva attingere seguendo i precetti cultuali dei sacerdoti, in quanto oltrepassava ogni nostra possibilità di comunicazione linguistica e di rappresentazione iconica, ma si poteva soltanto cogliere con la mente nella visione mistica.
Questo divino era la Natura che dal suo intimo faceva nascere il mondo, lo animava e gli infondeva vita. Per Natura non s'intendeva però il mondo visibile, manifesto a tutti, bensì il mistero che nessun mortale comune scopre e che solo pochi eletti possono contemplare con l'epòpteia, la visione mistica. La Natura non era "l'evidenza naturale”, non aveva niente a che vedere col mondo visibile e corporeo che tutti noi percepiamo, poiché questo mondo materiale altro non è che esteriorità ed è recepito esclusivamente dai sensi e non ha in sé nulla di velato.
Il Dio Supremo, invece, era concepito come invisibile e nascosto, contenente tutte le cose e diffuso attraverso tutte le cose: un'unica divinità universale e onnicomprensiva. Per gli egizi il Dio Uno (to Hen), origine invisibile del Tutto, si manifestava o si celava dietro un velo nel Tutto (to Pan). Pan era quindi la manifestazione di Hen, era "tutte le cose", cioè l'equivalente della Natura. Quindi, Dio e Natura andavano considerati come unità, come tutte le cose nel loro insieme, come Universo. Orapollo, autore degli "Hieroglyphica", definiva il concetto egizio di Dio come uno spirito che si diffonde per l'intero mondo e pervade ogni cosa fin nella più intima essenza.

giovedì 10 marzo 2016

Il forte impatto del concetto metafisico del Logos sul cristianesimo. 251 (Parte prima)

È molto significativo il fatto che il quarto Vangelo, quello di Giovanni, abbia avuto origine ad Efeso, patria di Eraclito che primo elaborò la dottrina del Logos, da lui ritenuto il Nous universale, che tanto influenzò la filosofia greca dai presocratici fino a Platone e a Plotino.

Con l'assunzione di uno dei concetti metafisici fondamentali, quello del Logos, il Vangelo di Giovanni attesta una fase nuova del cristianesimo.
L’irruzione in esso della filosofia ellenistica, già iniziata da Paolo, qui diventa preponderante e stravolge l'intero messaggio gesuano. Fin dalle prime righe del prologo giovanneo il quarto Vangelo presenta al lettore sollecitazioni intellettuali alla speculazione astratta, e nel proseguo del libro ignora la popolarità e lo schietto linguaggio delle parabole proprio dei Sinottici, si bea con discorsi ampiamente elaborati e pateticamente monotoni, descrive Dio in maniera astratta iniziando un’intellettualizzazione totale del messaggio evangelico.

Il quarto Evangelista, infatti, intendendo attirare a sé non già i sofferenti e gli oppressi, ma le persone colte, spesso ostili e sprezzanti verso la nuova religione, non esalta più i poveri, né pone in guardia contro la ricchezza ma interpreta il messaggio evangelico alla luce dell’idea centrale della filosofia antica e dotato di tutte le qualità attribuite dai pagani al Logos cosmico, all’entità spirituale compenetrante il tutto.

Gesù diventa la manifestazione fenomenica del Logos «incarnato».Tale assurda trasposizione concettuale fu, naturalmente, ignota agli Apostoli ma diventerà termine centrale di riferimento degli Apologeti cristiani del II secolo, e unitamente alla sopraggiunta norma di fede trinitaria, verrà elaborato ulteriormente a dogma della Trinità.



