Sulla
"via crucis" non c'è accordo tra i quattro Vangeli. I tre
Sinottici ci dicono che Gesù era talmente provato dai maltrattamenti
subiti dai soldati da essere incapace di portare il "patibulum",
cioè l'asse sul quale doveva essere inchiodato. Fu necessario
ricorrere all'aiuto di un tal Simone di Cirene.
Il
quarto evangelista ci dice al contrario che fu Gesù a portare il
patibulum. Luca, sempre il più fantasioso degli evangelisti,
racconta che, strada facendo, Gesù si rivolse alle pie donne che lo
seguivano affrante, per profetizzare loro la fine di Gerusalemme e le
immani sciagure che avrebbero colpito Israele.
Questo
brano, conosciuto come "la piccola apocalisse" è una
"prophetia post eventum" (aggiunta cioè a posteriori) in
quanto allude chiaramente alla guerra combattuta nel 70 d.C. quando
l'esercito di Tito, figlio dell'imperatore Vespasiano, attuò la
distruzione di Gerusalemme. Una riconferma che i Vangeli cominciarono
ad essere scritti dopo quel terribile evento. Giunto sul Golgota,
Gesù fu spogliato e inchiodato alla croce, pena riservata ai ribelli
politici, assieme ad altri due che la tradizione ci tramanda come dei
ladroni, cioè dei mascalzoni comuni.
È
l'ennesima frottola. Il testo greco li definisce "
(dio lestas)" termine che Giuseppe Flavio usa per indicare gli
zeloti, cioè i ribelli politici (i terroristi d'oggi). Erano quindi
due correi rivoltosi, quasi sicuramente coinvolti in un atto di
guerriglia anti-romana, e quindi crocifissi per ribellione politica.
Probabilmente
erano i responsabili della sommossa e dell'omicidio raccontati dagli
evangelisti a proposito dell'arresto di Barabba. Il comportamento
verso Gesù di questi due ribelli crocifissi viene descritto in modo
contraddittorio da Marco e da Luca. Per Marco entrambi lo
insultarono. "E anche quelli che erano stati crocifissi con lui
lo insultavano" (Marco 15,32). Per Luca, invece, uno di essi
invitò sarcasticamente Gesù a salvare se stesso e loro, mentre
l'altro si raccomandò a lui quando fosse entrato nel suo regno (Luca
13,39-43). Come si vede, le contraddizioni sono continue tra gli
evangelisti.
A
questo punto i romani, su ordine di Pilato, appongono sulla croce di
Gesù il “titulum”, cioè la targa che doveva specificare il
motivo della sua condanna. Svetonio e Dione Cassio ci hanno
tramandato che il titulum era obbligatorio in ogni condanna a morte.
In quello posto sulle croce di Gesù era scritto in tre lingue:
aramaico, greco e latino (perché fosse alla portata di tutti):
"Questo è il re dei giudei"
(Luca 23,38). Prova
inconfutabile che Gesù veniva condannato per un reato esclusivamente
politico, confermata anche dalle frasi di scherno pronunciate dai
presenti all'indirizzo di Gesù morente: "Il re d'Israele scenda
ora dalla croce perché vediamo e crediamo" (Marco 15,32).
Prima
del sopraggiungere della morte, secondo Marco e Matteo, Gesù ebbe
un attimo di smarrimento e pronunciò il grido di terrore e
solitudine: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?"
(Marco 15,34), inconcepibile se Cristo fosse stato il Figlio di Dio
che s'immolava per la salvezza dell'umanità, ma chiarissimo per un
aspirante Messia che, avendo fermamente creduto nell'intervento di
Jahvè in suo aiuto, constatava con disperazione l'abbandono divino
e il fallimento della sua missione.
I
Sinottici raccontano che al momento della morte di Gesù accaddero
degli eventi soprannaturali, quali: eclissi, terremoti, frane,
resurrezioni e lo squarciamento nel Tempio del velo che nascondeva la
Sancta Sanctorum, Questi accadimenti straordinari furono
totalmente ignorati dai cronisti del tempo e rientrano quindi
chiaramente nella pura mitologia.
