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martedì 31 maggio 2016

43– Il falso Jahvè. Il senso di colpa e il nazireato. 3

Durante la lunga permanenza nel deserto, e nello spirito della dedizione totale a Dio, nacque quella singolare istituzione, che perdura inconsapevolmente anche ai nostri giorni in taluni gruppi ebraici e del mondo islamico, che andava sotto il nome di "nazireato". Il termine nazireato significa qualcosa come santità, purezza, elezione, e coloro che lo professano, i Nazirei, aspirano quindi ad una forma di santità che li separi dal resto della popolazione. Ecco come viene annunciato nella Bibbia:
"Quando un uomo, o una donna avrà fatto un voto speciale, cioè il voto di Nazireato, per consacrarsi al Signore, si astenga dal vino e dalle bevande fermentate; non beva aceto di vino, né altre bevande inebrianti; non beva alcun succo d'uva, né mangi uva, né fresca né secca. Per tutto il tempo del suo Nazireato non mangerà niente di ciò che produce la vite, non gli acini e neppure le bucce d'uva. Per tutta la durata del suo voto di Nazireato non passi rasoio sopra il suo capo; si consideri sacro fino a che non sia terminato il tempo per il quale si è votato al Signore e lasci crescere la chioma dei suoi capelli sul capo" (Numeri VI,2-5).
È singolare che anche ai nostri giorni il divieto di passare il rasoio sul capo, o per lo meno di usarlo il più raramente possibile consentendo alla barba e ai capelli di crescere fluentemente e anche in modo incolto, nonché il divieto di bere vino e alcolici, caratterizzino molti ortodossi di religione ebraica e islamica.
Un nazireo molto famoso fu Sansone, uno dei Giudici, cioè uno dei capi delle tribù d'Israele prima che queste fossero unificate dalla monarchia. La sua mitica storia, che richiama le gesta degli antichi eroi greci e che fu portata anche sugli schermi, era imperniata proprio sulla lunga chioma che, secondo il suo voto di nazireato, avrebbe dovuto rimanere perennemente intonsa, così da renderlo invincibile contro i filistei. Purtroppo dopo il taglio, perpetrato a tradimento dalla perfida Dalila, il voto venne infranto e Sansone finì prigioniero dei suoi nemici.


venerdì 27 maggio 2016

42– Il falso Jahvè. Il senso di colpa e il nazireato. 2

Il peccato e la redenzione non nascono in Egitto. Nascono nel deserto del Sinai come una piaga incurabile che il monoteismo si è trascinato dietro. Questo spiega la dedizione esaltata fino al martirio, che rasenta molto spesso il fanatismo puro – vera nevrosi ossessiva, come la chiama Freud - che contraddistinse e contraddistingue anche ai nostri giorni molti dei gruppi che professano le religioni monoteistiche.
La semantica del peccato era totalmente estranea alla religione egizia nel suo complesso. Quella religione non si fondava sul senso di colpa, ma al contrario sulla consapevolezza di una avvenuta riconciliazione con Dio e con il mondo allo stesso tempo. Infatti, tutte le colpe che una persona accumulava nel corso della vita le venivano cancellate davanti al tribunale dei morti, in modo che potesse entrare nell'aldilà in stato di purezza. Quindi l'Egitto era pervaso da una forma di ottimismo morale che troviamo espresso nella Bibbia soltanto in qualche versetto dell'Ecclesiate, l'unico dei libri biblici che risente fortemente dell'influsso egiziano. (Vedi: Ecclesiate 9,7-10). Il concetto di peccato nacque con Mosè nel deserto del Sinai e contraddistinse tutta la legislazione mosaica, che imponeva norme in gran parte assurde e irrazionali, la cui inosservanza spesso inevitabile significava trasgressione, colpa, peccato.



