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domenica 22 aprile 2012

In nomine Domini 11


Il tempo intanto era passato veloce e già si appressava il mezzogiorno. Una fantesca bussò alla porta dello studiolo per avvertire il diacono che la mensa era pronta. Infatti nella stanza attigua, che fungeva da cucina, c'era una tavola apparecchiata, allietata da una pentola fumante di zuppa di farro, alcuni pani di color bigio, un po' di caccio pecorino e una brocca di vino. Attorno alla tavola la fantesca e i tre ungari aspettavano in piedi l'arrivo del loro padrone.
"Se vuoi spartire con noi questo povero pasto ne sarò felice e onorato", fece Ascanio indicando la tavola apparecchiata.
"Assaggerò solo un po' del tuo vino", rispose Alberico "perché devo rientrare a palazzo per non insospettire mia madre. Ma fra qualche ora ritornerò perché sono ancora molte le cose che voglio sapere da te e perché voglio strapparti una promessa".

"Hai parlato diffusamente di papa Giovanni X", riprese Alberico al suo ritorno, dopo una breve visita a palazzo Teofilatto per tranquillizzare sua madre, "ma, fra i vari papuncoli o pontificoli che ultimamente si sono succeduti a brevi intervalli, alcuni dei quali sono morti in modo oscuro e violento o deposti da usurpatori, nessun altro, secondo te, è stato all'altezza del sua alta carica?"
"Soltanto uno", rispose il diacono, "Sergio III".
"Ma secondo la vox populi fu un papa rotto a tutti i vizi e che si è macchiato di gravi delitti", disse Alberico sorpreso per quel nome.
"Proprio così", fece il diacono divertito per il disappunto che si leggeva nel volto del giovane. "La vox populi, una volta tanto, si dimostra veritiera. Infatti non vi è stato delitto, per infame che fosse, di cui papa Sergio non si sia macchiato, e non vi è stato vizio di cui non sia stato schiavo. Un cardinale che lo conosceva bene affermava di lui che fu il più scellerato di tutti gli uomini. Ciò non toglie che fu anche un grande papa".
"Com'è possibile?", sbottò Alberico al colmo del disgusto.
"Dipende da quali parametri si vuol usare per determinare la grandezza di un papa. Se per te un grande papa è il sant'uomo, tutto preghiere, virtù e cilicio che ha come fine supremo la ligia osservanza di tutti i precetti religiosi, rispetto ai quali nient'altro conta, ebbene, questo è il papuncolo dei papuncoli. Per la Chiesa, ai tempi in cui viviamo, non vale niente. Vale ancor meno, anzi è pernicioso per essa, anche il papa che persegue soltanto l'appagamento dei suoi vizi o della sua smodata bramosia di potere. Vedi papa Stefano VI, quello del sinodo cadaverico, esempio classico di follia distruttiva. Per essere un grande papa, in questa nostra travagliata epoca storica, bisogna avere come scopo supremo il buon governo dello Stato e soprattutto il potenziamento della Chiesa Romana, intesa come istituzione più politica che religiosa. Per il raggiungimento di questo scopo tutti i mezzi sono validi, anche il crimine più efferato. Meno quindi un papa oggi sottostà alla religione, meglio amministrerà la cattedra di Pietro. Sergio III addirittura non credeva in niente, affermava che tutte le religioni sono invenzioni umane. Dovendo dissanguarsi per la ricostruzione di San Giovanni in Laterano e di altre basiliche in rovina diceva sconsolato: l'uomo fa enormi sacrifici per edificare grandiosi templi a celebrazione della sua stupidità".
"Atroce!", esclamò Alberico allibito.
"No. Amaramente vero!" lo corresse il diacono.
"Ma allora, anche tu non credi in niente", sbottò Alberico visibilmente scandalizzato.
"Se alludi alla religione ufficiale e a qualsiasi altra religione esistente sulla Terra, hai perfettamente ragione. Le ritengo, come affermava Sergio III, tutte invenzioni umane. E aggiungo anche: invenzioni perniciose. Il cristianesimo, se non fosse stato deformato da Paolo e dai Padri della Chiesa, avrebbe potuto essere la suprema filosofia della fratellanza universale, invece è diventato una pessima istituzione religiosa che con la sua intolleranza e il suo dogmatismo ha fortemente ostacolato l'evoluzione spirituale dell'uomo e si è trasformato nel potere temporale della Chiesa. E noi oggi dobbiamo difendere in tutti i modi, anche col crimine, questa istituzione, perché ormai è diventata l'unica nostra salvezza. Vedi tutti questi codici che si stipano negli scaffali del mio studiolo? In essi ho raccolto il fior fiore della saggezza universale. Penso che in tutta Roma non esista oggi l'equivalente. Ho setacciato tutti i monasteri di cui sono venuto a conoscenza, alla ricerca ansiosa di autori antichi greci e latini che trattassero l'argomento religioso: Evemero, Crizia, Cicerone, Lucrezio e Livio, per citarne alcuni. Ebbene, tutti concordano nell'affermare che le religioni sono pure invenzioni".
"Hai detto autori greci? Conosci anche questa lingua? Oggi a Roma si parla male perfino il latino e penso che nessuno conosca il greco", chiese Alberico incuriosito.
"Hai ragione. Un esiguo numero di monaci eunuchi, rapiti in Oriente e venduti da noi, hanno insegnato al alcuni questa antica lingua. Io sono uno dei pochi fortunati che la conosce per merito dell'eunuco Eudossio che me l'ha trasmessa".


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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)