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venerdì 29 aprile 2016

34– Il falso Jahvè. L'Esodo 6

L'astuzia di Mosè consistette nel disporre la nuova scrittura delle leggi rituali in modo tale da ricoprire interamente la vecchia scrittura, rendendola illeggibile per poi farla cadere nell'oblio. Questa interpretazione del comportamento di Mosè fu definito da Maimonide "inversione normativa". In altre parole, l'ebraismo inteso come controreligione egiziana.
È probabile che Maimonide, nella sua ricerca di motivazioni per «l'inversione normativa», si sia riferito ad autori pagani quali Manetone e Tacito. In essi, però, tale concetto aveva un significato antiebraico e inequivocabilmente polemico, poiché intendevano accusare Mosè di plagio, in quanto non aveva creato nessuna legge propria, ma si era limitato a capovolgere le consuetudini degli egizi. Tacito condensa il principio dell'inversione normativa con la sua consueta laconicità: negli Annali afferma che gli ebrei sacrificavano arieti al loro Ente Supremo "in contumeliam Ammonis " (per schernire Ammone) (Tacito, Storie, Utet, Torino, 1970, pag. 500). Più chiaro di così!
La prova più evidente dell'inversione normativa ci viene dalla stessa Bibbia. In Esodo (8, 22) leggiamo che Mosè domandò al faraone tre giorni affinché gli israeliti potessero celebrare dei sacrifici nel deserto. Di fronte alla pretesa del faraone che essi li celebrassero dove risiedevano e non nel deserto, Mosè obiettò: “Ecco, se offriremo sacrifici che sono un abominio per gli Egizi, sotto i loro occhi, non ci lapideranno essi?”. Le parole “che sono un abominio per gli Egizi” si riferivano chiaramente al sacrificio d'animali che gli egiziani adoravano e consideravano sacri.
Spencer ci fa sapere come l'ariete sacro al Dio Ammon, e il toro sacro a Osiride, fossero le divinità supreme e i simboli più sacri degli egizi e che il loro olocausto fosse stato scelto a proposito da Mosè per allontanare il suo popolo dall'idolatria.


giovedì 28 aprile 2016

Clemente Alessandrino. 258

Clemente Alessandrino fu il primo scrittore cristiano-orientale pienamente considerato dal mondo della cultura filosofica del suo tempo. Alla fine del III secolo inserì instancabilmente nel cristianesimo la filosofia ellenistica ricorrendo alla tesi del furto greco dal Vecchio Testamento e rinfacciando ai pensatori pagani (soprattutto a Platone) i presunti furti da essi perpetrati dalla Bibbia. Ma non si limitò solo a saccheggiare la filosofia greca bensì dalle religioni antiche attinse a piene mani anche l’intero materiale lessicale, specialmente quello dei Misteri Eleusini.

Nato ad Atene intorno alla metà del Il secolo fu il secondo caposcuola della famosa facoltà alessandrina di teologia, costruita sul modello della metodologia scientifica greca. Assai più che Giustino, egli collegò il cristianesimo ecclesiastico al patrimonio intellettuale pagano, con la trasformazione della religione cristiana in una filosofia religiosa, trasportando nel cristianesimo tutto ciò che della cultura antica a lui parve notevole e utilizzabile, giungendo alla conclusione che fra i due poli (cristianesimo e paganesimo) anche per un cattolico «permaneva solo una lieve differenza».

Per Clemente la filosofia non era lo Stoicismo, il Platonismo, l’Epicureismo o l’Aristotelismo, bensì una sintesi ecletica di tutto quel che di buono per il cristianesimo le diverse scuole filosofiche avevano insegnato. In conseguenza di ciò, il filosofo Celso, uno dei massimi polemisti anticristiani, poteva affermare che tutto quanto trovava di «di buono e di bello» nel cristianesimo, «i filosofi lo avevano già detto ancor meglio in maniera più appropriata» (Orig., Cels. 5,65. ma anche 6, 1. 2). Quindi la Chiesa non faceva che portare avanti col nome di cristiane le dottrine fondamentali della cultura greca. Secondo Clemente la filosofia avrebbe salvato gli uomini anche senza il cristianesimo ed era al di sopra della religione e della fede, giacché senza la cultura greca il cristiano non avrebbe potuto assolutamente comprendere Dio.








