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domenica 26 agosto 2012

In nomine Domini 27


Il diacono Ascanio era veramente conquistato dalle parole di Simone che gli rivelavano un mondo fino ad allora a lui del tutto sconosciuto e che gli aprivano nuovi squarci sulla vita di Gesù e sarebbe rimasto ancora a lungo ad ascoltarlo se non si fosse impegnato a far visita al cardinale Giacomo. Perciò fu costretto, suo malgrado, ad interrompere la seduta. Prima di accomiatarsi però accettò di rifocillarsi un po' assieme al vecchio monaco e a Adeodato. E così la tavola fu preparata per un più che frugale pasto a base di pane, verdure, caccio, alcune olive e una tazza di vino.
Mentre consumavano con lentezza il loro parco cibo, Simone chiese improvvisamente ad Ascanio se avesse conosciuto uno strano abate di nome Teocrazio.
"L'ho conosciuto e come!", rispose Ascanio con un sorriso divertito. "Mentre ero segretario di Alberico mi sono dovuto occupare anche di lui".
"E com'è finito? È ancor vivo?", fece il monaco, non nascondendo una certa curiosità.
"È morto da qualche anno, in odore di santità", aggiunse il diacono, sempre più divertito.
"Beh, forse non parliamo dello stesso uomo", esclamò Simone, visibilmente disorientato per la risposta di Ascanio.
"E invece sì, parliamo proprio del tuo vecchio abate che ti costrinse a fuggire dal monastero per le sue angherie e la sua dissolutezza", ammise il diacono con un sorriso malizioso. "Capisco il tuo disorientamento, ma nella vita accadono le cose più impensate. Quando Alberico divenne signore di Roma col titolo altisonante di "Princeps atque omnium romanorum senator", continuò Ascanio, "si diede anima e corpo a risanare lo Stato della Chiesa, ridotto allo sfascio. E dopo aver riformato le finanze e le milizie della città, decise anche di mettere un po' d'ordine nelle faccende della Chiesa, ridotta ormai, fatte rare eccezioni, al lassismo più completo per non dire all'aberrazione totale. Voleva anche chiudere o per lo meno ridurre il numero dei postriboli della città, ma temeva una sollevazione generale e la perdita di grosse entrate per lo Stato. Tu sai che Roma vive delle elemosine dei pellegrini, delle imposte sui postriboli e delle prebende agli ecclesiastici. Quando poi decise di riformare i monasteri, divenuti come ben tu sai, covi di gaudenti dediti esclusivamente alla crapula e alla lussuria, su mio consiglio chiese aiuto a Odone, abate di Cluny, uomo santo e integerrimo, che avevo conosciuto mentre ero al servizio di papa Giovanni X. Questo pio monaco venne a Roma e di fronte al degrado in cui versavano i nostri monasteri non esitò a farne chiudere più della metà e a ridurre allo stato laicale i tre quarti della popolazione monastica.
"Il primo monastero ad essere abolito fu quello di Teocrazio, conosciuto da tutta Roma come l'ostello in cui le meretrici dei postriboli romani andavano a sgravarsi. Quando con le guardie mi recai ad intimarne la chiusura, temevo uno scontro durissimo con lui, che aveva fama di difendere con le unghie e coi denti i suoi compagni di sozzura, vantando protezioni altissime in sede ecclesiastica. Ma appena me lo vidi davanti, stentai a riconoscerlo e compresi che era ormai un uomo finito. Un male oscuro lo stava divorando; le sue libbre di lardo si erano volatilizzate e il suo corpo sembrava ridotto ad uno scheletro. Con mia grande meraviglia accettò quasi con sollevato l'ordine di chiusura. Mi chiese, quasi implorando, di trovargli un monastero che lo accogliesse per il poco tempo che ancora gli restava da vivere. Faticai non poco ad accontentarlo perché nessun abate voleva saperne di accogliere un monaco che aveva la sua trista fama. Finalmente in uno sperduto cenobio gli trovai una cella e dei colleghi che lo accolsero benevolmente. Per ringraziarli fece ricostruire, a sue spese, perché aveva accumulato una cospicua ricchezza, il decrepito edificio che lo ospitava e fece restaurare la chiesetta annessa trasformandola in una cappella ricca di affreschi e di marmi preziosi che divenne, ben presto, oggetto di ammirazione e di culto per gli abitanti del luogo e per i pellegrini. Al termine dei lavori donò quanto gli era rimasto ai poveri e in breve si creò la fama di santo. Fu sepolto nella cappella da lui restaurata e ancor oggi la sua tomba è oggetto di un continuo pellegrinaggio".
"Seconde te, la sua è stata una conversione sincera?", chiese Simone, con una punta di incredulità.
"Me lo son chiesto più volte anch'io", rispose Ascanio, "senza sapermi dare una risposta. L'abate mi fece sapere che Teocrazio si comportò bene nei tre anni che rimase nel cenobio, ma non partecipò quasi mai alle cerimonie religiose e alle pratiche di pietà degli altri monaci. Dava l'idea di non conoscerle per niente e quelle rare volte che entrava in chiesa, biascicava solo parole incomprensibili. Ma era sempre gentile con tutti e non interferiva nella vita del monastero; seguiva, invece, con interesse, i lavori di restauro e controllava con competenza la decorazione della cappella. Diciamo che passava gran parte del giorno dietro queste cose. Morì senza rimpianti, con rassegnazione, quasi con indifferenza. Faticava a vivere in un corpo fortemente debilitato, che non sentiva più appetiti e desideri".
"E il piccolo Sofronio", tornò a chiedere Simone,"quel mio compatriota che doveva rubare i rotoli?".
"Fu accolto in casa Teofilatto come paggio e coccolato da tutti, specie da Marozia che stravedeva per lui", rispose il diacono. "Anche re Ugo, nel breve tempo che rimase a Roma, se lo teneva sempre vicino. Effettivamente era un fanciullo amabile, dolce e bellissimo. Ma nonostante le coccole era molto infelice perché sentiva la mancanza della madre e della famiglia. Quando, su richiesta di Romano Lecapeno, governatore di Bisanzio, furono mandati da Roma quattro legati pontifici per sanzionare, con la loro presenza, la consacrazione del figlio di costui Teofilatto, ancora quasi bambino, a patriarca di Costantinopoli, il giovane Sofronio fu aggiunto all'ambasceria e da Bisanzio fu accompagnato felicemente ad Hebron dove poté riabbracciare al sua famiglia".
"E il giudeo Malachia?"
"Di lui sappiamo che appena Sofronio fu catturato, scappò da Roma vestito da monaco e si rifugiò dai saraceni di Frassineto. Una spia musulmana ci ha fatto sapere che, a motivo della sua grande conoscenza del mondo cristiano e della città di Roma, era diventato consigliere dello sceicco e trattato con grande onore", fece Ascanio.
"Secondo te, perché voleva trafugare questi rotoli".
"Tu sai che i seguaci dei primi cristiano-giudei, chiamati anche nazirei o ebioniti, nonostante le dure persecuzioni della Chiesa nei loro confronti, sono sopravvissuti fino ai nostri giorni in piccole comunità sparse nella Palestina e nel Medio Oriente. Malachia appartiene ad una di queste comunità e forse voleva impossessarsi dell'unico Vangelo originale dei primi cristiani di Gerusalemme sopravvissuto alle distruzioni attuate dai Padri della Chiesa".

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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)