giovedì 26 maggio 2016

Altri scrittori e dottori ecclesiastici che rigettarono la filosofia. 262

Due importanti scrittori ecclesiastici, imbevuti interamente di filosofia, ma che la rigettarono o la odiarono, forse perché senza di essa non riuscivano a cavarsela, furono Minucio Felice e Tertulliano. Minucio, avvocato romano passato piuttosto tardi al cristianesimo, nel dialogo Octavius, stilisticamente pregevole, nonostante dimostri una piena aderenza al pensiero filosofico greco-romano, una profonda conoscenza degli Stoici, di Platone, di Cicerone e di Virgilio, giunge a definire Socrate «l’attico folle» e la filosofia «il vaneggiamento della superstizione», nemica della «vera religione» (Mm. Felix 38, 5; 1, 5; 38, 7). Una totale e assurda incoerenza.

La posizione di Tertulliano è analoga. Coltissimo in campo filosofico, molto legato agli scrittori profani, soprattutto in modo pedissequo ai seguaci della Stoa, incoerentemente condannò con durezza la cultura greca, che non aveva, a suo dire, nulla a che spartire col cristianesimo. Quando essa riusciva ad accostarsi alla verità, ciò accadeva per caso o si trattava di un furto. Rifacendosi a Paolo, Tertulliano inoltre riprovava assolutamente e totalmente la scienza e l’arte, considerate da lui insegnamenti di uomini e di demoni, meri orpelli seducenti , definiti semplici stupidità. Arrivò al punto da considerare Platone, tanto venerato da numerosi Padri della Chiesa, «il condimento di tutti gli eretici».

Anche il Dottore della Chiesa Ambrogio scorge nel filosofo greco nient’altro che un cervello poco originale, che trae le sue cose migliori dalla Bibbia (Ambr., de bono mortis 2, 51). Egli, quantunque abbondantemente imbevuto di filosofia, condannò.senza esitazione la cultura antica come rivale del cristianesimo, e respinse radicalmente come un attacco alla maestà di Dio soprattutto la scienza naturale, già irrisa da Lattanzio come mera insensatezza. Il Cristianesimo antico nel suo insieme non fece quasi nessun progresso nel campo delle scienze, e la Chiesa medievale provvederà poi a mandare sul rogo gli studiosi dei fenomeni naturali.

La Chiesa più antica, dunque, giudicava la filosofia pagana in modo assai diversificato; siamo di fronte a un’evoluzione dottrinale del tutto contraddittoria, a un contrasto di principio. Se gli uni sostengono un’originalità assoluta, una radicale alterità del Vangelo rispetto a tutta la cultura antica, gli altri vi scorgono un’organica prosecuzione e un coronamento del vecchio.

La poesia pagana (specialmente a causa della mitologia) viene solo parzialmente accettata da Atenagora, Giustino, Clemente Alessandrino ma da quasi tutti gli altri Padri della Chiesa viene del tutto condannata come ispirata dal demonio e assolutamente dannosa. Del pari l’arte figurativa dei pagani, completamente accolta da Ireneo, viene decisamente rifiutata da tutti gli altri, soprattutto da Taziano e Teofilo.