Clemente Alessandrino


martedì 26 aprile 2016

33– Il falso Jahvè. L'Esodo 5

John Spencer (1630-1693), era un teologo anglicano e un esperto ebraista. Nel 1685 pubblicò la sua monumentale monografia "De legibus Hebraeorum ritualibus et earum rationibus libri tres", nella quale si propose di provare l'origine egizia delle leggi rituali ebraiche inventate da Mosè come capovolgimento dell'idolatria, o meglio come sua cura disintossicante (ars oblivionalis). Spencer si basava a sua volta su una teoria cui cinquecento anni prima di lui Rabbi Mosheh ben Maymon (Maimonide, 1135-1204) aveva dedicato la sua famosa "Guida degli smarriti o dei perplessi "del 1190.
Maimonide aveva affermato che lo scopo originario della Legge di Mosè era la distruzione dell'idolatria. Infatti, alla scuola dei misteri egizi Mosè non si era limitato solamente a contemplare la verità ma aveva accumulato un tesoro di immagini magiche, mistiche e di cerimoniali di cui la sua mente poteva far uso in ogni difficile momento. Intuì che per far cadere nell'oblio un rito pagano il modo migliore consisteva nell’introdurre al suo posto un altro rito che fosse esattamente il suo contrario.
Il politeismo egiziano aveva occupato lo spazio religioso con ogni sorta di riti? Ebbene, gli ebrei avrebbero compiuto in onore del Dio Unico tutti quegli stessi riti e culti che avevano compiuto per gli idoli, ma in senso opposto. Ad esempio, gli Egizi consideravano sacri e degni d'adorazione alcuni animali come il toro e l'ariete. Mosè impose che questi animali, ritenuti le raffigurazioni di Ammon e Osiride, le più importanti divinità egizie, venissero sacrificati in olocausto al nuovo Dio, con un gesto per gli egiziani empio e meritevole di lapidazione.
D'altra parte Mosè non poteva scrivere la sua Legge su una tabula rasa, poteva soltanto sovrapporla a una scrittura già esistente. I cristiani seguirono lo stesso principio quando, all'inizio della loro èra, edificarono le chiese sulle rovine dei templi pagani e celebrarono le ricorrenze religiose nei giorni delle festività idolatre.

venerdì 22 aprile 2016

32– Il falso Jahvè. L'Esodo 4

Ma vediamo nei particolari come dovette procedere lo scaltro Mosè, avvalendosi della sua cultura egiziana, per trasmettere il monoteismo di Akhenaton al popolo che aveva adottato. Anzitutto, dal momento che questo era incapace di comprendere la verità mediante la ragione, questa verità doveva venirgli presentata come rivelata direttamente da Dio. Ed ecco Mosè che s'isola sul Monte di Dio (che non ha niente a che vedere col Monte Sinai della tradizione, pura invenzione dell’imperatore bizantino Giustiniano I) per far credere al suo popolo di intrattenere colloqui personali col Dio Unico che gli avrebbe impartito i suoi ordini categorici.
Qui Mosè ricorse ai trucchi di tutti i grandi legislatori dell'antichità – Minosse, Licurgo, Zoroastro – i quali facevano passare per voce di Dio la legislazione che andavano creando. Ognuno di loro diede le leggi a un popolo particolare, e si richiamò a una particolare divinità quale origine della legislazione, così da conferire alle leggi stesse maggiore autorità (Ermete, Giove, Apollo, Bonus Genius). Mosè seguì il principio di "inventare" un Dio quale autore della sua opera legislativa, per farlo ritenere fonte sovrumana dell'autorità legale.
Fede cieca da un lato e ferrea disciplina corporale dall'altro erano i requisiti imprescindibili della rivelazione divina, che sopperivano alla mancata comprensione a livello razionale. La religione egizia e le altre religioni misteriche pagane non avevano bisogno di una fede cieca e di una disciplina corporale legata ad una legislazione rituale; loro operavano tramite la fascinazione dei sensi e potevano fare a meno di prescrizioni e di cieca obbedienza. L'intolleranza assoluta del monoteismo era loro completamente sconosciuta.
Per Mosè la verità dovette invece essere imposta con la coercizione e la religione dovette assumere la forma di un'istituzione politica. La conoscenza fu sostituita con l'assoluta obbedienza e il culto misterico egizio si trasformò in teocrazia.
Ma la battaglia più dura che Mosè dovette combattere per imporre la sua nuova religione monoteistica a un popolo allevato per secoli nell'idolatria fu quella di estirpare alle radici proprio questa piaga pagana.