Eraclito


martedì 8 marzo 2016

19– Il falso Jahvè. La religione popolare dell'antico Egitto. 3

Non ci troviamo di fronte, perciò, ad un perfido inganno ma ad un'istituzione inevitabile e necessaria ancorché fittizia. La verità senza veli doveva e poteva essere comunicata soltanto ai pochissimi destinati al comando politico e religioso. Solo queste persone potevano accedere ai grandi misteri. Scrive Plutarco in "De Iside et Osiride":
"Quando tra gli egiziani un re è scelto dalla casta militare, viene condotto immediatamente dai sacerdoti per essere istruito in quella teologia arcana che cela verità misteriose sotto la parvenza di favole oscure e allegorie. Per questo essi collocano sfingi davanti ai loro templi, per significare che la loro teologia contiene una certa saggezza arcana ed enigmatica" (Plutarco, De Iside et Osiride VIII, 354).
Ancora più chiare appaiono le affermazioni di Clemente Alessandrino.
"Gli Egizi non rivelano i loro misteri religiosi a tutti indiscriminatamente, né comunicano la conoscenza delle cose divine ai profani ma soltanto a coloro che sono predestinati alla successione nel regno e a quelli fra i sacerdoti che sono tenuti maggiormente in considerazione, in base alla loro nascita e qualificazione" (Clemente Alessandrino, Stromata V, 7,41,1).
Mosè, principe della corte del faraone e gran sacerdote di Eliopoli, era uno di quelle pochissime persone che erano state introdotte agli aporrheta (segreti soggetti alla massima riservatezza) che spiegavano l'origine del volgare politeismo e svelavano la dottrina dell'Unità. L'acquisizione della teologia dei grandi misteri presupponeva non soltanto un tirocinio di decenni, ma anche una gran forza d'animo e virtù in sommo grado.


venerdì 4 marzo 2016

18 – Il falso Jahvè. La religione popolare dell'antico Egitto. 2

Tutti i grandi sapienti dell'antichità, non solo d'Egitto, furono sempre consapevoli che la religione popolare politeista era un'illusione fittizia, però indispensabile sia al popolo sia allo Stato. È la teoria che va sotto il nome di evemerismo, dal nome di Evemero, il filosofo greco che la formulò e di cui conserviamo un frammento dell’opera "Hierà Anagraphè". Cicerone tratta ampiamente questa teoria nel "De natura deorum". Lucrezio nel "De rerum Natura" definisce la religione popolare una “pia fraus” (una pia frode) e la considera una finzione politica formulata da saggi legislatori per incutere il necessario rispetto per lo Stato e per le sue leggi. Anche Tito Livio è della stessa opinione laddove nelle sue "Historiae" ci racconta come Numa Pompilio fondasse le istituzioni nell'antica Roma. In tempi più recenti, Niccolò Machiavelli nei suoi "Discorsi su Livio" considerò le religioni pagane delle vere e proprie istituzioni politiche.
Ma la sintesi più chiara su quest'argomento ci è fornita dal frammento di Crizia, antico filosofo greco, (fr. 43 F 19 Snell) che ricostruisce la storia dell'umanità in tre stadi: 1) lo stadio primitivo di barbarie naturale in cui gli uomini vivevano in un stato di totale anarchia e di atroci contese; 2) lo stadio dell'introduzione di leggi imposte con la coercizione che non riuscirono a instaurare la giustizia perfetta perché i delitti nascosti restavano impuniti; 3) l'invenzione della religione che, con l'idea dell'onniscienza divina cui nulla sfuggiva, prevedendo un premio per i virtuosi e un castigo per gli empi, mise a freno i crimini occulti e conferì nuova autorità alle leggi.
Ma perché la religione potesse avere un effetto benefico occorreva che rimanesse segreta la sua falsità che, se rivelata, le avrebbe tolta ogni credibilità. Ecco quindi l'importanza del segreto religioso, senza il quale non avrebbero potuto esserci né società civile né ordinamento politico. Sisifo, nel frammento di Crizia, spiega che il popolo doveva essere mantenuto nel timore degli dèi affinché fosse indotto ad obbedire alle leggi e a sopportare lo Stato, e doveva essergli celata quella verità la cui scoperta avrebbe condotto al crollo delle istituzioni.

giovedì 3 marzo 2016

L’influenza della filosofia greca su Paolo (Parte seconda) 250

Abbiamo visto in precedenza che nelle opere di Paolo non v’ha pensiero o espressione che non trovi un proprio parallelismo nei Misteri ellenistici o nella filosofia greca .
Ad esempio, la dottrina paolina della morte è plasmata sul modello greco, così come, fin nei particolari, quella concernente il peccato. Il concetto di «coscienza», totalmente assente in Gesù, ma elemento centrale dell’etica cristiana, fu presa dalla Stoa greco-romana Anche la formulazione, spesso ricorrente nelle sue Lettere, delle due nature: «Spirito e Carne» è stoica. Così pure la concezione di una naturale conoscenza di Dio, cioé il pensiero della lex naturae che ci inculca
un innato sentimento morale ( Rom. 1, 19 sg.; 2,14 sg.).

