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venerdì 29 settembre 2017

Peccato e redenzione n. 22

Per Paolo la redenzione del cristiano era rappresentata dalla Croce, cioè dall'immolazione di Cristo, che diventava, nella sua nuova teologia, il punto di riferimento di tutta la sua fede, il mistero del progetto di Dio per la salvezza del mondo. Il concetto di redenzione, associato a quello del peccato originale che, secondo Paolo, aveva reso l'intera umanità una massa di dannati, diventava per lui il pilastro fondamentale del Cristianesimo, il cuore pulsante della nuova religione. Se l'uomo non fosse stato redento da Gesù Cristo, tutto l'edificio del Cristianesimo sarebbe risultato inutile. Peccato originale e redenzione diventano quindi inscindibili per Paolo e per il Cristianesimo che ne derivò, come verrà confermato da Tommaso d’Aquino con la celebre formula: «Peccato non existente, Incarnatio non fuisset»; cioè: «Se non vi fosse stato il peccato [originale], non avrebbe avuto luogo neppure l’Incarnazione» («Summa Theologiae», III, q. 1, a. 3).
Per la nuova teologia paolina, Cristo si era incarnato per redimere l’umanità peccatrice e donarle il dono dell'immortalità. “Vi sia dunque noto, fratelli, che per opera di lui (Cristo) vi viene annunziata la remissione dei peccati e che per lui chiunque crede riceve giustificazione (perdono) da tutto ciò da cui non fu possibile essere giustificati mediante le Legge di Mosè (Atti 13,38-39).Ma, associata all'immortalità c'è l'idea terrificante del giudizio di Dio al momento della morte per stabilire se, in base alla nostra condotta, meritiamo il premio o il castigo nell'aldilà eterno. Secondo Paolo, per il superamento positivo di questa prova e meritare la felicità eterna, il cristiano aveva l'obbligo di praticare, durante il suo soggiorno terreno, una vita virtuosa. Purtroppo, però, essendo la natura umana estremamente corrotta, a causa del peccato originale, ciò era estremamente difficile da raggiungere. L’universalità della corruzione umana è un punto focale della teoria paolina secondo cui gli uomini, sia ebrei che pagani, erano cattivi per natura, scellerati, schiavi del peccato, immersi fino al collo nella «sporcizia della lussuria», nelle «passioni nefande» (Efesini 2,3; Romani 6,17). Essi, infatti, sono «ricolmi di ogni ingiustizia, malvagità, cupidigia e malizia, pieni d’invidia, di istinti assassini, di discordia, di perfidia e abiezione; denigratori, calunniatori, nemici di Dio, gente violenta e altezzosa, millantatori, ingegnosi nel male, insensati, sleali, privi d’amore e di misericordia» (Romani 1,29 e sgg.). Una “summa” di empietà e di nequizie, quindi. Predicando il suo Vangelo tra i giudei della diaspora e i pagani, aveva maturato la disperata convinzione che l'umanità viveva in un mondo in cui operavano potenze demoniache che scatenavano nell'uomo follie, malvagità, violenze, sfrenata lussuria e infermità di ogni genere.