Minucio Felice


martedì 24 maggio 2016

41– Il falso Jahvè. Il senso di colpa e il nazireato. 1

La guerra contro il politeismo egiziano, intrapresa con la massima durezza da Mosè, non riguardò soltanto il rigoroso rifiuto iconoclastico delle immagini e la negazione d'ogni altra divinità all'infuori del Dio unico, ma significò anche l'abbandono della divinizzazione del mondo, implicita nel concetto d'idolatria.
Uscendo dall'Egitto, Israele si staccava dal coinvolgimento nel mondo inteso come civiltà dedita alla felicità esteriore; rinunciava ad ogni forma di mondanità, dal possesso dei beni materiali al benessere civile, e rifiutava la realizzazione terrena. In altra parole, si avviava a diventare "un regno di sacerdoti e una nazione santa" (Esodo 19,5-6) al servizio di un Dio invisibile ed extramondano.
Così si spiegano i quarant'anni di deserto fra l'esodo dall'Egitto e la presa di possesso di una terra stillante latte e miele. Erano quarant'anni necessari, anzi indispensabili, per il cambio generazionale, per decodificare ogni attaccamento al mondo connaturato all'idolatria e per disintossicarsi dal contro-mondo dell'Egitto. In altre parole, quegli anni erano necessari per de-egitizzare gli ebrei.
Il deserto si proponeva come il luogo ideale per giungere a dimenticare la sfavillante civiltà degli egizi e per comprendere quello che effettivamente quella civiltà rappresentava per il costituendo popolo ebraico: l'allontananza da Dio, e quindi il peccato per antonomasia.
La ricaduta nell'idolatria, cioè nella mondanità, significando il rifiuto di Dio, cioè il peccato, diventò l'ossessione d'Israele. Il "senso di colpa", ovverosia della “cattiva coscienza di aver peccato contro Dio e di non cessare di peccare” (S.Freud, L'uomo Mosè, op. cit., pag. 450) svolgerà, nel monoteismo ebraico prima e in quello cristiano poi, un ruolo fondamentale lungo tutto il corso della sua storia, permeando ogni attività umana con la consapevolezza del peccato e con la brama di redenzione.

venerdì 20 maggio 2016

40– Il falso Jahvè. Il segno del Patto: la circoncisione. 2

È la circoncisione il suggello del vincolo stretto tra Dio e Abramo e la sua discendenza? Ebbene, sappiamo per certo che presso gli israeliti cominciò a diffondersi soltanto dopo l'insediamento a Canaan, per cui non la si trova nei più antichi documenti giuridici, e nel Levitico è menzionata solo una volta senza rilievo. Anche in questo caso Abramo non c'entra. C'entra invece, e non poco, Mosè.
Questa antichissima usanza, praticata per motivi igienico-sanitari, sociali e religiosi era, al tempo di Mosè, diffusa comunemente in Egitto ma sconosciuta presso i filistei, gli assiri, i babilonesi e i semiti. Già Erodoto aveva affermato nel V sec. a.C. che il popolo egizio era stato il più antico ad avere introdotto la circoncisione (Erodoto, Historiae, II, 36,3 e 37,2). I Fenici e gli ebrei riconoscevano essi stessi di aver appreso quest'uso dagli egizi (Erodoto, op.cit., II, 104), (E.Meyer, op.cit., pag. 440).
Il ricercatore di incunaboli e archeologo Willis Budge (Osiris and the Egyptian Resurrection, pagg. 219-223) scovò scolpita a rilievo su una tomba di Saqqara, risalente alla VI dinastia, circa 2500 a.C., la rappresentazione di un sacerdote nell'atto di praticare, con un coltello di pietra, la circoncisione su un giovane egiziano; e G.Elliot Smith, (Egyptian Mummies, pagg. 78 e 80) anatomista delle mummie, trovò asportazioni del prepuzio su mummie contemporanee ad Abramo. Quindi, la circoncisione era pratica comune in Egitto fin dai tempi più antichi.
Senz'altro Mosè, per il quale il suo popolo in nessun caso doveva essere inferiore agli egizi, impose nel corredo cerimoniale religioso la circoncisione, quale tipico segno distintivo. Ma forse, conformemente agli altri riti della religione egiziana che erano stati assimilati durante la loro lunga permanenza, questa era già da loro praticata da generazioni.
Freud commenta che Mosè aveva probabilmente introdotto quest'usanza tra gli ebrei in quanto ravvisava in essa un segno di superiorità, di purezza e di distinzione, e ci fa sapere che i popoli che hanno adottato la circoncisione “si sentono innalzati da essa, in un certo qual modo nobilitati, e guardano con disprezzo agli altri, che considerano impuri" (S. Freud, L'uomo Mosè, cit., pag. 357).
Il gruppo di Mosè, una volta rientrato nella terra di Canaan e unitosi alle altre tribù semitiche, etnicamente affini, diffuse tra queste tribù sia il monoteismo sia la circoncisione. Difatti, soltanto molto tardi, vale a dire dopo la caduta dei regni d'Israele e di Giuda, e soprattutto durante l'esilio tra i babilonesi che non la praticavano, la circoncisione divenne il segno religioso distintivo dell'appartenenza al popolo d'Israele, l'indelebile marchio di proprietà di Dio e segno dell'Alleanza.
Nel corso della definitiva codificazione della Bibbia tale adozione fu occultata, come tutte le altre tracce riguardanti l'identità egizia di Mosè, e attribuita ad Abramo. Infatti, per la Bibbia la circoncisione era una prescrizione giuridica già in Genesi 17.