giovedì 21 aprile 2016

Giustino martire. 257

Fu il classico rappresentante dei primissimi difensori del cristianesimo, nato intorno al 100 in Palestina e decapitato nel 165 da Marc’Aurelio. Godette nella Chiesa delle origini di un grande prestigio e fino al V secolo vennero falsificate col suo nome moltissime opere.

Prima di diventare cristiano, aveva frequentato importanti scuole filosofiche antiche, ma alla fine, dopo aver studiato Platone, aveva trovato nel Cristianesimo «l’unica filosofia affidabile e salutare» . Ma da cristiano non depose mai il mantello del filosofo, anzi ribadì che solo la filosofia è in grado di condurre a Dio e che solo i filosofi sono veramente santi. Chi viveva «con la ragione» era, secondo Giustino, un cristiano, anche se vissuto secoli prima di Cristo e considerato «ateo, come il greco Socrate, Eraclito e altri come loro». Definiva, invece, malvagi tutti gli uomini che prima di Cristo «sono vissuti senza la ragione... mentre chi è vissuto e vive con la ragione è cristiano» (Just., Apol. 1,46).

Per giustificare il cristianesimo Giustino inventò la teoria, sostenuta in seguito dalla maggior parte degli antichi Padri della Chiesa, che la filosofia greca presente nel Cristianesimo era stata rubata dal Vecchio Testamento con l’aiuto di Satana. Ma a questa teoria aveva aggiunto poi l'ipotesi fantasiosa che tutti gli elementi nuovi contenuti nella dottrina di Gesù fossero già misteriosamente preformati nel paganesimo. Era la teoria del logos spermatikos, dedotto dalla Stoa, secondo la quale il Logos avrebbe da sempre governato il mondo, preordinandolo all’avvento del cristianesimo.

La contraddizione che scaturiva dal fatto che, se nuclei pagani di verità derivavano dal governo universale del Logos, cioè da Dio, non potevano scaturire da una ruberia dal Nuovo Testamento perpetrata con l’aiuto del demonio, non fu affatto avvertita da Giustino. E neanche da un altro importante Padre della Chiesa, Clemente Alessandrino. Fu solo con Tertulliano, che la teoria del furto venne soppiantata definitivamente dalla dottrina del logos spermatikos, in base alla tesi dell’anima naturaliter christiana o del lumen rationis internae di Agostino. Pur essendo la «filosofia cristiana» di San Giustino null’altro che una costruzione eclettica di dottrine pagane, soprattutto platoniche, egli è considerato ancor oggi come «il più cristiano fra gli Apologeti».