lunedì 25 settembre 2017

Peccato e redenzione n. 21

Paolo è veramente esistito?
È paradossale il fatto che i due presunti fondatori del Cristianesimo: Gesù e Paolo di Tarso, siano stati totalmente ignorati dagli storici loro contemporanei nonostante il clamore, quasi assordante, da essi sollevato negli scritti del Nuovo Testamento. Sul silenzio tombale riguardante Gesù abbiamo già parlato in precedenza. Ora metteremo in risalto l'altrettanto tombale silenzio riferito all'esistenza storica di Paolo. Infatti, nessun documento storico di fonte non cristiana parla di lui e noi lo conosciamo soltanto attraverso le sue Lettere e gli Atti degli Apostoli.
È molto significativo il fatto che di lui non venga fatta menzione non solo dagli storici ebrei suoi contemporanei, come Giuseppe Flavio, Filone Alessandrino e Giusto di Tiberiade, ma neppure nelle Lettere apostoliche riferite a Giuda, Giacomo il Minore e Giovanni, i quali, in base agli Atti, lo avrebbero frequentato. Solo la Seconda Lettera di Pietro ne parla esplicitamente, ma questa lettera è universalmente ritenuta un falso, e la stessa CEI, nella versione della Bibbia del 1989, la riconosce come tale. Paolo,inoltre, è totalmente ignorato anche dai primi apologeti e scrittori cristiani, come Giustino, morto a Roma nel 165, che attribuisce la conversione dei pagani esclusivamente ai dodici Apostoli (Apologia I,39-45), e Papia, vescovo di Geropoli (Asia Minore), vissuto nella prima metà del II secolo, che scrisse un'apologia sulle “Sentenze del Signore.” Anche altri Padri della Chiesa lo ignorano come Ireneo e Tertulliano.
Noi lo conosciamo soltanto per mezzo delle quattordici Lettere che gli sono attribuite ma che molti studiosi oggi ritengono solo in parte attendibili. Infatti, in base ad uno studio esegetico dei concetti espressi in esse, alle ricerche filologiche e storiche e di confronto eseguite dalla scuola di Tubinga, e ad un'analisi elettronica eseguita sul vocabolario dei testi, sono soltanto quattro le Lettere di sicura attribuzione: la Lettera ai Romani, quella ai Galati, e le due ai Corinzi (Josif Kryevelev, Analisi storico critica della Bibbia, Edizioni Lingue Estere, Mosca, 1949).
Le quattro di cui si parla risultano a loro volta così manipolate e contraffate, che alcuni esegeti, come M. Goguel (L'apotre Paul et Jèsus Christ, Libraire Fishbacher, Paris, 1904), giungono ad affermare che le due lettere ai Corinzi sono un assemblaggio di sei altre Lettere mal ricucite, e che la Lettera ai Romani presenta ben cinque finali. Considerando tutto ciò è possibile ipotizzare, come vedremo più avanti, che le 14 Lettere a lui attribuite siano state in realtà scritte da più mani, ma forse sotto un'unica regia, allo scopo di diffondere l'istituzione dell'eucaristia e della redenzione nel mondo cristiano che stava nascendo.
Esse vennero diffuse nelle Province dell'Impero nel III secolo e influenzarono i Vangeli che scaturiranno dal Concilio di Nicea del 325. La dottrina in esse contenuta collimava in molti punti coi culti pagani misterici, diffusi in Occidente già alcuni secoli prima del Cristianesimo che ponevano l'immortalità a base della loro dottrina e la associavano alla redenzione di un Dio che si incarnava in una vergine mortale per redimere l'umanità dalle sue colpe e renderla degna di una vita eterna e beata in un mondo utopistico, collocato nell'aldilà.
A fondamento della teoria paolina, quindi, c'è la credenza dell'immortalità dell'anima, divenuta per Paolo la colonna portante della nuova religione che stava nascendo. Questa era molto diffusa tra i pagani seguaci delle Religioni Misteriche, ma totalmente ignorata dagli ebrei.


venerdì 22 settembre 2017

Peccato e redenzione n. 20

l Cristianesimo ellenistico-pagano.
ll Cristianesimo ellenistico-pagano, fondato da Paolo, si configurò, come un filone eretico del vecchio ebraismo, e finalizzato alla creazione di una nuova religione. Infatti, Paolo inviterà i suoi seguaci a rifiutare la Legge mosaica, la frequentazione del Tempio e la circoncisione, e quindi a rinnegare, di fatto, l'ebraismo, e tenderà a diffondere il suo Cristianesimo personale non tanto tra i suoi correligionari ebrei quanto tra i Gentili, cioè tra i pagani.

Quali erano le aspettative di Paolo? In un primo tempo, come i cristiano-giudei, cui inizialmente aderì, anch'egli attese spasmodicamente l'imminente ritorno di Gesù risorto e la costituzione del Regno di Dio in Terra.. Poi, quando questa aspettativa andò delusa e i suoi seguaci entrarono in crisi, per salvare il suo Cristianesimo, gettò l'ebraismo alle ortiche, abbracciò l'ideologia delle Religioni Misteriche, assimilata da giovane a Tarso, sua città natale, che ipotizzava l'immortalità dell'anima, rimandò il ritorno di Gesù al Giorno del Giudizio Universale e, dopo aver riesumato il peccato originale di Adamo, trasformò il Messia crocifisso nel Redentore dell'intera umanità. Il nuovo Regno di Dio, non più terreno ma celeste, avrebbe riguardato l'aldilà, dove le anime immortali sarebbero vissute in una eterna beatitudine. Insomma, inventò il nucleo fondamentale che costituisce il Cristianesimo attuale. La sua nuova teologia fu sconfessato dalla Chiesa di Gerusalemme, rimasta sempre ligia all'ebraismo. Per alcuni decenni i due cristianesimi convissero tra contrasti più o meno palesi. Le Guerre Giudaiche del 70 e del 135, che portarono alla distruzione di Gerusalemme e della Palestina e alla totale diaspora degli israeliti sopravvissuti, segnò la fine definitiva del Cristianesimo giudaico. Quello di Paolo, invece, rimasto unico vincente, si diffuse rapidamente in gran parte dell'Impero romano tra i pagani e diede origine alla nuova religione. 