giovedì 19 maggio 2016

I Padri della Chiesa avversari della filosofia. 261

Nel cristianesimo primitivo non esisteva una concezione unitaria per cui ai Padri della Chiesa che consideravano la filosofia greca propedeutica alla fede si contrapponevano quelli che,al contrario, consideravano le asserzioni dei filosofi «come dannose e pericolose, e tali da distogliere da Dio» (Greg. Naz., or. 43 e. 11). I primi, legati alla filosofia allettavano i colti, mentre i secondi, ad essa ostili, attiravano la massa composta da spiriti sempliciotti, che basavano la loro religiosità sulla semplicità evangelica.

Il siriano Taziano, il discepolo più eminente di Giustino esaltatore della filosofia, in pieno contrasto col suo maestro, la combatté appoggiandosi unicamente alla tradizione biblica ed evidenziando l'inconciliabilità della dottrina di Gesù con la scienza pagana. Egli irride, con sarcasmo, l'intera cultura greco-romana definendola presuntuoso chiacchiericcio, insulta i romani chiamandoli «spacconi», definisce gli ateniesi «fanfaroni»; chiama Eraclito stolto e ciarlatano, Diogene (quello della botte) un «ghiottone». Arriva, perfino, a considerare Platone,venerato da altri scrittori della Chiesa quasi come Gesù stesso, un venduto per crapula insieme a tutta la sua sapienza mondana.

Un altro nemico della cultura pagana, il vescovo Teofilo, intorno al 180, fustiga con ferce ironia i «cosiddetti sapienti, poeti o storiografi», «le ciance di sciocchi filosofi», «le fandonie menzognere degli scrittori e la falsità delle loro teorie». Oltraggia Platone, ampiamente saccheggiato dalla Chiesa antica, come «redattore di storielle bugiarde» e condanna in massa i rappresentanti della cultura greca come uomini che «non hanno trovato nemmeno la più piccola scintilla di verità e neppure unasua pur piccolissima briciola».

Secondo Eusebio di Cesarea, sesto Vescovo di Antiochia, uno degli episcopati più importanti della Chiesa antica, l'ostilità del vescovo Teofilo verso la cultura pagana giunse quasi al delirio, facendogli dire, con tutta serietà (ma per noi in totale follia), che Epicuro diffondeva l’incesto con madri e sorelle, e che Zenone e Diogene insegnavano ad ammazzare i genitori per divorarli!

Per il Dottore della Chiesa Ireneo i filosofi erano atei per definizione mentre per il Padre della Chiesa Ippolito le tendenze eretiche che si diffondevano sempre più tra i cristiani erano originate proprio dalla filosofia greca (Hippol., ref. 1, 26; 5, 14). Infine, la Didascalia siriaca raccomandava al cristiano:«Tienti lungi da tutti gli scritti dei pagani; infatti, che cosa pretenderesti di ottenere con parole estranee o con leggi e false profezie, che sono capaci di allontanare i giovani anche dalla fede? Cosa ti manca della parola di Dio per precipitarti su codeste storie dei pagani?» (Syr. Didasc.c.2).


