La
deportazione a Babilonia
L'esilio
di gran parte degli abitanti del Regno di Giuda non durò
complessivamente molto: appena mezzo secolo, abbastanza però perché
i deportati assimilassero parte dei costumi locali e assorbissero
concetti e idee che appartenevano alla cultura orientale, caldea e
iranica.
Profondissima
risultò la crisi provocata dal crollo del paradigma regale davidico,
ritenuto eterno per promessa divina. Non pochi ebrei cominciarono a
dubitare della potenza di Jahvè e si rivolsero ai nuovi dèi
babilonesi, che erano un misto di superstizione e magia. Una parte
degli emigrati decise di farsi assimilare o di stabilirsi
definitivamente in Mesopotamia, abbandonando l'idea di tornare in
patria, anche perché Babilonia sembrava incommensurabilmente più
bella e fastosa della modesta Gerusalemme, e i templi del Dio Marduk
molto più imponenti e sontuosi del piccolo Tempio di Salomone.
Cominciò così la prima fase della diaspora ebraica. Ma la maggior
parte degli esiliati, vivendo in piccoli insediamenti chiusi,
poterono mantenere i loro riti religiosi e godere di una certa
autonomia e indipendenza e, soprattutto, mantenere vivo il ricordo e
la nostalgia della loro patria perduta.
Come
pegno per il ritorno decisero di riscuotere regolarmente la tassa per
il Tempio e di farla giungere a Gerusalemme. Allo scopo di
consolidare il più possibile il sentimento d'appartenenza al popolo
di Jahvè, e anche per accentuare la loro distinzione dagli altri
popoli, si imposero l'osservanza rigida del culto della Torah, cioè
della Legge mosaica restaurata da Giosia.
La
circoncisione, non praticata in Mesopotamia, fu applicata con rigore
e diventò il segno distintivo dell'appartenenza al popolo d'Israele
e del Patto dell'Alleanza con Jahvè. Non si era ebrei se non si era
circoncisi. L'osservanza del riposo del sabato, dei riti di
purificazione, delle norme alimentari e delle feste commemorative,
furono rigorosamente imposte, nonostante che la loro applicazione
richiedesse immensi sacrifici in una terra straniera di così diversi
costumi.
Durante
i cinquant'anni d'esilio i deportati, che erano in gran parte l'élite
d'Israele, rimasero fedeli alla riforma di Giosia e ripresero i
testi del Pentateuco e della Storia Deuteronomistica apportando
aggiunte e revisioni, per cui questi testi raggiunsero in sostanza la
loro forma finale. Geremia, nel suo libro descrisse la situazione in
Giuda durante l'esilio, mentre Ezechiele, esiliato, fornì
informazioni sulla vita e le speranze dei deportati ebrei a
Babilonia.
Oltre
che a rafforzare lo spirito dell'osservanza della Legge e del culto
di Jahvè, la lontananza dalla patria consentì agli esuli di
sentirsi uniti spiritualmente ed etnicamente e di alimentare, senza
cedimenti e incertezze, la speranza nel ritorno. Ma la superiore
cultura babilonese esercitò sugli esuli, nonostante vivessero in una
"enclave" spirituale ed etnica, un influsso di
incalcolabile portata che riguardò la concezione dell'origine del
mondo (con notevoli riflessi anche sulla Bibbia), il calendario
mesopotamico, la terminologia babilonese e, soprattutto, l'adozione
dell'aramaico - dopo l'avvento di Ciro - divenuto la lingua comune
dell'intera regione, e della sua scrittura con l'alfabeto quadrato in
uso ancora oggi in Israele in sostituzione di quello fenicio (Bernard
Comrie, The Major Languages of South Asia, The Middle East and
Africa).
Gli
esuli furono indotti a nuova speranza da due grandi profeti
dell'esilio: Ezechiele e Isaia Deuteronomio. Soprattutto il
Deuteroisaia – il secondo Isaia, rimasto anonimo – preannunciò
la liberazione e il ritorno dall'esilio alla stregua di un nuovo
esodo dall'Egitto, una nuova marcia attraverso il deserto verso
Gerusalemme per riedificare il Tempio, restaurare il regno di David
in un Israele unificato. Così, in un tempo di esilio, di ignominia e
spesso di disperazione, veniva posto il fondamento di una nuova
speranza.
Influì
molto sugli esuli israeliti la conquista di Babilonia da parte di
Ciro, imperatore di Persia, avvenuta nel 539 circa a.C. Coi persiani,
molto più colti ed evoluti dei babilonesi, il nazionalismo si
trasformò in universalismo e fu concessa la più ampia tolleranza
religiosa a tutti i popoli dell'impero. L'aramaico divenne lingua di
Stato e gli stessi ebrei, come abbiamo visto, l'adottarono come loro
lingua.
L'universalismo
politico dei persiani influì positivamente sul Secondo Isaia e lo
spinse ad elaborare un monoteismo universale, stando al quale il Dio
unico non poteva essere nazionale o tribale, riservato cioè ad un
solo popolo, ma esteso a tutti i popoli della Terra. Senza
l'influenza persiana il monoteismo ebraico sarebbe rimasto sempre
solo nazionale e tribale, e quindi riservato unicamente al popolo
ebreo. Purtroppo, il monoteismo universale di Isaia non ebbe gran
seguito in Israele e dopo l'infelice parentesi ellenistica e la
restaurazione politica dei Maccabei, ritornò il monoteismo
nazionalistico fautore del messianismo.
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