S.Giustino


martedì 19 aprile 2016

31– Il falso Jahvè. L'Esodo 3

La rozzezza di quel gruppo ancora informe che lo seguiva costrinse quindi Mosè ad una serie inimmaginabile di compromessi e di sotterfugi. Non potendo fare appello alla ragione dei propri seguaci, si vide costretto a rivolgersi ai loro sensi. Dovette anzitutto esigere fede e obbedienza cieca, e ricorrere alle punizioni corporali anche le più spietate. E, per dare credito alle sue promesse, dovette adattarsi a tutti i trucchi della magia che aveva appreso durante il suo tirocinio inferiore (Origene, op. cit., III, pagg. 5-8) e compiere davanti agli occhi dei suoi seguaci molteplici prodigi.
Nonostante questo, e nell'impossibilità di compiere miracoli tutti i giorni, dovette trasformare la concezione del Dio Sublime "Uno e Tutto" in un basso Dio teistico, personale e nazionale, per non dire tribale, e farne l'oggetto di fede cieca e d'obbedienza assoluta. Del Dio dei misteri, del Dio filosofico poté salvare soltanto il concetto d'unità.
Infine, per legare più indissolubilmente questo Dio al popolo eterogeneo che aveva adottato e favorire la sua trasformazione in un'unica etnia, dovette istillare in esso la granitica certezza che dal momento che adorava l'unico vero Dio, costui lo sceglieva come suo popolo eletto fra tutti quelli dell'intera umanità, e gli dava l'eterno possesso della terra di Canaan. In altre parole, dovette creare e trasmettergli gli elementi fondamentali che caratterizzeranno il futuro ebraismo.
Soprattutto il concetto dell'elezione divina diverrà il punto focale, la colonna portante della teologia d'Israele, il motore propulsore del monoteismo e il collante più importante della futura unione etnica. Ma sarà anche la causa principale del rifiuto del popolo ebraico di amalgamarsi con gli altri popoli cui sarebbe venuto in contatto e della propensione a chiudersi in una "enclave" razziale per non contaminarsi religiosamente con genti che non avevano la medesima elezione divina.
Questo peccato d'orgoglio, ancora presente in molti strati della popolazione ebraica, divenne la causa prima dell'odio che perseguitò Israele durante tutta la sua storia e fu la causa dei tanti olocausti che subì dopo la diaspora. Non è tollerabile che un popolo si arroghi il privilegio di possedere, unico sulla Terra, sangue divino. È una forma inaccettabile di razzismo religioso. E chi di spada ferisce, di spada perisce.


venerdì 15 aprile 2016

30– Il falso Jahvè. L'Esodo 2

Mosè non era il solo egizio a guidare le tribù in movimento. Lo accompagnavano tutti quei suoi compatrioti, ex seguaci di Aton, che si erano raccolti attorno a lui per servirlo e proteggerlo, e per proseguire la sua missione. Questo gruppo costituirà la tribù dei Leviti, i futuri sacerdoti d'Israele. Costoro, pur essendo inferiori di numero, erano più forti per civiltà e dunque erano portatori di una tradizione che agli altri mancava (S. Freud, op. cit., pag. 365).
Il problema fondamentale che Mosè dovette affrontare quando diede inizio all'Esodo fu: come trasmettere ad una popolazione rozza, incolta e idolatra il nuovo concetto di un Dio unico? Come riuscirci senza fallire, senza cioè gettare le perle ai porci come aveva fatto Akhenaton? Come trasformare quell'accozzaglia informe di semiti in un popolo unito che mantenesse incontaminato e rigoroso il nuovo culto monoteistico? Al fine di dare una esauriente risposta a queste domande così importanti, farò riferimento ad alcuni autori che trattarono l'argomento con particolare acume. Mi riferisco in particolare a J. Spencer, K.L. Reinhold e F. Schiller, già citati in precedenza.
Secondo Reinhold (Die Ebraischen Mysterien), Mosè – che aveva davanti agli occhi il fallimento della riforma religiosa di Akhenaton a causa dell'incapacità del popolo egizio di capirla – non poté sic et sempliciter annunciare ai suoi rozzi seguaci "il pensiero più sublime che sia mai stato espresso", per usare le parole di Kant (Critica della facoltà di giudizio pag. 110). Avrebbe voluto dire incappare in un altro irreparabile fallimento, in quanto era impensabile che un popolo come quello ebraico – incolto, abbrutito e indurito, come occorre supporre che fosse dopo molti anni di oppressione e di lavori forzati - potesse avvicinarsi a un così sublime concetto del divino.