Vescovo Teofilo


martedì 17 maggio 2016

39– Il falso Jahvè. Il segno del Patto: la circoncisione 1

Abbiamo visto che col Patto dell'Alleanza Mosè aveva posto le premesse per avviare la sua schiera a diventare un popolo e una nazione.
Ora, se vorrete ascoltare la mia voce e custodirete la mia Alleanza, voi sarete per me la proprietà tra tutti i popoli, perché mia è tutta la Terra. Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa. Queste parole dirai agli israeliti” (Esodo 19, 5-6).
Nella Bibbia la parola “Alleanza” (berit) compare 287 volte e diventa il concetto centrale di tutta la teologia israelitica con il significato di Patto esclusivo, indissolubile e vincolante tra Dio e il suo popolo. Con essa Israele diventa il popolo eletto, il popolo esclusivo di Dio e riceve, come ricompensa dell'assoluta fedeltà al suo unico Dio, il possesso perenne di un territorio.
Dopo la morte di Mosè, servo del Signore, il Signore disse a Giosuè, figlio di Nun, servo di Mosè: Mosè mio servo è morto; orsù, attraversa questo Giordano e tutto questo popolo, verso la terra che io do loro, agli Israeliti. Ogni luogo che calcherà la pianta dei vostri piedi ve l'ho assegnato, come ho promesso a Mosè. Dal deserto e dal Libano fino al fiume grande, il fiume Eufrate, tutto il paese degli hittiti, fino al mar Mediterraneo, dove tramonta il sole: tali saranno i vostri confini" (Giosuè I, 1-4).
Ecco quindi che per l'ebraismo il vincolo originario con la terra d'Israele "promessa in sposa" da Jahvè a Mosè e al suo popolo, diventa un fatto assolutamente essenziale. Ancora ai nostri giorni questa promessa biblica, frutto del genio politico-religioso di Mosè che, per trasmettere il monoteismo ad un popolo che lo professasse stabilmente l'aveva attribuita a Jahvè, rappresenta il principio di legittimazione religiosa della pretesa, da parte del popolo ebraico, di possedere la Palestina.


venerdì 13 maggio 2016

38– Il falso Jahvè. L'Esodo 10

Schiller, il celebre filosofo e poeta tedesco del XVIII secolo, nel suo opuscolo "La missione di Mosè" descrisse, in forma drammatica ed epica il conflitto interiore che il legislatore d'Israele dovette affrontare nel tentativo di sostituire la sua sublime idea di Dio, cioè la sua visione mistica della Natura, con la fede cieca, estorta mediante i “miracoli” e imposta con la forza, e questo per salvare quanto meno l'unità di Dio.
Nel suo opuscolo traccia un profilo nobile di Mosè, che non corrisponde affatto a quello che ci appare leggendo i passi della Bibbia che lo riguardano, nei quali si dimostra un generale preoccupato più dell'organizzazione delle truppe che del loro spirito, e un uomo autoritario, ossessionato dalla Legge divina.
I libri dell'Esodo, del Levitico, dei Numeri e del Deuteronomio, a lui attribuiti dagli ortodossi ebrei e cristiani, straripano di precetti e di disposizioni spesso irragionevoli, per non dire maniacali, che riguardano le cose più disparate: dai ruolini di marcia, alle mutande di Aronne fino all'interramento dei rifiuti organici, regolati questi ultimi da meticolose norme derivate dalla devozione egizia per lo scarabeo stercorario. Non per nulla l'entomologo francese Jean-Henri Fabre (La vita degli insetti) definì lo scarabeo "il fedele osservatore del precetto mosaico".
Ma forse gran parte di quello che noi attribuiamo a Mosè, soprattutto la pletorica emanazione di leggi, è da attribuire, come vedremo nel proseguo del libro, al re riformatore Giosia e ai suoi scribi, i quali, poco prima dell'esilio babilonese, ricostruirono a posteriori, e questo dopo molti secoli, le vicende dell'Esodo, manipolandole e interpolandole liberamente in base alla nuova teologia che si andava affermando e alle istanze politiche del panisraelismo allora emergente.


