Per
la nuova teologia paolina, Cristo si era incarnato per redimere
l’umanità peccatrice e donarle il dono dell'immortalità. "Vi
sia dunque noto, fratelli, che per opera di lui (Cristo) vi viene
annunziata la remissione dei peccati e che per lui chiunque crede
riceve giustificazione (perdono) da tutto ciò da cui non fu
possibile essere giustificati mediante le Legge di Mosè (Atti
13,38-39).
Ma,
associata all'immortalità c'è l'idea terrificante del giudizio
di Dio al momento della morte per stabilire se, in base alla nostra
condotta, meritiamo il premio o il castigo nell'aldilà eterno.
Secondo Paolo, per il superamento positivo di questa prova e
meritare la felicità eterna, il cristiano aveva l'obbligo di
praticare, durante il suo soggiorno terreno, una vita virtuosa.
Purtroppo, però, essendo la natura umana estremamente corrotta, a
causa del peccato originale, ciò era estremamente difficile da
raggiungere.
L’universalità
della corruzione umana è un punto focale della teoria paolina
secondo cui gli uomini, sia ebrei che pagani, erano cattivi per
natura, scellerati, schiavi del peccato, immersi fino al collo
nella «sporcizia della lussuria», nelle «passioni nefande»
(Efesini 2,3; Romani 6,17).
Essi,
infatti, sono «ricolmi di ogni ingiustizia, malvagità, cupidigia e
malizia, pieni d’invidia, di istinti assassini, di discordia, di
perfidia e abiezione; denigratori, calunniatori, nemici di Dio,
gente violenta e altezzosa, millantatori, ingegnosi nel male,
insensati, sleali, privi d’amore e di misericordia» (Romani 1,29 e
sgg.). Una “summa” di empietà e nequizie, quindi. Predicando
il suo Vangelo tra i giudei della diaspora e i pagani, aveva maturato
la disperata convinzione che l'umanità viveva in un mondo in cui
operavano potenze demoniache che scatenavano nell'uomo follie,
malvagità, violenze, sfrenata lussuria e infermità di ogni genere.
Israele, il popolo eletto, per la sua salvezza aveva ricevuto la
Torah, la Legge di Mosè, ma l'aveva sistematicamente disattesa,
trasformandola in una condanna.
I
pagani, nella loro peccaminosa perversione, s'erano illusi di lavare
i loro peccati con il sangue di Mitra o di Eracle, cospargendoselo
durante i riti sacrificali, e di sconfiggere la morte eterna
mediante la discesa di questi semidei agli inferi. Follie,
insensatezze, che impedivano all'uomo di vedere che la sua vita era
breve, ripugnante e brutale.
Di
fronte a questa generale ignominia c'era per Paolo una sola via
d'uscita a rappresentare la vera salvezza per l'intero genere umano:
il Cristo mistico che si era immolato sulla croce non più, come
credevano i cristiano-giudei di Gerusalemme, per tornare da Risorto
dal cielo e, cacciate le legioni romane, instaurare il Regno di Jahvè
sulla Terra, ma per redimere l'intera umanità dal peccato e
portarla nel regno dei Santi.
Il
termine "Cristo" perde per lui ogni riferimento all'Unto
del Signore, al Messia liberatore e si trasforma in una possessione
totale, in un Dio conosciuto in maniera interiore, in un Redentore
celato, in un Santissimo Sacramento. Tutte le Scritture, per chi
sapeva coglierne il significato interiore e le implicazioni
spirituali, prevedevano da sempre, secondo lui, la venuta nel mondo
del Salvatore. Questo Salvatore era il Cristo.
La
fede nel Cristo mistico, che gli era stato rivelata nella sua
apocalisse o epifania sulla via di Damasco, diventa l'ossessione di
Paolo, la forza propulsiva che lo spinge ad un apostolato frenetico e
pronto a sfidare ogni pericolo personale. Intanto ad Antiochia i
cristiani ellenisti, sempre più trascinati dalla nuova teologia
paolina, avevano preso
ad invocare Cristo con l'appellativo di Kyrios, cioè Signore in
senso divino, e ciò diede iniziò a quel processo di deificazione
del Cristo che avrebbe lentamente trasformato Gesù, da Messia
escatologico e apocalittico,
in
"Nostro Signore
Gesù Cristo, Figlio di Dio” e lo avrebbe fatto assurgere
lentamente alla parità col Padre. Se Paolo fu l'iniziatore di
questo processo di deificazione, penseranno poi i suoi seguaci,
seguiti dai discepoli di Marcione, dai Padri dalla Chiesa e
soprattutto dall'imperatore Costantino nel Concilio di Nicea del
325, a codificare questa sua divinità consustanziale al Padre e a
imporla anche a quanti non la condividevano.
A
completamento della sua nuova teologia Paolo inserì anche, con
l'istituzione dell'eucaristia, la teofagia, così profondamente
sentita da tutto il mondo gentile, che vedeva in essa l'unione
amorosa del Dio salvifico con l'uomo. Infine, volendo dare al
neocristianesimo un rito iniziatico che sostituisse la circoncisione,
ritenuta da Paolo un serio ostacolo per chi voleva abbracciare la
fede in Cristo, sancì il rito del battesimo, già in uso tra i
pagani.
Questo
in sintesi il corpus paolino dal quale nasce gran parte del
cristianesimo.
Non
elaborò il culto di Maria e la nascita verginale, che fu in gran
parte opera dei suoi seguaci e dei Padri della Chiesa, i quali, per
convalidare la deificazione di Cristo, si trovarono nella necessità
di dargli un seme divino. Infatti, nelle tredici Lettere paoline,
Maria non viene mai nominata e di lei c'è solo un cenno indiretto,
laddove dichiara Gesù " nato da donna" (Galati 4,4),
senza aggiungere altro.
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