lunedì 18 settembre 2017

Peccato e redenzione n19

Questa era la situazione quando Gesù si presentò sulla scena politico-religiosa del suo tempo tentando di far sue le istanze degli zeloti e degli esseni. Egli, infatti, inizia il suo ministero con parole di chiaro accento apocalittico: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è imminente” (Marco 1,15); e più oltre, “quando anche voi vedrete queste cose accadere, sappiate che è vicino, è alle porte. In verità vi dico, non passerà questa generazione prima che tutte queste cose si compiano” (Marco 13,29-30).
ll tema ricorrente della predicazione di Gesù, la cosiddetta Buona Novella, era dunque la fervida attesa dell'imminente Regno di Dio per opera del Messia davidico, aiutato dalle schiere celesti inviate da Jahvé. Il giorno del suo arrivo sarebbe giunto improvviso e inaspettato. Secondo questa utopia, la fine del vecchio ordine avrebbe comportato apocalittici sconvolgimenti, ma, dopo un periodo di transizione, i superstiti avrebbero conosciuto una nuova era di pace, di giustizia, di uguaglianza e fratellanza universale.
Il Regno di Dio, nel suo significato originale ebraico, era immaginato come una comunità costituita su questa Terra, guidata da Dio o dal suo inviato, l’Unto del Signore, cioè il Mashìach, il Messia, un discendente di David. Quindi era ritenuto un regno concreto, terreno e politico, ancorché teocratico e misticamente sacralizzato. Un regno in cui sarebbe stata bandita l’arroganza della ricchezza e avrebbe trionfato l’uguaglianza, la giustizia sociale e l’amore fraterno. In questo regno puramente terrestre Gesù promette agli Apostoli i 12 troni per il governo delle 12 tribù di Israele. In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell'uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d'Israele” (Matteo 19.28). Nessun cenno quindi è mai uscito dalla bocca di Gesù per annunciare la redenzione spirituale dell'intera umanità ma soltanto il proposito di creare un regno di Dio terrestre a vantaggio del suo popolo prima e dell'intero pianeta dopo.