giovedì 12 maggio 2016

Origene (parte seconda) 260

Anche per Origene la Bibbia si armonizza coi pensieri più profondi della filosofia greca e la fede, senza la filosofia, era per lui inconcepibile. Secondo Adolf von Harnack, Origene riuscì a diffondere il cristianesimo fra le persone colte più di tutti gli altri cristiani messi insieme anche se, alla fine, la Chiesa lo bollò come eretico, a causa delle sue opposte credenze sull'inferno. Per Origene, come per altri Padri della Chiesa (Gregorio di Nissa, Teodoro di Mopsuestia) le pene dell'inferno non erano eterne, ma temporanee (una specie di purgatorio).

Infatti egli riteneva che alla fine dei tempi, all'arrivo cioè della parusia, tutta l’umanità si sarebbe salvata in Cristo e avrebbe avuto luogo la “restaurazione finale” (apokatàstasis) di tutti gli essere umani e del cosmo. Tale salvezza avrebbe coinvolto i condannati all’inferno e perfino i demoni (Origene, De principiis).

Ma la sua tesi non fu accettata dalla Chiesa, sempre più convinta che la minaccia del tormento eterno è l'arma più potente di cui dispone per plagiare col terrore i suoi fedeli, e così anche Origene , il più importante dottore della Chiesa antica, finì tra gli eretici. Succederà anche ad un altro grandissimo dottore della Chiesa e valente polemista, Tertulliano, di confluire, al termine della sua vita, tra gli eretici. Non per motivi dottrinari ma per reazione al dilagare dell'mmoralità tra le file di molti cristiani.

Origene


martedì 10 maggio 2016

37– Il falso Jahvè. L'Esodo 9

Spencer interpreta l'Arca dell'Alleanza come la combinazione di una cista mysterica e di un sarcofago egizio. In realtà, questa sacra cassapanca (un metro circa di lunghezza e poco meno per altezza e larghezza), costruita ai piedi del Monte Sinai dall'artigiano Bazeleel su indicazioni di Mosè affinché contenesse le Tavole della Legge, somigliava molto agli scrigni cerimoniali egiziani quali possiamo vedere nei dipinti. Era sormontata da due cherubini ad ali spiegate, rivestiti d'oro (simili a Maat, la dea egizia della verità e della giustizia che aveva le ali spiegate) (Esodo, 25,18-22). Queste immagini contravvenivano alla rigorosa iconoclastia di Mosè.
All'Arca vennero riconosciuti poteri straordinari dagli scribi che parecchi secoli dopo redassero la Bibbia. Nel deserto l’Arca viaggiava davanti agli ebrei per uccidere i serpenti e gli scorpioni e spianare le montagne, e in battaglia scatenava il fuoco celeste per consentire alla stirpe d'Israele di mietere un successo bellico dietro l'altro.
Anche i Keruvim trasgredivano in modo palese il rigoroso aniconismo mosaico. La loro apparenza esteriore dimostrava l'origine idolatra nel modo più evidente: avevano un aspetto composito al modo degli dèi cananei e dei geroglifici egizi. Ezechiele li descrive come “creature” o “animali” ciascuno con il volto di un uomo, di un leone, di un toro e di un'aquila. Come tali essi si ripresentano nell'Apocalisse (4,6-7), mentre nel Nuovo Testamento sono diventati i simboli dei quattro evangelisti.
Mosè dovette dunque pagare un prezzo estremamente alto per aver reso di dominio pubblico il segreto dei grandi misteri che s'incentrava nell'unità di un Dio ignoto, astratto, spirituale, anonimo e invisibile. Non essendo in grado di trasformare in conoscenza razionale la fede cieca e l'obbedienza assoluta a leggi rituali insensate, fu costretto a ridurre la sua idea di un Dio sublime, propria dei misteri egizi, alla dimensione di una divinità tutelare nazionale, conformemente alle capacità di comprensione del popolo, e a celare la verità sotto l'egida protettiva di istituzioni e prescrizioni cultuali. Mosè non rivelò la verità, soltanto la "transcodificò", come diremmo oggi, per trasmetterla in forma di un corpus pubblico di adempimenti rituali, non soggetto ad alcun obbligo di segretezza.

