Di
fronte alle proteste piuttosto dure di Paolo e Barnaba, gli apostoli
li convocarono a Gerusalemme per un chiarimento. L’esito
dell’incontro fu un armistizio precario: a predicare ai giudei
provvedeva la comunità di Gerusalemme, ai pagani invece Paolo che
otteneva per loro la dispensa provvisoria dalla Legge ma anche
l'obbligo di osservare un minimo rituale giudaico (Galati 2,10; Atti,
15,28 sgg.). Era sottinteso però, che gradualmente, frequentando le
sinagoghe, i cristiani ellenisti avrebbero abbracciato l'ebraismo e
si sarebbero sottoposti alla circoncisione.
Quando
poco dopo Pietro giunse ad Antiochia per una visita, il fragile
armistizio saltò e tra Pietro e Barnaba da una parte e Paolo
dall'altra scoppiò un contrasto sulle norme alimentari che si rivelò
subito insanabile.
Nello
scontro Pietro perse la faccia, in quanto accettò di sottostare
alle disposizioni impartite da Giacomo (il vero primo degli
apostoli), e Paolo si ritenne libero di dare regole e direttive
proprie ai suoi seguaci, considerandosi non più vincolato con
Gerusalemme.
Da
quel momento Paolo fu duramente osteggiato da tutti i
giudeo-cristiani che cominciarono a contestare il suo apostolato tra
i pagani e ad accusarlo di falsità e di ipocrisia e di predicare non
la parola di Gesù, ma se stesso.
I
rapporti con la Chiesa di Gerusalemme divennero da allora in poi
sempre più difficili, ma Paolo, obtorto collo, in un primo momento
dovette subirli. La sua autorevolezza era ancora troppo scarsa
rispetto a quella degli apostoli e soprattutto di Giacomo,
considerato la colonna della nuova Chiesa.
Ormai
sempre più convinto che il suo apostolato avrebbe incontrato
l'ostilità dei connazionali della diaspora, Paolo decise di
ripartire per una seconda missione in Asia Minore e in Grecia per
dedicarsi soprattutto ai pagani.
Ma
fece in modo di non portare con sé Barnaba perché, dopo l'accusa
d'ipocrisia che gli aveva rivolto durante lo scontro di Antiochia,
non si sentiva più in sintonia con il collega
Questo
rifiuto scatenò l'ira di Barnaba che, da allora, lo abbandonò
definitivamente e partì per un'altra missione assieme a Marco,
figlio di Pietro. In questo suo secondo viaggio, Paolo dovette
portare con sé Sila, inviato da Gerusalemme per stargli al fianco e
spiarlo. Non aveva ancora deciso di rompere definitivamente coi
cristiano-giudei; stava però già elaborando la sua nuova teologia,
senza farla trapelare per non insospettire Gerusalemme.
Forse
fu durante questo periodo di collaborazione con Sila che Paolo fece
redigere, sotto la sua supervisione, il testo evangelico da lui
usato per evangelizzare l'Asia Minore. Una copia di questo fu
probabilmente spedito alla comunità giudeo-cristiana di Roma,
quando alcuni ebrei (forse Prisca e Aquila), esiliati alcuni anni
prima per editto dell'imperatore Claudio e diventati seguaci di
Paolo a Corinto, poterono rientrare nella capitale dell'Impero.
A
proposito dell'editto di Claudio, appena accennato, vale la pena di
considerarlo con più attenzione perché potrebbe illuminarci sul
clima di tensione che esisteva tra i giudei della diaspora, rimasti
fedeli alla sinagoga, e i cristiano-giudei che si erano introdotti
tra di loro per propagandare la nuova dottrina della parusia.
Abbiamo
visto in precedenza che alcuni cristiano-giudei di Antiochia si erano
trasferiti a Roma e con la loro predicazione dell'imminente ritorno
di Gesù dal cielo per creare il nuovo Stato santo d'Israele, avevano
gettato scompiglio nella numerosa e piuttosto malvista comunità
ebraica. Secondo gli storici romani Tacito e Svetonio questa setta
cristiana era animata da odio non solo contro i romani ma addirittura
contro l'intero genere umano. A giustificazione di questo loro
giudizio, piuttosto pesante, va ricordato che i cristiani ebrei di
Roma erano fortemente imbevuti di messianismo e consideravano
imminente la distruzione dell'impero romano per opera di Jahvè.
