L'assalto
al Tempio avvenne obbedendo a due istanze molto sentite dagli esseni:
denunciare il degrado in cui era caduta la casa di Dio, ridotta a
spelonca di mercanti e di cambiavalute, a mattatoio crudele di
vittime innocenti (ricordiamo che durante la celebrazione delle feste
pasquali venivano immolati più di ventimila animali in un lezzo
nauseabondo di sangue e di incenso e che gli esseni disapprovavano i
sacrifici cruenti) e non più a luogo di devozione e di preghiera;
combattere il trionfo di Mammona (il dio denaro) che generava
cupidigia, avidità, brama di ricchezza, ed era la negazione della
vita semplice, umile e povera che predicava l'ascetismo esseno. Il
gesto risuonò come un attacco non solo contro Roma, che doveva
garantire l'ordine pubblico, quanto contro la gerarchia templare e
tutte le istituzioni religiose d'Israele e suonò sacrilego perfino
agli occhi di molti messianisti. Infatti, quel mercato non
rappresentava per gli ebrei dell'epoca alcunché di empio in quanto
era considerato il centro della vita economica della città e
indispensabile al funzionamento del Tempio. Era protetto da guardie,
sia giudee sia romane, armate pesantemente e la stessa guarnigione
romana era situata nella Torre Antonia, che lambiva il quadrato di
mura che circondava il sacro edificio.
Le
autorità del Tempio, timorose di ogni sommossa, e tutte le classi
alte della città e soprattutto gli erodiani, considerarono questi
due episodi una deliberata sfida alle autorità costituite e una
seria minaccia di insubordinazione. La festa imminente della pasqua
si annunciava particolarmente pericolosa e drammatica. Bisognava
correre ai ripari al più presto possibile e sedare la rivolta sul
nascere.
I
sinedriti si riunirono preoccupati e si dissero:
"Se (Gesù) lo
lasciamo fare, tutti crederanno in lui e verranno i Romani e
distruggeranno il nostro luogo santo e la nostra nazione. Ma uno di
loro, di nome Caifa, che era sommo sacerdote in quell'anno, disse
loro: «Voi non capite nulla e non considerate come sia meglio che
muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera»"
(Giovanni 11,47-50).
Il
destino di Gesù era segnato. La sua condanna era una condanna
politica, non religiosa. La presunta blasfemia non c'entrava per
niente, per essa c'era solo la lapidazione che il sinedrio era libero
di applicare in qualsiasi momento, a suo insindacabile giudizio e
senza il permesso dei romani.
A
giustificazione di Caifa va detto che il sommo sacerdote e i capi del
sinedrio dovevano rispondere di qualsiasi violazione dell'ordine
pubblico, e se non riuscivano a reprimere i disordini intervenivano
prontamente i romani con rappresaglie durissime. Di queste sotto
Ponzio Pilato ce ne furono di orribilmente crudeli, come vedremo in
seguito.
In
concomitanza a questi due importanti avvenimenti, ne avvenne un
altro, non pubblico ma privato, ciononostante pregno di pathos e
di intensi significati simbolici, conosciuto come l'unzione di
Betània. Anch'esso getta piena luce sulla messianicità di Gesù.
È
singolare il modo con cui viene raccontato dagli evangelisti.
Giovanni nomina esplicitamente il luogo e dà un nome ai personaggi
protagonisti dell'avvenimento; i Sinottici, invece, chiaramente
manipolati dal meccanismo di censura, più volte denunciato e usato
per mascherare o alterare personaggi ed eventi, lasciano tutto nel
vago.
L'episodio,
come ce lo racconta Giovanni nel suo Vangelo, possiamo riassumerlo
così. A Betania, nella casa di Lazzaro, durante un banchetto serale
servito da Marta, sorella di costui, per celebrare l'imminente
insurrezione programmata da Gesù e i suoi seguaci, Maria di Magdala,
altra sorella di Lazzaro (e presunta consorte di Gesù), si avvicina
al Maestro reggendo in mano un prezioso vasetto di alabastro
contenente una libbra di nardo, un costosissimo profumo del prezzo, a
quel tempo astronomico, di almeno 300 denari.
Di
fronte a tutti i presenti infrange il vaso e versa l'unguento
profumato sui piedi di Gesù (e secondo gli altri evangelisti anche
sulla testa), e lo asciuga coi suoi capelli. I commensali,
verosimilmente sbalorditi, esprimono disappunto per l'enorme spreco
e Giuda, non nascondendo la sua irritazione, abbandona la cena e si
reca dai sacerdoti per concordare il suo tradimento nei confronti del
Maestro. Questo è quanto ci dice Giovanni (Giovanni 12,1-11).
Prima
di parlare dello stravolgimento dell'episodio fatto dagli altri tre
evangelisti, cerchiamo di decodificarlo per capirne i reconditi
significati. Anzitutto, perché quel gesto così eclatante nei
confronti di Gesù da parte della Maddalena? Per amorosa devozione,
per passionale trasporto? Non solo per questo. Quel gesto in realtà,
come osservano molti studiosi, era una cerimonia d'unzione che
ufficializzava di fronte a tutti, nell'imminenza della rivolta, la
dignità messianica di Gesù, come figlio di David e re dei Giudei. E
il comportamento di Giuda? Irritazione e disappunto per l'enorme
spreco? Disgusto per il gesto plateale della Maddalena? Affatto.
Semplicemente: avvertire il Tempio e gli antimessianici che ormai la
rivolta era imminente, convinto com'era che fosse destinata ad un
tragico fallimento. I tre evangelisti sinottici, nel tentativo di
cancellare i riferimenti messianici di Gesù, il suo attaccamento a
Lazzaro e alle sue sorelle, e forse anche il fatto che Maria di
Magdala era sua consorte, collocano il banchetto in casa di un certo
Simone il lebbroso o Simone fariseo, e attribuiscono il gesto
dell'unzione ad una donna senza nome, considerata da Luca una
peccatrice del luogo. Lazzaro e le sue sorelle svaniscono nel nulla.
(Marco 14,3-9; Matteo 26,6-13; Luca 7,37-39).
Il
fatto che Lazzaro, così importante per il Vangelo giovanneo, venga
dagli altri tre Vangeli deliberatamente fatto sparire al punto da
ometterne anche la sua resurrezione, considerata uno dei più
eclatanti miracoli di Cristo, dimostra, al di sopra di ogni dubbio,
che i Sinottici hanno sottostato all'esigenza di censurare chi, come
Lazzaro, era un personaggio forse legato ai più intransigenti gruppi
del messianismo ebraico.
Il
fatto poi che Maria, sorella di Lazzaro, fosse nella realtà la
consorte di Gesù (a questo proposito ricordo che la legge Mishnaica
degli ebrei del tempo non lasciava spazio a dubbi: "un uomo
celibe non può essere Maestro"), ha contribuito ulteriormente,
in base alle esigenze teologiche paoline della divinità di Cristo, a
manipolare così grossolanamente gli avvenimenti e a far piazza
pulita della famiglia di Lazzaro.
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