venerdì 6 maggio 2016

36– Il falso Jahvè. L'Esodo 8

Per estirpare l'idolatria così profondamente radicata nell'animo del suo popolo, Mosè ricorse a tutti i mezzi possibili, che andavano dall'iconoclastia più violenta, all'istituzione di continui riti sacrificali (tali da rendere l'altare un mattatoio), all'osservanza scrupolosa, per non dire maniacale, di precetti assurdi e irrazionali che regolavano tutti gli aspetti della vita, non solo religiosa ma anche pratica. Tanto per fare un caso limite, in Esodo 28, 42 Dio dà a Mosè disposizioni perfino sulle mutande che Aronne doveva indossare durante la celebrazione dei riti. Un Dio che si occupa di simili quisquilie ha perduto molta della sua sublime divinità.
I riti sacrificali, prescritti con accanimento e ferocia (si pensi che a Gerusalemme, durante le feste pasquali, venivano macellati nel Tempio più di ventimila animali, in un orribile lezzo di sangue e d'incenso), Mosè li impose volendo, come dice Spencer, gettare discredito su quegli animali che per gli Egizi avevano maggiore importanza.
Spencer, nel citato "De Legibus" afferma che Mosè apprese dai suoi maestri egizi, tra l'altro, anche “la filosofia trasmessa per mezzo di simboli". La sua fonte è Filone d'Alessandria (De vita Mosis, libro primo). Questo spiegherebbe il fatto che, per Mosè, Dio non accettava che il suo culto fosse privo di qualcosa che gli israeliti avevano già imparato a considerare come sacro durante il loro soggiorno in Egitto. In altre parole, non voleva che la religione che lui stava creando mancasse di visibilità o di dimensione estetica, cioè di quelle forme visibili e materiali attraverso cui la religione si esprime e viene vissuta. Ecco spiegata, allora, la pletora di riti sacrificali, purificazioni, festività rituali, il capro espiatorio e l'istituzione dell'Arca dell'Alleanza, dei Keruvim, dei templi negli Alti Luoghi in tutto simili a quelli eretti da Akhenaton al Dio Aton a cielo aperto, degli Urim e dei Tummim. In base a tale principio di visibilità, Mosè dovette in parte rinunciare alla sua spietata iconoclastia e concedere al proprio popolo immagini rigorosamente proibite sul piano teologico, quali appunto l'Arca dell'Alleanza e i Keruvim, intesi come visualizzazione della presenza divina.


giovedì 5 maggio 2016

Origene (parte prima) 259

Origene (185-254) fu il primo teologo cattolico nel pieno senso del termine e precursore della Scolastica. Figlio di un martire, già a diciott'anni coltissimo, diventò capo della scuola superiore alessandrina frequentata anche da pagani, e ben presto divenne celeberrimo in tutto il mondo di allora.

Porfirio, che assieme a Celso fu un implacabile polemista anticristiano, lo stimava moltissimo, riconoscendo che, pur essendo un nemico del paganesimo nella sua vita pratica, in teoria aveva del mondo e della divinità i concetti propri di un greco e affermando che per merito suo la filosofia greca era penetrata nella dottrina cristiana in modo ancor più ampio che con Giustino e Clemente.

Ancor oggi la moderna indagine teologica condivide la tesi di Porfirio in quanto il linguaggio di Origene, la sua metodologia, la formulazione del suo concetto di Dio, la sua cosmologia e la sua pedagogia furono tratti di peso da Platone, mentre alcuni aspetti fondamentali della sua dottrina del Logos e della virtù furono presi dagli Stoici. Anche i Peripatetici e il filosofo Posidonio influirono sulla sua antropologia e sulla sua filosofia della libertà.