giovedì 14 aprile 2016

La Patristica. 256

Dal II secolo si realizza pienamente lo stravolgimento filosofico della dottrina di Gesù per opera degli Apologeti, che nel Cristianesimo antico diedero origine alla Patristica. Il Vangelo, da questi Padri della Chiesa, per essere accettato dalle persone colte, viene razionalizzato e trasformato in una filosofia della religione; il movimento essenzialmente escatologico degli inizi diventa un complicato sistema speculativo intellettualistico e la buona novella per i poveri, stemperata e obnubilata nella scienza greca. Dio diventa un oggetto di speculazione concettuale, dislocato via via nella sfera delle idee, delle sostanze e delle essenze metafisiche e Gesù , negli affreschi catacombali, viene raffigurato circondato dagli apostoli come il filosofo nella sua scuola filosofica.


Ma, nonostante le proclamate velleità intellettualistiche e filosofiche, la maggior parte degli scritti degli apologeti più antichi denunciano una commovente ingenuità, per cui se per caso giungevano nelle mani di imperatori colti o filosofi, cui talvolta erano indirizzati, venivano del tutto ignorati. Tertulliano, autore delle migliori opere apologetiche, confessò che i suoi scritti non sarebbero stati mai letti da uno che non fosse stato già cristiano. Però, i trattati degli Apologisti costituiscono le fonti principali per il cristianesimo del II e del III secolo, soprattutto per la teologia della Chiesa del tempo. Cirillo di Alessandria, nel V secolo ribadiva l’autorità dei «padri» in tutte le questioni di fede, e, per questa ragione, dichiarava la loro nascita opera «dell’intervento dello Spirito Santo».


Come spiegato nei post precedenti, il Gesù della storia scompare dietro le quinte negli Apologeti più antichi e sostituito dal Logos preesistente, un’idea trascendente ch’era possibile cogliere soltanto all’interno di categorie filosofiche. Il concetto prediletto di Gesù, il Regno di Dio, menzionato nei Sinottici circa 75 volte, non ricorre più nella grandissima parte di questi autori. Alcuni di essi non solo non citano mai il Nuovo Testamento ma neppure il nome stesso di Gesù, come possiamo constatare nel dialogo di Minucio Felice: Octavius. Anche il vescovo Teofilo, nei suoi scritti, tralascia totalmente la persona di Gesù: non parla né della sua nascita, né del suo operato, né della sua morte. Allo stesso modo si comportano Taziano e Atenagora.


Gli esperti cattolici giustificano questa carenza di motivi evangelici in molti Padri della Chiesa adducendo il fatto che ai pagani sarebbero risultati incomprensibili. Ma risulta evidente che, eliminano ogni elemento specifico protocristiano, posero le basi della teologia, della dogmatica e dell’etica cattoliche.



