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martedì 4 marzo 2014

La comunità cristiana primitiva. 119 (Parte prima)

La conoscenza del periodo apostolico ci deriva dalle Epistole paoline e soprattutto dagli Atti degli Apostoli, anche se queste fonti non solo del tutto attendibili e risalgono ad alcuni decenni dopo la morte di Gesù. Le comunità, cui si rivolgeva Paolo, non consideravano le sue Epistole come rivelazioni divine, destinate alla posterità, ma le leggevano come lettere private. La loro scomparsa, infatti, era considerata dai cristiani tanto poco rilevante, che in un secondo tempo sostituirono con dei falsi quelle mancanti. Soltanto posteriormente le Epistole paoline assunsero un carattere canonico, come oggi viene ammesso anche da parte cattolica.

Da questi documenti ricaviamo che i discepoli, dopo la presunta resurrezione di Gesù, si riunirono a Gerusalemme in attesa del ritorno del Messia, in carne ed ossa dalle nuvole per riscattare Israele. Inizialmente, si raccolsero intorno a Pietro e ai figli di Zebedeo: Giacomo e Giovanni, allargando via via la loro cerchia di influenza con la predicazione e il dialogo.

Questo gruppo, in ogni caso, appariva una setta giudaica più che una nuova comunità religiosa, rappresentando in un primo tempo una mera corrente dell’ebraismo fra le tante allora in auge. Una specie di nuova Sinagoga che si distingueva dalla fede degli altri ebrei principalmente per la credenza nell’immediato ritorno del Crocifisso. Gli Apostoli e i loro seguaci non intesero mai di proclamare al mondo una nuova religione.

La cerchia più antica dei discepoli di Gesù constava esclusivamente di ebrei. Questi erano per la maggior parte israeliti rigidamente fedeli alla Legge, alla tradizione, alle festività giudaiche, alle norme alimentari, ai riti sacrificali del Tempio. Ma c'era anche una minoranza di adepti di stirpe ebraico-ellenistica di lingua greca. Erano ebrei rientrati dalla diaspora, cioè dalle colonie ebraiche sparse nell'impero romano che assommavano una popolazione in numero tre volte superiore agli ebrei della Palestina. Infatti. mentre i giudei viventi in Palestina ai tempi di Gesù vengono stimati intorno al milione, quelli della diaspora dispersi per l’impero romano vengono valutati in circa 3 milioni e mezzo.

Erano costoro più vicini alla cultura ellenistica che a quella ebraica e fra di essi si trovavano anche greci convertiti all’ebraismo, i cosiddetti proseliti. Questi adepti sentendosi più ellenizzati che ebrei, si consideravano meno vincolati alle tradizioni nazionali e religiose dei connazionali e ciò determinava talvolta una certa ostilità nei loro confronti.

«Nei giorni in cui s’accrebbe il numero dei discepoli, si giunse alla diatriba degli ellenisti con gli ebrei» leggiamo negli Atti, che raccontano anche che gli ellenisti avevano sette propri capi tutti recanti nomi schiettamente greci. Gli Atti degli Apostoli tentano di occultare l’esistenza di due fazioni contrastanti all’interno della comunità primitiva, camuffandola come si trattasse solo di una suddivisione di compiti: la predicazione sarebbe stata riservata agli Apostoli; ai «Sette», cioè agli ellenisti, il servizio di mensa (Atti, 6, 1 sgg.).

In realtà, però, non si accenna mai a questa attività diaconale dei «Sette», al loro presunto servizio di mensa. Al contrario, si parla dappertutto della loro predicazione, che avrebbe dovuto essere un esclusivo privilegio degli Apostoli. E dunque non c’é dubbio che i «Sette» non esercitavano affatto il servizio di mensa, ma erano i capi degli ellenisti, come gli Apostoli lo erano degli ebrei.


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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)