venerdì 15 settembre 2017

Peccato e redenzione n. 18

Le due fasi del cristianesimo.
A causa delle origini del Cristianesimo poco attendibili e piuttosto contraddittorie pochi credenti sanno oggi che esso si è sviluppato in due tronconi, molto diversi l'uno dall'altro. Il primo, che possiamo chiamare giudeo-cristiano, ha avuto origine dagli Apostoli guidati da Giacomo, fratello di Gesù; il secondo, che possiamo chiamare ellenistico-pagano, è stato una creazione personale di Paolo di Tarso, il san Paolo della Chiesa. Il Cristianesimo giudaico, nella sua breve esistenza, è rimasto sempre ligio all'ebraismo più ortodosso e ha praticato, con straordinario zelo, tutte le pratiche del giudaismo rituale: la frequentazione quotidiana del Tempio, la partecipazione ai sacrifici, l'osservanza delle festività e della Legge ebraica. Per esso il Cristianesimo non era una nuova religione contrapposta all'ebraismo, ma un suo completamento e riguardava soltanto gli ebrei della Palestina e quelli della diaspora che si erano sparsi nelle molte contrade dell'Impero romano. Tutti gli altri popoli, che adoravano gli dei pagani, erano esclusi perché l'etica biblica, ed anche quella evangelica, erano settarie e ostili nei loro confronti. Non dimentichiamo che gli ebrei si considerano il popolo eletto, l'unico in cui scorreva sangue divino, e che Mosè, su preciso comando di Jahvè, aveva condannato a morte e sterminio tutti gli infedeli.
La Parusia, cioè la nascita del Cristianesimo giudaico, ignorava il peccato originale e non preconizzava la Redenzione.
Le aspettative del Cristianesimo giudaico erano incentrate sulla Parusia, cioè sulla credenza che Gesù, dopo la sua risurrezione, sarebbe tornato quasi subito dal cielo, in carne e ossa, per creare il Regno di Dio in Terra, come avevano annunciato i profeti, e che avrebbe dato inizio ad un lungo periodo di pace e di armonia per Israele prima e per il resto del mondo poi.
Al tempo di Gesù gli ebrei, che avevano sofferto un lungo periodo di dominazione sotto gli assiri, i babilonesi, i persiani e i greci, e che dal 62 a.C. erano stati sottoposti al dominio romano, accusavano la decadenza dei costumi e il degrado socio-politico e religioso. Per reazione a questa situazione di diffuso malessere, si erano radicate in tutte le classi sociali le aspettative messianiche, che possiamo riassumere nell'utopica, ossessiva e delirante credenza che Dio avrebbe mandato un uomo a ristabilire la giustizia sociale, l'osservanza della Legge e l'indipendenza del Paese. Quest'uomo prescelto, di discendenza davidica, sarebbe stato il Messia (in ebraico Mashià, in greco Christòs), preannunciato dai profeti.
Messia allora significava l'Unto dal Signore, secondo l'antica cerimonia di investitura regale che prevedeva l'unzione sulla fronte con olio profumato del futuro re d'Israele. Vedremo che in seguito questo termine, con l'evoluzione del cristianesimo, perderà il suo significato originario per assumere quello attuale di Figlio di Dio. A causa del degrado politico in cui era caduta la Palestina sotto i romani, l'aspettativa messianica dell'avvento imminente del Regno di Dio, che avrebbe dato inizio ad un periodo di giustizia, di uguaglianza, di benessere e di pace in Israele, era sempre più sentita dalla maggioranza della popolazione e trovava negli zeloti e negli esseni, che impersonavano la lotta armata clandestina contro i romani, i più decisi sostenitori. Mentre i primi, contando sull'aiuto delle schiere angeliche di Jahvè, perseguivano il messianismo come sola lotta armata, come aperta ribellione ai romani, da attuare con efferata ferocia e determinazione, i secondi associavano alla lotta armata l'esigenza di ripristinare, come mezzo per prepararsi spiritualmente a questo grande evento e rendersene degni, lo spirito autentico della fede dei padri, vivendo in preghiera e in penitenza, seguendo una morale rigorista, abbracciando una lieta povertà, rinunciando a ogni proprietà personale e chiamandosi “fratello” l'uno l'altro.


lunedì 11 settembre 2017

Peccato e redenzione n.17

La Chiesa, obtorto collo, è costretta oggi a riconoscere come falsi i versetti sulla resurrezione nell'odierno Vangelo di Marco, dicendo "la conclusione di Marco è dichiaratamente non genuina ... quasi l'intera sezione è una compilazione successiva" (Encyclopaedia Biblica, vol. II, p. 1880, vol. III pp. 1767).
Sulla scia del Vangelo di Marco tutti gli altri testi evangelici sono stati profondamente alterati. Ma quello più annacquato, con l'aggiunta di circa diecimila parole rispetto al testo sinaitico originale è il Vangelo di Luca. Solo nel XV secolo subì una straordinaria aggiunta di circa 8500 parole (Luca 9:51-18:14). La finale di questo Vangelo, con solo sette parole aggiunte: "e Gesù fu trasportato su in cielo", determina una falsificazione chiaramente intenzionata ad introdurre surrettiziamente l'ascensione di Gesù. Quindi, i Vangeli odierni, rispetto al Codice Sinaitico, sono zeppi di falsità e manipolazioni e continuano ad aggiungerne anche ai nostri giorni.
A mettere in discussione la validità del Cristianesimo, oltre alla nulla attendibilità storica dei documenti del Nuovo Testamento, che, come abbiamo visto, hanno anche subito profonde alterazione nel corso dei secoli, ci sono anche le forti perplessità sulla reale esistenza di Gesù, ritenuto il suo fondatore, per il fatto incredibile che dei circa quaranta storici a lui contemporanei, nessuno lo menzionò nelle sue opere, nonostante lo scalpore che, secondo i Vangeli, egli suscitò in Galilea e a Gerusalemme. Il silenzio tombale su di lui riguarda non solo i massimi storici greci e latini, come Seneca, Plinio il Vecchio, Svetonio, Tacito, tanto per citarne alcuni, quanto perfino i tre massimi storici ebrei che narrano, fin nei minimi dettagli, gli avvenimenti della Palestina da Erode il Grande alla caduta di Gerusalemme.
Mi riferisco a Filone Alessandrino di cui possediamo circa cinquanta opere nelle quali parla diffusamente delle sette giudaiche, in particolar modo degli esseni, e menziona perfino Pilato, ma ignora totalmente Gesù e i primi cristiani, pur essendo vissuto fino agli anni 50; a Giusto di Tiberiade, che visse a Cafarnao in contemporanea di Gesù, quasi gomito a gomito con lui, e che narrò la storia di Israele fino ai suoi giorni senza mai nominare Gesù; infine, a Giuseppe Flavio, considerato il massimo storico ebraico che narrò gli avvenimenti della Palestina fino alla guerra giudaica del 70.