Deriva dalla filosofia pagana la celebre locuzione di Paolo fatta nel discorso dell’Areopago di Atene a proposito di Dio in cui lui afferma: «In lui noi viviamo, ci muoviamo e siamo della sua stirpe». Il modello pagano cui allude suona: «Tutti abbiamo necessità di Zeus, perché siamo della sua stirpe». Queste frequenti coincidenze dell'Apostolo con la filosofia stoica hanno fatto nascere nel IV secolo il falso scambio epistolare fra lui e lo stoico Seneca, ritenuto autentico dal dottore della Chiesa Girolamo e verso la fine del XIX secolo, sostenuto ancora in ambienti ecclesiastici, nonostante la falsificazione fosse dimostrata da tempo. Perfino l’Epicureismo, da sempre oggetto di scherno da parte dei cristiani, venne talvolta utilizzato da Paolo.

D'altra parte era questo l'andazzo del tempo come ci dimostra il fatto che i sacerdoti di Mitra o di Iside tramutarono in Grecia la loro dea come una donna greca, nel Norico a come una donna norica e in Etiopia come una negra etiope e contemporaneamente i sacerdoti di Iside posero al loro servizio anche la Stoa perchè ogni religione penetrata nell’Impero per guadagnare adepti e aver successo non doveva apparire troppo estranea ma mostrare grande e rapida capacità di adattamento. Col Vangelo di Giovanni la filosofia greca entrerà con più forza all’interno del Cristianesimo sulla base della dottrina particolarmente importante del Logos.

Seneca


martedì 1 marzo 2016

17 – Il falso Jahvè. La religione popolare dell'antico Egitto. 1

Esistevano nell'antico Egitto due forme di religione: una essoterica, cioè manifesta a tutti, imperniata sull'idolatria; e l'altra, esoterica e quindi segreta, riservata a pochi illuminati. La religione essoterica politeistica svolgeva un ruolo importantissimo sotto tutti i punti di vista, soprattutto politico e sociale. A quel tempo il popolo viveva nella granitica convinzione che il benessere generale dipendesse dallo svolgimento di riti e di cerimonie in onore degli dèi. Gli egiziani non avevano molto sviluppato il senso d'appartenenza a uno Stato, quanto piuttosto quello di appartenenza a una città con le sue divinità, i suoi riti e le sue feste. Le feste religiose facevano periodicamente uscire le divinità dai templi della città in cui erano rinchiuse per lunghi periodi, durante i quali divenivano inaccessibili a tutti fuorché ai sacerdoti addetti al loro culto; le feste consentivano dunque che fossero mostrate a tutto il popolo e portate per le vie della città in lunghe e festose processioni.
Queste cerimonie erano un momento magico che consentiva a chiunque, anche al più diseredato, di provare un sentimento di vicinanza al Dio e signore di quella città, di accrescere la propria consapevolezza dell’appartenenza sociale nonché le proprie speranze nell'aldilà. Infatti, seguire con devozione le processioni era considerato il merito più importante per ottenere la felicità ultraterrena. Era pertanto convinzione generale che ci fosse un nesso tra lo svolgimento dei riti e il mantenimento dell'ordine cosmico e la felicità dopo la morte (Jan Assmann, Mosè l'egizio, pagg.48-49).
Il pantheon politeistico egiziano comprendeva un'infinità di divinità d'aspetto antropomorfo e zoomorfo, e consentiva la celebrazione di grandi e suggestive cerimonie.

Ma anche se questa religione “popolare” si fondava sull'accettazione dell'immortalità dell'anima, da una minoranza d'illuminati era considerata una messa in scena, una facciata simbolica, un’espressione religiosa minore che aveva lo scopo di affascinare il popolo e il basso clero con icone variopinte, cerimonie di gran suggestione e animali sacri. Una religione rutilante, esteriore, elaborata da saggi legislatori per esclusivi scopi politici. 

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Informazioni personali

Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)