I
Vangeli hanno alcune caratteristiche fondamentali che li accomunano.
Anzitutto sono tutti scritti in greco e almeno in un caso: il Vangelo
di Giovanni, in un greco sufficientemente colto. Ora sappiamo che gli
apostoli erano dei semplici popolani, quasi sicuramente analfabeti.
Lo deduciamo dai Vangeli stessi che spesso mettono in chiara luce la
loro pochezza nel comprendere le parole del Maestro. Infatti:
ottusità, meschinità e viltà dei discepoli sono sparse largamente
per tutti i quattro racconti. Queste considerazioni ci fanno intuire
che nessuno dei Dodici può essere considerato autore di uno di
questi Vangeli scritti in greco. C'è un altro fatto importante da
tener presente: la narrazione di gran parte degli avvenimenti
evangelici è spesso imprecisa e confusa riguardo ai luoghi, alle
usanze, alla terminologia e alle leggi giudaiche. Incongruenze
grossolane si riscontrano tra le diverse narrazioni, ma anche
all'interno della stessa. Il che fa presupporre che chi scriveva non
solo non avesse assistito ai fatti ma neppure conoscesse la geografia
e le usanze ebraiche, quindi non fosse nemmeno un ebreo (e tanto meno
un apostolo).
A
riprova di quanto detto possiamo osservare anche che, sia nei Vangeli
Sinottici, sia soprattutto in quello di Giovanni, si trovano
pregiudizi fortemente antisemiti, introdotti allo scopo di far
ricadere sul solo popolo ebraico l'infamia di aver assassinato il
Figlio di Dio e scagionare del tutto i romani, che furono invece i
veri responsabili della sua condanna. D.J.
Goldhagen (Una
questione morale. La Chiesa cattolica e l'olocausto,
Mondadori, Milano, 2003) ne
rileva una quarantina in Marco, ottanta in Matteo, centotrenta in
Giovanni, centoquaranta negli Atti degli Apostoli. Nel Vangelo di
Giovanni, Gesù stesso afferma che gli ebrei hanno «per padre il
diavolo» (Giovanni 8, 44).
Con
la storica frase di Matteo: "Pilato (…) presa dell'acqua, si
lavò le mani davanti la folla: "Non sono responsabile, disse,
di questo sangue; vedetevela voi!" E tutto il popolo rispose:
"Il suo sangue ricada sopra di noi e i nostri figli"
(Matteo 27, 24-25), ha avuto inizio l'antisemitismo che ha
trasformato i figli d'Abramo in una genia di perfidi deicidi,
perseguitati e sterminati fino a pochi decenni or sono nel mondo
cristiano.
Quale ebreo
avrebbe scritto cose simili! Solo dei gentili potevano averlo fatto.
Ultima
considerazione importante: i Vangeli danno la netta sensazione di non
rivolgersi agli ebrei ma ai pagani. Anche in questo caso basti come
esemplificazione l'istituzione dell'eucaristia, che, come abbiamo
visto nei capitoli precedenti, fu inventata da Paolo adottando un
rito misterico, molto diffuso e praticato nei culti pagani teofagici,
ma orrendamente sacrilego e blasfemo per gli ebrei.
Passiamo
ora in rassegna, brevemente, i quattro Vangeli canonici precisando
che gli aspetti più importanti del Nuovo Testamento sono contenuti
nei Sinottici, cioè
derivano dagli evangelisti Marco, Matteo e Luca, cui dobbiamo le
conoscenze fondamentali
intorno alla figura di Gesù.
Cominciamo
col Vangelo di Marco
ritenuto il più
antico dei quattro. Il suo autore non è, come
narra la tradizione patristica, un seguace dell'apostolo Pietro o suo
figlio di nome Marco, ma un discepolo di Paolo appartenente alla
comunità cristiano-ellenistica di Efeso. Forse
è quel discepolo anonimo di cui Paolo parla nella Seconda Lettera
ai Corinzi. "Con lui (altro discepolo anonimo) abbiamo inviato
pure il fratello che ha lode in tutte le Chiese a motivo del Vangelo"
(2 Corinzi 8,18).
Il
fratello lodato a motivo del Vangelo era probabilmente Onesiforo,
un discepolo giudeo che durante la prigionia dell'apostolo ad Efeso
lo assistette assiduamente e con lui trascorse gran parte del tempo.
Dal punto di vista linguistico sembra la traduzione in greco di un
Vangelo preesistente scritto in lingua ebraica. Alcuni studiosi
ipotizzano che Marco abbia attinto, a sua volta, dal primitivo
Vangelo degli Ebrei, distrutto dalla Chiesa, e di cui abbiamo
conoscenza dalle confutazioni degli antichi Padri, citate sopra.
La
Chiesa considera tuttora il Vangelo di Marco un semplice estratto del
Vangelo di Matteo, ritenuto il più antico. Ma già nel 1835 il
filologo Karl Lachmann sostenne la priorità di Marco e la sua
utilizzazione da parte di Luca e di Matteo. Tesi oggi universalmente
ritenuta valida. Marco, quindi, il cui Vangelo è composto di 661
versetti, fu la fonte di Matteo e di Luca. Il Vangelo di Matteo (1068
versetti) ne attinge da Marco 620 e quello di Luca (1149 versetti)
350. Le concordanze dei tre Vangeli Sinottici derivano, dunque,
dalla comune dipendenza da Marco. Infatti, essi presentano la
medesima successione di eventi e mostrano nelle espressioni
un’affinità, che spesso riguarda anche i dettagli più minuti.
In
questo Vangelo manca qualsiasi traccia di ricordo personale e Gesù
viene presentato come uomo, non subisce cioè la metamorfosi
semidivina comune agli altri due Sinottici o addirittura divina come
nel Vangelo di Giovanni e negli Apocrifi successivi.
Viene
chiamato undici volte «Maestro» e tre volte «Rabbi», mai però
viene concepito
preesistente e identico a Dio. L'attribuzione di questo Vangelo a
Marco è testimoniata, con scarsa attendibilità dalla patristica, e
accettata tuttora dalla Chiesa, secondo la quale Marco era un
collaboratore di Pietro, che lo predilesse tanto da chiamarlo “suo
figlio”.
Ma
Guy Fau
(La fable de Jèsus
Christ, Editions de
l'Union rationaliste, Paris, 1964)
ha osservato, molto acutamente, che questo evangelista, così
prediletto da Pietro, ignora il “tu es Petrus” che troviamo in
Matteo (16, 18-19), cioè non lo riconosce come capo della Chiesa.
Dimenticanza abnorme per un discepolo prediletto. È da notare che
sia nel Codex Vaticanus sia nel Codex Sinaiticus (entrambi del IV
secolo) Marco si arresta al 16,8 e quindi sono assenti gli eventi
post resurrezione, sicuramente aggiunti posteriormente.
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