venerdì 8 settembre 2017

Peccato e redenzione n. 16

Il Nuovo Testamento e la nascita del mito della Redenzione. Le fonti del Nuovo Testamento
Trattando la la mitica origine del peccato originale inventato dai Sumeri e inserito nella Bibbia nel VI secolo a.C. durante l'esilio babilonese, abbiamo chiarito che questa colpa primigenia determinava per il popolo ebreo soltanto punizioni terrestri in quanto ogni anima umana cessava di vivere con la morte e ritornava nel nulla assoluto non avendo il dono dell'immortalità. Quindi l'Antico Testamento escludeva la necessità di una redenzione divina che riscattasse l'anima dal peccato di Adamo e la portasse alla felicità eterna, come invece proclamerà il cristianesimo derivato in parte dal vecchio ebraismo. Ma sarà solo il cristianesimo ellenistico-pagano di Paolo (non quello giudaico dei cosiddetti apostoli), che, con l'invenzione dell'immortalità dell'anima, trasformerà il concetto di peccato originale, ponendo la necessità di una redenzione divina.
Il cristianesimo, nato nel primo secolo della nostra era, si fonda su 27 documenti canonici che costituiscono il Nuovo Testamento, che unici ci raccontano la vita di Gesù, ritenuto il suo fondatore. Ma nessuno di questi 27 documenti ha una qualche valenza storica perché sono considerati dagli studiosi alla stregua di ingenue testimonianze della fede dei primi cristiani e in nessun caso dei documenti storici in senso stretto. Per di più essi hanno subito nel corso dei secoli, moltissime e macroscopiche manomissioni e aggiunte che hanno scalfito ancor più la loro attendibilità.
Se noi, infatti, compariamo i quattro vangeli canonici attuali con quelli che si trovano nel più antico e integro codice del Nuovo Testamento (Codice Sinaitico), rinvenuto nel monastero di Santa Caterina sul Monte Sinai nel 1859, datato al IV secolo, riusciamo ad evidenziare, in modo inconfutabile, le numerosissime falsificazioni intenzionali che sono state inserite, durante i secoli, in tutti i Nuovi Testamenti oggi in circolazione, con grande imbarazzo della Chiesa, unica responsabile di tali falsificazioni. Ma l'assurdo è che l'imbarazzo della Chiesa non dipende tanto dalle sue numerosissime false aggiunte, messe in luce da questo codice, quanto ancor più per le molteplici, eclatanti omissioni riscontrate in esso rispetto ai fondamenti del Cristianesimo. L'omissione più straordinaria è quella che riguarda la dottrina centrale della fede cristiana: la resurrezione, le apparizione di Gesù Cristo risorto e la sua ascensione in cielo che non sono riportate nel Vangelo di Marco, il più antico dei quattro e utilizzato come fonte dagli altri due Vangeli sinottici di Matteo e Luca. Nelle versioni odierne di questo Vangelo tutto quanto concerne la resurrezione viene raccontato con l'aggiunta di oltre 500 parole totalmente inventate (16:9-20) e conosciute come la Finale lunga di Marco.