Possiamo quindi affermare che attraverso Origene, la filosofia abbia ulteriormente trasformato, per non dire completamente oscurato, la semplice spiritualità del Vangelo La sua opera principale, Dei Princìpi (Peri archon), fondò praticamente la dogmatica ecclesiastica, che influenzò fortemente, capi esimi della Chiesa come Eusebio, Girolamo, Basilio, Gregorio di Nissa, Gregorio di Nazianzio.

Questo dottore della Chiesa fu incredibilmente fecondo e autore, tra lìaltro di un’opera in dieci volumi, Stromateis, nella quale, secondo il Vescovo Eusebio, «sottopose ad analisi tutte le asserzioni della nostra religione, provandole con Platone e Aristotele»! (Euseb., h.e. 6,24, 3). Origene quindi, in quest'opera andata perduta (o forse nascosta in qualche segreta dal Vaticano perché non totalmente ortodossa) preferiva rifarsi più all’Ellenismo che a Gesù cui era riservato un ruolo del tutto subalterno.

Origene


martedì 3 maggio 2016

35– Il falso Jahvè. L'Esodo 7

La guerra contro l'idolatria comportò durissimi scontri tra Mosè e i suoi seguaci se è vero che “in qualunque punto del deserto gli Israeliti si fermassero, incominciavano a farsi degli idoli” (Rabbi Juda, in Pirq. Eliez., pag. 47).
La conferma del persistere dell'idolatria nel popolo ebraico nel corso delle sue peregrinazioni nel deserto ci viene dalla stessa Bibbia nell'episodio celeberrimo del vitello d'oro. Mosè, al ritorno dal Monte di Dio, più conosciuto come Monte Sinai, dove si era fermato quaranta giorni per far credere alla sua gente di aver ricevuto le Tavole della Legge scritte dal dito di Dio, si avvicinò all'accampamento e trovò il popolo che danzava festoso intorno al vitello d'oro che si era costruito durante la sua assenza. Il popolo gridava in preda all'esaltazione: “Questo, o Israele, è il tuo Dio che ti ha fatto salire dal paese d'Egitto” (Esodo, 32,34). Di fronte a questa scena, Mosè , "pieno di collera, buttò via le tavole e le spezzò ai piedi della montagna. Poi prese il vitello che avevano fatto, lo gettò nel fuoco e ridusse in polvere quel che restava " (Esodo 32,15-20).
Ma non si limitò a questo. "Allora Mosè si mise all'ingresso dell'accampamento e disse: Chi sta con il Signore venga qui. I membri della tribù di Levi si riunirono intorno a lui, ed egli disse loro: Questo è l'ordine del Signore, il Dio d'Israele. Ognuno di voi prenda la spada! Percorrete l'accampamento da un capo all'altro e uccidete tutti i colpevoli: fratelli, amici o parenti! I leviti ubbidirono a Mosè, e in quel giorno morirono circa tremila persone "(Esodo 32, 26-27).
Un eccidio in piena regola, voluto da Mosè in nome di un Dio che ormai aveva perduto ogni connotazione della sua primitiva sublime divinità.
L'episodio, oltre a dimostrarci la spietatezza di Mosè, c'illumina anche sull'origine e il ruolo dei Leviti, cui abbiamo già accennato. Secondo la Bibbia, i Leviti (i soli esenti dal possesso di terra e quindi non censiti) discendevano da una delle dodici tribù d'Israele, quella di Levi, figlio di Giacobbe e di Lia. Erano Leviti Mosè e Aronne. Ma è certo che Mosè era un egiziano, ed è più che probabile che i Leviti fossero, a loro volta, egiziani, quel gruppo di suoi compatrioti, seguaci del Dio Aton, che assieme a lui avevano abbandonato l'Egitto. Ciò spiegherebbe, secondo molti studiosi, la loro incondizionata sottomissione a Mosè e il loro essere pronti a massacrare, senza battere ciglio, i compagni di viaggio, etnicamente diversi, che dissentivano dal loro capo.


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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)