La
morte di Gesù fu molto rapida. Di solito i crocifissi, specie se di
costituzione robusta, potevano sopravvivere per molte ore e talora
anche per alcuni giorni, soffrendo un'atroce agonia. Ma Gesù, stando
ai Sinottici, già dopo poche ore dalla crocifissione era entrato in
deliquio e nel primo pomeriggio emise il suo ultimo respiro.
Ormai
si avvicinava la sera di quel venerdì, vigilia della Pasqua, e
bisognava affrettarsi a procedere alla deposizione perché la
solenne festività del giorno dopo non consentiva che fossero ancora
esposti i cadaveri dei suppliziati.
E,
a questo punto, troviamo l'ennesima conferma che Gesù era stato
giustiziato per aver tentato un complotto messianico.
Chi
infatti procedette alla sua deposizione e alla sua sepoltura non
furono gli apostoli, datisi ignominiosamente alla macchia, e nemmeno
i membri della sua famiglia (inspiegabilmente assenti), ad eccezione
della presunta consorte Maria di Magdala e della zia Maria Cleofe, ma
due importanti esponenti del sinedrio: Giuseppe d'Arimatea e
Nicodemo, che condividevano il suo ideale jahvista. Se Gesù fosse
stato condannato dal sinedrio per bestemmia, mai questi due
importanti personaggi, definiti capi dei Giudei, avrebbero potuto
prendersi cura del suo corpo e dargli sepoltura onorata, in un
sepolcro di loro proprietà. Sarebbero stati accusati di disprezzo
per il Tempio e di empietà
(W. Fricke, Il caso Gesù," Rusconi, Milano, 1988).
Il fatto che poterono prendersi cura del corpo di Gesù, senza
incorrere nella scomunica del sinedrio, cioè del tribunale
religioso, è la prova che Gesù non fu giustiziato per blasfemia
ma per ribellione armata. Con
l'aiuto delle tre Marie (tra le quali i Sinottici annoverano
Maddalena ma non la madre di Gesù) i due sinedriti provvidero alla
sepoltura del suppliziato in una tomba di proprietà di Giuseppe
d'Arimatea.
Secondo
i Sinottici Gesù fu deposto nella tomba avvolto in un lenzuolo
funebre (sindone); secondo Giovanni, invece, avvolto in bende intrise
di aromi. (Se Giovanni ha ragione allora la Sindone di Torino è un
falso conclamato).
Alle
prime ombre del crepuscolo di quel fatidico venerdì, il dramma
iniziato appena diciotto ore prima, era definitivamente concluso.
La rivolta, soffocata ancor prima di nascere, e il mancato intervento
delle schiere celesti di Jahvè, avevano fatto fallire l'ennesimo
tentativo messianico.
Il
disperato grido del Messia fallito, morente sulla croce: "Dio
mio, Dio mio perché mi hai abbandonato!" era la tragica
ammissione di una sconfitta irreparabile. Anche se Gesù, per il
fatto di essere stato crocifisso dall'oppressore Pilato, era per
l'opinione pubblica (esclusi i grandi sacerdoti e gli erodiani) un
patriota martire, per i suoi seguaci la sua crocifissione si
trasformò nella fine di ogni speranza. Si erano illusi di sedere
alla destra e alla sinistra del trono del nuovo re d'Israele e si
trovavano rintanati nei pressi della piscina di Siloe, tremanti
d'orrore e di paura perché complici di un criminale giustiziato.
Qui
finisce la vicenda terrena di Gesù, uno dei tanti Messia falliti che
il clima fanatico dell'epoca faceva nascere e tramontare con una
certa frequenza. Di lì a qualche decennio dalla sua morte, il
crescente e sempre più esasperato delirio messianico avrebbe
portato alla distruzione totale di Gerusalemme e alla cacciata di
tutti gli ebrei dalla Palestina, cioè alla fine dello Stato
d'Israele.
Nessun commento:
Posta un commento