lunedì 4 settembre 2017

Peccato e redenzione n.15

Benefici materiali e terreni, quindi, quali la sopravvivenza nella prosperità e nell'abbondanza, il costante incremento demografico e il dominio sulle altre nazioni, questo era il premio per le virtù concesse al popolo ebraico. Disobbedendo alle leggi del suo Dio, invece, cioè commettendo il peccato, Israele credeva di essere destinato a perire. Il patto stipulato tra Jahvè e il suo popolo riguardava soltanto la vita terrena e non contemplava minimamente quella spirituale o celeste perché la morte segnava l'annullamento dell'individuo e la fine di ogni rapporto col suo Dio. Tutta la vita di Israele era condizionata dall'osservanza della Legge ritenuta garanzia della sua sopravvivenza .
Questa legge regolava tutti gli aspetti della vita quotidiana, anche quelli sociali e familiari, e imponeva la difesa dei deboli e degli oppressi. Le sue preoccupazioni umanitarie comprendevano, ad esempio, la remissione dei debiti ogni sette anni, le leggi antiusura, il porre un limite alla schiavitù e, a questo proposito, veniva ricordato al popolo ebraico come fosse stato esso stesso un tempo schiavo e straniero (Deuteronomio, 15, 20 e 23). Anche i salariati, gli orfani, le vedove e gli indigenti erano trattati con grande umanità. Perfino gli animali domestici venivano tutelati da maltrattamenti e da sfruttamenti iniqui: al bue non si poteva mettere la museruola quando trebbiava (Deuteronomio 25,4). La Legge, tutelando i diritti umani e la dignità della persona, dava un esempio senza precedenti di attenzione per i deboli e gli indifesi e contemplava norme morali finalizzate al benessere sociale. La festività del sabato, ad esempio, possiamo considerarla la prima conquista sindacale della storia, mediante l'artificio del riposo consacrato alle fatiche del Signore.
Ma nella Bibbia, accanto ai dettami della Legge connotati da alta umanità e socialità, troviamo anche molti comandi di Jahvè che consentono al suo popolo di commettere i delitti e le perversioni più efferati, come lo stupro, l'infanticidio, il feticidio, l'incesto, la legittimità della schiavitù, la condanna a morte, la guerra civile e religiosa, la sottomissione della donna, la morale della maledizione, la lapidazione e molti altri delitti. Essi inoltre consentono la poligamia (il leggendario re Salomone aveva un harem con centinaia di mogli e concubine), il concubinaggio con schiave e con prigioniere di guerra, il rapporto sessuale con le prostitute e l'assegnazione ai figli celibi di una schiava «per coito», subito dopo il raggiungimento della pubertà e in attesa del matrimonio. (Ma, d’altra parte, ordina di punire con la morte, mediate lapidazione, ogni rapporto extraconiugale della donna).
Nei riguardi degli altri popoli poi Jahvè si rivela un Dio crudele, sanguinario, vendicativo, estremamente malvagio che esige lo sterminio di intere popolazioni, ree di essere incirconcise o nemiche di Israele; la distruzione degli altari e delle statue delle altre religioni; le più efferate crudeltà contro i nemici vinti. Infatti durante la conquista della Terra Promessa, è proprio Jahvè che ordina a Giosuè, successore di Mosè, di attuare i massacri più crudeli contro i nemici e di sterminare, senza pietà: donne, vecchi e bambini. Questo per dimostrare le enormi contraddizioni che si trovano in questo testo antico ritenuto, ancor oggi, da milioni di americani, autentica parola di Dio.

Il massimo peccato che il popolo ebraico poteva commettere e che Jahvè, secondo la Bibbia, avrebbe punito con carestie, malattie, sconfitta politica, resa in schiavitù e perfino distruzione dell'intero popolo, era quello di adorare altri dèi oltre Jahvè. Era un peccato gravissimo nel quale Israele cadeva spesso e i profeti non si stancavano di ripetere che tutte le sciagure che accadevano continuamente al loro popolo erano la giusta punizione divina per il peccato di idolatria. Una colossale fandonia perché gli eventi storici ci dimostrano che Israele ha sofferto i momenti più dolorosi e drammatici della sua storia proprio quando, in seguito alla riforma di re Giosia, aveva raggiunto il massimo rigore religioso. Infatti, all'apice della raggiunta religiosità perché l'intero popolo ebraico si era perfettamente uniformato ai precetti divini osservando con grande zelo tute le leggi della Torah e re Giosia aveva la certezza che finalmente Israele poteva meritare la più completa protezione di Jahvè, proprio allora gli è sopraggiunta la più immane delle catastrofi, cioè l'annientamento della nazione ebraica e la schiavitù a Babilonia con la conseguente perdita di ogni libertà politica. Evidentemente il Dio biblico era soltanto un inetto totem tribale. 

