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domenica 2 dicembre 2012

In nomine Domini 41


Al calar delle tenebre, mentre tutta Roma, avvolta nel buio, era rintanata nelle case con porte e scuri sprangati per proteggersi dalle scorrerie delle bande dei razziatori, il giovane papa, seguito da una piccola ma agguerrita scorta, uscì a cavallo dal Laterano per recarsi all'incontro amoroso nel palazzo sul Quirinale. Era avvolto in un ampio mantello nero e in testa portava un cappuccio che ne rendeva irriconoscibile il volto. Giunto nei pressi del palazzo smontò da cavallo e mentre s'avviava ad una porticina secondaria dell'ingresso, com'era stato convenuto con la servitù, osservò, nonostante le tenebre ormai fitte, che numerose guardie mimetizzate controllavano la via e gli accessi della casa. Si rese conto che Cassio aveva dispiegato la massima cura per evitargli sorpreso indesiderate e ciò lo rassicurò.
Al lieve bussare della porta, questa si socchiuse appena. Il papa e le due guardie che lo accompagnavano entrarono guardinghe e intravidero, alla fiocca luce di un lume ad olio, una vecchia serva che li salutò con un cenno del capo. La casa, riccamente arredata, sembrava deserta. Con un gesto della mano la vecchia indicò l'ampia scala, illuminata da alcune torce, che portava al piano superiore. Una gran sala s'apriva in cima ad essa, adornata da preziose suppellettili e da comode poltrone. Era ben illuminata e aveva una porta socchiusa. Al lieve scalpiccio dei passi, questa s'aprì completamente e sulla soglia si mostrò Stefanetta, avvolta in un'ampia vestaglia rossa.
Nella luce soffusa della stanza apparve splendida e bellissima. Il papa ebbe un tuffo al cuore: mai aveva visto una creatura così superba e maestosa. Accennò alle due guardie di attenderlo nella sala ed entrò deciso nella stanza, illuminata da piccole lampade alle pareti. Appena la porta si rinchiuse alle loro spalle, la giovane tolse al papa il cappuccio che gli nascondeva il viso, afferrò le sue mani e senza proferire parola, con dolcezza lo strinse a sé e lo baciò teneramente. Quindi gli tolse l'ampio mantello e rimirando stupita la sua festosa veste da giullare esclamò giuliva: "Santità, siete splendido!"
"Non chiamarmi così, ti prego", rispose prontamente il papa. "Mi metti in imbarazzo. Chiamami soltanto Giovanni o se vuoi Ottaviano che è il mio nome di battesimo".
"Allora sarai il mio bellissimo Ottaviano!" fece lei sempre più amabile. E accennando all'alcova gli fece cenno di sedersi. Il papa aveva l'impressione di trovarsi al settimo cielo. Gli sembrava che quell'avventura amorosa fosse la prima della sua vita, tanto era intensa e fuori del comune.
"Prima di spogliarci per abbandonarci all'amplesso che segnerà il culmine del nostro piacere", fece lei dolcissima, "voglio che tu mi stringa fortemente a te per assaporare tutta la dolcezza dei tuoi baci", e fece per abbracciarlo. Ma lui la trattenne con grazia.
"Sarò lieto di abbandonarmi fra pochi istanti fra le tue braccia e ricoprirti di baci, ma prima voglio offrire un modesto omaggio alla tua divina bellezza e al tuo splendido amore", disse commosso. E dalla scarsella che portava alla cintola tolse un borsello di cuoio finemente ricamato
"Aprilo!", ordinò deciso.
Lei lo prese tra le mani e titubante lo aprì. Apparve la collana di smeraldi e lei stingendola incredula: "O Dio!", esclamò sgranando gli occhi per l'enorme meraviglia.
"Ora sarò lieto di stringerti a me in un appassionato abbraccio e di coprirti di baci", fece il papa afferrandola strettamente tra le sue braccia e riversandosi sul letto. Stefanetta allora, come vinta da un improvviso istinto amoroso, afferrò con le sue mani la testa del papa e la strinse con forza nel suo seno.
Fu in quel preciso istante, mentre il papa quasi soffocava in quell'abbraccio, che da un ripostiglio della camera, ove s'era nascosto e dal quale aveva seguito tutta la scena, Lucrezio uscì di soppiatto e col pugnale in mano vibrò, con estremo vigore, un colpo mortale sul dorso del papa, spaccandogli il cuore.
L'azione fu talmente rapida e improvvisa che il giovane papa non ebbe quasi modo di accorgersi di quanto gli stava succedendo.