S.Giustino


martedì 12 aprile 2016

29– Il falso Jahvè. L'Esodo 1

È probabile, come giustamente osserva Freud nel saggio già citato, che nel periodo di gran conflittualità interna alla società egiziana, provocata dalla controreligione di Akhenaton e dalla successiva restaurazione, il monoteismo incentrato sulla figura divina del sole, abbia determinato una coincidenza, o meglio una simbiosi, tra la parte dissidente della società egiziana che aveva subito il tracollo del sistema di Akhenaton e le popolazioni immigrate, le quali, fino a quel momento, non erano state capaci di attribuirsi né un'identità né una forza come gruppo.
Quando, dopo la morte sospetta di Tut-ankh-Amon e l'avvento al trono dell'ambiguo gran sacerdote Ay, la situazione parve precipitare ulteriormente, Mosè, non tanto forse per il timore della sua incolumità personale, quanto piuttosto per l'intimo, irrefrenabile impulso a voler attuare con un nuovo popolo quella riforma religiosa che era stata il sogno della sua vita, decise di mettersi a capo delle tribù semitiche della sua provincia, liberarle dalla schiavitù e condurle verso la terra di Canaan da dove erano arrivate quattro secoli prima.
Strabone, al pari di Celso, conferma in pieno questa ipotesi facendoci sapere che Mosè era un sacerdote egizio scontento della sua religione, il quale finì per procurarsi un popolo diverso dal suo, un popolo che lo accettò e lo acclamò, e che conseguentemente accolse il culto dell'Ente Divino. Così Mosè con questo stuolo di seguaci emigrò in Giudea (Strabone, op. cit., XVI 2,35-39). Basandosi su Posidonio, Strabone spiega bene il travaglio interiore di Mosè che rifiuta la tradizione egizia del politeismo zoolatrico per riconoscere che "Dio è quell'Essere Unico che abbraccia noi tutti e la terra e il mare, che noi chiamiamo cielo e terra e natura delle cose" (ibid.). E che per avvicinarsi a questo Dio serviva solo "vivere secondo virtù e giustizia" (ibid.). Sottolinea anche che, secondo Mosè, l'Essere Unico non andava rappresentato in alcun modo: "Si deve piuttosto tralasciare di fabbricare immagini e adorare la divinità senza rappresentazioni" (ibid.). Quest'ultima prescrizione, che per Strabone era dettata dall'inadeguatezza iconica a rappresentare la divinità che tutto abbraccia e che non è percepibile coi sensi, diventerà per il Mosè idolofobico e iconoclasta una proibizione assoluta, in quanto le immagini verranno intese come sinonimi di altri dèi.

venerdì 8 aprile 2016

28– Il falso Jahvè. La controreligione del faraone Akhenaton. 6

Quando il tempio di Aton a Karnak di Tebe venne abbattuto, molti blocchi scolpiti dell'edificio furono impiegati per riempire due torri giganti che facevano da portale al vicino tempio di Amon-Ra. Negli anni Trenta del secolo scorso, le torri furono smantellate per essere ristrutturate e, al loro interno, vennero alla luce oltre quarantamila blocchi scolpiti che portavano incise le preghiere al Dio Aton e altre informazioni a lui inerenti. Questi blocchi, oggi chiamati i Talatat di Karnak, sono una vera manna per gli studiosi di Akhenaton.
La drastica restaurazione determinò un pesante tracollo di quella parte della società egiziana che si era sviluppata alla corte di Akhenaton. Ministri, funzionari e sacerdoti del nuovo culto furono esautorati e caddero in disgrazia. Probabilmente furono anche perseguitati.
E Mosè? È legittimo supporre che lui, principe della casa reale e sacerdote di Eliopoli addetto al culto del Dio Ra, possa essere stato un autorevole esponente della liturgia atoniana. Chiusa la sfortunata parentesi di Akhenaton, suo probabile parente, si sarebbe appartato alla periferia dell'impero, ripiegando su mansioni amministrative. Infatti Strabone ci fa sapere che Mosè era stato sacerdote ma anche "signore di una parte del Basso Egitto" (Geographica XVI, 2,35).
Anche Freud, il fondatore della psicanalisi, era convinto che per Mosè la morte di Akhenaton e l'abolizione della sua religione significasse la fine di ogni speranza. Avrebbe potuto continuare a vivere in Egitto come proscritto o rinnegato (S. Freud, op.cit.. pag. 384), ma Giuseppe Flavio ci dà su Mosè l'informazione più importante laddove ci fa sapere che durante la restaurazione e il momento di turbolenza politica che ne seguì, si ebbe nell'Alto Egitto l'invasione delle truppe etiopi, e il sovrano (Tut-ankh-Amon), non badando alle rimostranze dei preti di Ammon, affidò proprio a Mosè l'incarico di difendere l'integrità della nazione (Giuseppe Flavio, Antiquitates Judaicae II, 238-257).
Per il momento su Mosè ci fermiamo qui. Nel prossimo capitolo esamineremo a fondo la posizione che egli assunse nei confronti delle tribù semite che vivevano in condizioni di semischiavitù nella provincia di Gosen. Erano tribù che lui forse conosceva bene per averle governate in precedenza, e che adottò come suo popolo per trasmettere loro il monoteismo dei grandi misteri di Akhenaton.