venerdì 1 settembre 2017

Peccato e Redenzione n.14


Com'era visto il peccato originale nel Vecchio Testamento 

Secondo la favola sumerica, che abbiamo fin qui esaminato, tutti i mali che affliggono l'umanità e il nostro martoriato pianeta hanno avuto origine dalla disobbedienza del primo uomo Adamo ad un comando divino. Abbiamo dimostrato come la logica del padre amoroso che crea gli uomini per renderli partecipi della sua gloria e della sua beatitudine sia incompatibile con la logica della prova cui Dio ha voluto sottoporli (ben sapendo per onniscienza del fallimento della stessa) ed ancor più con l'assurda punizione che questa ha comportato per Adamo e tutti i suoi discendenti. Quindi il peccato, così è stata chiamata la colpa di Adamo, secondo la leggenda biblica, è per l'uomo la fonte unica e suprema di ogni male che riguarda la vita terrena.
Ma esso come viene inteso nella Bibbia antica, conosciuta come Vecchio Testamento? In modo diametralmente opposto da come lo concepiamo noi cristiani. Il cristianesimo, essendo stato fondato da San Paolo che era ebreo, è stato fatto discendere dall'ebraismo dal quale ha ereditato la Bibbia e Jahvè (o Geova) il Dio ebraico. Ma con questa religione non ha quasi più niente in comune, come vedremo in seguito, perché rispetto ad essa ha subito una trasformazione radicale e irreversibile.
Ebraismo e cristianesimo sono concordi nel ritenere che la colpa di Adamo ha degradato l'uomo da essere quasi divino ad essere mortale, sottoposto a tutti i mali e alla morte. Ma per l'Antico Testamento le sofferenze e la morte riguardavano esclusivamente la vita terrena dell'uomo, finita la quale tutto cessava. Non c'era, cioè, un aldilà dove la parte spirituale dell'uomo avrebbe continuato a vivere in un paradiso, se buona, o nell'inferno, se malvagia. Nella Bibbia ebraica o Vecchio Testamento, considerata parola di Dio, è scritto: «La sorte degli uomini e delle bestie è la stessa, come muoiono queste muoiono quelli. C’è un soffio vitale per tutti: non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità» (Qoèlet 3,19). Con la morte, quindi, secondo il teologo biblico, tutto finisce, sia l'anima sia il corpo, perché tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere.
Infatti i Sadducei, cioè l’alto clero del Tempio di Gerusalemme detentore dell'ortodossia ebraica, sostenevano che Mosè non aveva mai parlato né dell'immortalità dell'anima, né della "resurrezione dei morti", e non credevano nella perpetuazione dell'individuo dopo la morte, in corpo e spirito. Quindi, per loro, non esisteva un aldilà dove le anime sarebbero state punite con l'inferno o premiate col paradiso. Quindi escludevano totalmente la necessità di una redenzione anche perché ignoravano che Jahvè avesse un figlio da sacrificare per redimere l'umanità peccatrice. Ma allora per un ebreo in che cosa consisteva il peccato e quali conseguenze comportava?
Il peccato consisteva nella violazione di una o più delle seicentotredici leggi contenute nella Torah, il libro della Legge attribuito a Mosè e ritenuto dagli ebrei scritto su dettatura divina, e la punizione, in caso di gravi violazioni, soprattutto per il peccato di idolatria, consisteva nella perdita della protezione di Javhè e nel sopraggiungere di calamità di ogni genere.
Jahvè, infatti, nella Bibbia promette al suo popolo che solo obbedendo alla sua Legge avrebbe ottenuto da lui la protezione per crescere in potenza politica e prosperità economica. Viceversa, disobbedendo alla Legge, cioè commettendo il peccato, sarebbe stato punito con la schiavitù, le carestie e le pestilenze. "Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore tuo Dio ti benedica nel paese che tu stai per entrare a prendere in possesso. Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti davanti ad altri dèi e a servirli, io vi dichiaro oggi che certo perirete" (Deuteronomio 30,15/18).

  

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Informazioni personali

Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)