A
riprova di ciò basti citare quanto scriveva allora Giovanni,
l'autore dell'Apocalisse, in quel suo libro profetico, considerato
rivelato dalla Chiesa Cattolica: "Ecco, (Cristo) viene sulle
nuvole e ognuno lo vedrà; quelli che lo trafissero (cioè i romani)
e tutte le nazioni della Terra si batteranno il petto per lui"
(Apocalisse 1,7). E prosegue definendo Roma come la grande
Babilonia, la madre delle meretrici e degli abomini della Terra e
auspicando una sua distruzione imminente. Parole che denunciavano un
clima infuocato ed esaltato da parte di questa minoranza cristiana.
La
tensione tra i giudei cristiani, legati al messianismo jahvista, e i
giudei della sinagoga, che invece volevano semplicemente osservare i
precetti della Torah e occuparsi dei fatti loro, esplose violenta
nel 41 e costrinse l'imperatore Claudio ad espellere dalla capitale
gli ebrei cristiani perché (secondo Svetonio) erano continuamente in
tumulto per istigazione di Chrestus, (deformazione del nome Cristo?).
Questo
episodio è molto significativo e ci fa capire, come abbiamo
denunciato in precedenza, perché anche Paolo, durante il suo
apostolato in Asia, entrasse spesso in conflitto con gli ebrei della
sinagoga e fosse più volte da loro percosso e minacciato di
lapidazione.
Questi
ebrei non volevano saperne della fine dei tempi e del ritorno del
Risorto, che probabilmente consideravano un falso Messia, volevano
rimanere fedeli alla Torah, essere lasciati in pace e occuparsi dei
fatti loro. Consideravano Paolo e i suoi collaboratori degli
istigatori. "Quei tali che mettono il mondo in subbuglio sono
qui…Tutti costoro vanno contro i decreti dell'Imperatore affermando
che c'è un altro re, Gesù"
(Atti 17,6-7).
Ambrogio Donini in
“Storia del Cristianesimo”,
Teti, Milano, 1975, a
proposito del nome di cristiani afferma: “Il nome di cristiani è
nato in un ambiente non palestinese e veniva usato in senso d'ironico
disprezzo (gli “unti”, gli “impomatati”) per distinguere gli
ebrei della Sinagoga (ortodossi) dai nuovi convertiti, considerati
gente strana, dalla lunga capigliatura, un po' come i nostri
capelloni.” Chiaro riferimento al loro voto di nazireato che li
costringeva a non far uso di forbici e rasoio.
Naturalmente
questi erano i cristiano-giudei legati a Gerusalemme, non i
pagano-cristiani seguaci di Paolo.
Partendo
da questi antefatti possiamo comprendere la radicale trasformazione
di Paolo a Corinto e il conseguente abbandono di Sila. "Quando
giunsero dalla Macedonia Sila e Timòteo, Paolo si dedicò tutto alla
predicazione, affermando davanti ai giudei che Gesù era il Cristo
(cioè l'Unto, il Messia). Ma poiché essi gli si opponevano e
bestemmiavano, furibondo per le continue frustrazioni cui lo
sottoponevano i suoi correligionari, scuotendosi le vesti disse loro:
"Il vostro sangue ricada sul vostro capo: io sono innocente; da
ora in poi io andrò dai pagani" (Atti 18,5-6).
Qui
siamo di fronte ad una svolta senza ritorno. Paolo ha raggiunto
alcune granitiche certezze che saranno alla base della sua nuova
strategia: che i suoi correligionari della diaspora erano
irrecuperabili e andavano lasciati al loro destino; che
l'attaccamento al ruolo messianico di Gesù e alla sua regalità,
sempre ostentati dai cristiano-giudei, determinava un ostacolo
insormontabile all'evangelizzazione sia degli ebrei della sinagoga,
sia dei pagani, perché dava adito alle accuse di violazione
degli editti di Cesare, di insubordinazione contro lo Stato e di
trasgressione della lex Iulia de maiestate
(Atti 17,7).
Bisognava quindi avere il coraggio di gettare il messianismo alle
ortiche. Sila si rese conto dei cambiamenti che stavano avvenendo in
Paolo, l'abbandonò e tornò a Gerusalemme a riferire.
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