"Non ha emesso che un debole lamento", sussurrò Stefanetta al cognato, quando lo vide estrarre il pugnale insanguinato "tanto lo stringevo fortemente al petto". E allontanò da sé il corpo del papa ancora caldo ma ormai privo di vita. "Penso che nessuno fuori si sia accorto di nulla".
"Priscilla è stata finalmente vendicata!", mormorò sottovoce Lucrezio, esprimendo coi gesti le sua immensa soddisfazione e abbracciando la cognata felice.
"Il piano è riuscito perfettamente", aggiunse. "Il mio rientro in casa, attraverso il tetto del palazzo vicino, non è stato notato dagli sgherri papali e il colpo che ho vibrato è stato preciso e mortale. D'altra parte tu sai con quanto impegno mi ero allenato col fantoccio di paglia che simulava il papa. Comunque, non abbiamo tempo da perdere. Su, gettiamo dalla finestra il cadavere nel giardino sottostante e diamoci alla fuga".
"E questa splendida collana?" fece lei mostrandogliela.
"Lasciala!" fece Lucrezio con ribrezzo.
Intanto sul letto si era sparsa una grossa macchia di sangue. Lucrezio aprì la finestra, che immetteva nel giardino sottostante, e con l'aiuto di Stefanetta trascinò lentamente e silenziosamente verso di essa il cadavere, poggiandolo alla fine sul davanzale. Quindi ne sollevò con grande sforzo le gambe e lo gettò nel vuoto. Un sordo tonfo risuonò al suo impatto al suolo.
Senza indugiare oltre scostò un armadio, dietro il quale si apriva una porticina che immetteva in un passaggio segreto, e presa per mano la cognata s'avviò con lei in un cunicolo lungo e stretto. Lo conoscevano così bene, essendosi esercitati più volte a percorrerlo nel buio, che procedettero sicuri fino al tetto. Lì trovarono una fune, fissata in un cornicione, che li guidò fino ad un'altana che si apriva nel palazzo vicino, abbandonato da tempo perché lesionato molti anni prima da un terremoto e mai ricostruito. Scesero al piano terra dove due famigli li attendevano coi cavalli pronti, e tutti e quattro si dileguarono nel buio della notte.
Intanto le due guardie rimaste a sorvegliare il salone stavano in attesa dell'uscita del papa dalla camera di Stefanetta. Per un certo periodo di tempo rimasero tranquille, sedute nelle poltrone del salone e di tanto in tanto una di esse scendeva nell'ingresso della casa, rimasto sempre socchiuso, e gettava un fischio convenuto al quale rispondeva un altro fischio delle guardie esterne per significare che tutto era tranquillo. Il silenzio che proveniva dalla camera, dopo un certo brusio iniziale, parve loro normale, trattandosi di un convegno amoroso.
Ma col passare delle ore cominciarono a provare una certa inquietudine. Li insospettì anche il fatto che non avvertivano alcuna presenza della servitù. Il palazzo sembrava completamente disabitato.
Una delle due guardie decise di sentire il parere di Manlio che coi suoi controllava l'esterno della casa. Scese in strada e scoprì che tutti erano allarmati per il ritardo del papa. Fu deciso di andare a chiamare Cassio. Una guardia partì a cavallo e in breve raggiunse il Laterano. Cassio non dormiva ma aspettava ansioso il ritorno del papa. Quando vide arrivare la guardia intuì che qualcosa di grave era successo e si precipitò al palazzo sul Quirinale. Giunto nel salone, rimase qualche minuto ad origliare, poi decise di bussare alla porta. Non ricevendo alcuna risposta, tentò di aprirla, ma s'avvide che era chiusa dall'interno. Capì che era successo l'irreparabile. Diede ordine alle guardie di scardinarla a spallate. Quando finalmente riuscì ad entrare nella camera, subito non seppe rendersi conto della sparizione del pontefice e della giovane ma poi, vista la grossa macchia di sangue nel letto e le tracce di sangue fino alla finestra, comprese ogni cosa. Dall'armadio scostato si rese conto del percorso seguito per la fuga. Intuì anche che tutta la faccenda sapeva di macchinazione, probabilmente architettata per effettuare una vendetta. Scese al piano terra con una torcia, entrò nel giardino retrostante: Giovanni XII giaceva al suolo col viso sfigurato dell'impatto ed era già irrigidito dalla morte. Mandò subito a prendere una carrozza per il trasporto del cadavere in Laterano e corse dal diacono Ascanio.

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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)