giovedì 7 aprile 2016

Anche il filosofo pagano Aristotele, sotto l'egida di Tommaso d'Aquino, esercitò un poderoso influsso sul Medioevo cristiano. 255

Tommaso d'Aquino, considerato il massimo teologo cattolico, in un primo momento fu fortemente influenzato dal platonismo, come ci dimostrano le sue frequenti citazioni nei suoi primi scritti dello pseudo discepolo di Paolo, conosciuto come Dionigi Areopagita (Atti, 17,34) che esercitò un fortissimo influsso sull'intero Medioevo cristiano. Successivamente, l'Aquinate riversò nel cristianesimo, da lungo tempo completamente platonizzato, l’immenso materiale concettuale di Aristotele, con una intensità tale da elevare il filosofo di Stagira al rango di Dottore della Chiesa.

Nel periodo immediatamente precedente l'incursione aristotelica dell'Aquinate, esattamente nell’anno 1223, il Papa Gregorio IX, in un rescritto all’Università di Parigi, aveva condannato nel modo più duro l’utilizzazione della filosofia aristotelica all’interno della teologia della Chiesa, considerandola un vaneggiamento ateistico. Ma, incredibilmente, questa tendenza filosofico-teologica, che diede origine alla prolifica corrente denominata Scolastica, pur condannata da Gregorio IX, è diventata con Tommaso d'Aquino, sua guida indiscussa sul terreno filosofico aristoteliteco, fondamentale per la Chiesa e ancor oggi l'Aquinate è considerato il massimo teologo-filosofo cattolico.

Ciò a conferma della tesi che la filosofia greca ha fornito non solo la forma, nella quale sarebbe stato versato il contenuto della fede cristiana, ma una vera e propria riplasmazione di natura contenutistica, specie nella strutturazione di una teologia scientifica.

È sintomatico che lo storico dei dogmi Friedrich Loofs nel capitolo introduttivo del suo capolavoro intorno ai «Presupposti della costituzione della dottrina ecclesiastica» conceda 28 pagine alla descrizione della filosofia e della religione greco-romana, 22 pagine alla definizione del Giudaismo e riservi solo 8 pagine alla predicazione e alla persona di Gesù, nonché all’intera età apostolica.

Aristotele


martedì 5 aprile 2016

27– Il falso Jahvè. La controreligione del faraone Akhenaton. 5

La controreligione di Akhenaton, a causa della sua intolleranza e iconoclastia, non tardò a trasformarsi in una guerra di religione e a determinare forti risentimenti nel popolo e una dura opposizione da parte della casta sacerdotale, allora potentissima, che si sentiva esautorata da ogni sua mansione e penalizzata dal punto di vista economico. I grandi sacerdoti, assieme agli aristocratici e ai vertici militari, preoccupati questi ultimi per il pacifismo del faraone che vedevano come foriero di possibili invasioni, tramarono per predisporre la restaurazione del precedente regime e riconquistare così i privilegi perduti.
Intorno al 1362 a.C. Akhenaton, dopo appena diciassette anni di regno, morì improvvisamente e inspiegabilmente, forse vittima di una congiura. La moglie Nefertiti tentò di continuare la riforma del marito e allo scopo fece salire sul trono il giovanissimo genero Tut-ankh-aton, (figlio di una concubina di Akhenaton e sposo della sorellastra, figlia di Nefertiti), ma alla morte della stessa faraonessa, sacerdoti e aristocratici, approfittando dell'inesperienza del giovanissimo faraone, iniziarono una rapida controriforma per rimettere in piedi gli antichi poteri e la religione tradizionale dell'Egitto.
La città di Amarna fu abbandonata e la capitale ristabilita a Tebe. Il nome del nuovo faraone, che tutti conosciamo essendo l'unico di cui è stata scoperta la tomba intatta, inclusa la mummia, fu opportunamente corretto da Tut-ankh-aton in Tut-ankh-amon, coerentemente col culto restaurato del Dio Ammon. Ma anche Tut-ankh-amon morì all’improvviso e inspiegabilmente (oggi sappiamo che venne ucciso dal veleno del potente sacerdote Ay che lo sostituì al potere, sposandone la vedova) e alla sua morte si scatenò una violenta controrivoluzione religiosa.
Dagli elenchi dei re, strumento della cronologia ufficiale, fu cancellato il nome del sovrano del periodo di Amarna e il suo periodo di regno fu attribuito ad Amenofi III e a Haremhab; furono abbattuti tutti i monumenti da lui edificati, distrutte le sue raffigurazioni e le sue epigrafi e fu eliminata ogni possibile traccia della sua esistenza.
Ma, per caso, qualcosa riuscì a sfuggire a questa distruzione e a farci conoscere importanti documenti degli atonisti.


venerdì 1 aprile 2016

26– Il falso Jahvè. La controreligione del faraone Akhenaton. 4

La nuova religione, inoltre, essendo di carattere prettamente razionalistico, in quanto fondata su un rigoroso eliomorfismo, escludeva ogni manifestazione cerimoniale che colpisse il sentimento e la fantasia del popolo, e dunque appariva a quest'ultimo arida, vuota e priva del concetto di rivelazione. Il nuovo Dio, infatti, in base alle epigrafi del tempo tuttora conservate nelle rovine di Amarna, non comunicava coi mortali: nessuna parola sua è registrata, al contrario di quanto avveniva con gli dèi tradizionali dell'Egitto, che si rivolgevano al sovrano con innumerevoli benedizioni e formule beneauguranti.
Per lo stesso motivo il nuovo Dio appariva privo di qualsiasi dimensione etica. Il Sole risplendeva per tutti, giusti e malvagi, e tutti dipendevano da lui. I testi di Amarna che ci sono pervenuti non fanno distinzione neppure tra animali e uomini. Il nome usato dagli egittologi per il Dio di Akhenaton è Aton, ma questo non era il vero nome del Dio, bensì quello del glifo che lo rappresentava, sotto forma di un disco solare circonfuso da raggi (Cyiril Aldred, Akhenaten, Pharaoh of Egypt, capag. IV). Il glifo rappresentava la luce del sole e non il sole in sé (la raffigurazione del sole era un disco alato), ed era l'unica forma concessa per rappresentare il Dio. Una traduzione diretta della parola Aton è “che da vita”.
C'era però un'altra immagine ammessa per questo scopo, quella del toro sacro Mnevis. Anche dopo che ebbe abolito tutte le divinità tradizionali, Akhenaton ordinò che il toro Mnevis, un animale sacro a Ra, fosse portato da Eliopoli nella nuova capitale Amarna e sepolto con gran pompa in una tomba particolare.
Il toro Mnevis era un animale in carne e ossa venerato presso il tempio di Eliopoli; quando moriva, veniva sostituito da un altro, individuato secondo prescritte manifestazioni soprannaturali. Diverse effigi di questo toro, in pietra o in bronzo, sono state scoperte tra le rovine di Amarna.



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Informazioni personali

Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)