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martedì 7 novembre 2017

Peccato e redenzione n. 33

Il regno di Giovanni non durò a lungo. Alla fine dell’anno 35 d.C., Lucio Vitellio, dopo aver costretto Artabano alla fuga e aver assoggettato nuovamente l’Armenia al dominio di Roma, rientrò ad Antiochia con le sue legioni” (Tacito, Annales VI 37). Venuto a conoscenza degli eventi accaduti in Giudea, dopo aver fatto riposare l’esercito nei quartieri invernali, alla testa delle sue legioni si avviò verso Gerusalemme per giustiziare il monarca, che, illegittimamente, si era proclamato Re dei Giudei e ristabilire l'ordine. Nel frattempo il Prefetto Marcello era giunto a Cesarea Marittima per rilevare Ponzio Pilato dal suo incarico.
Giunto nel periodo pasquale del 36 d.C., Lucio Vitellio, cinse d’assedio la Città Santa, già stremata dalla lunga carestia, e le inviò un ultimatum di resa. Fu il Sinedrio, convocato dallo stesso Giovanni in qualità di Sommo Sacerdote del Tempio a decretare in quel momento la fine del Re e del suo breve regno. Nel Vangelo di Giovanni le parole di Caifa ai sinedriti che recitano: “Considerate come sia meglio che muoia un solo uomo per il popolo e non perisca la nazione intera” (Gv 11,50) suonano assurde se riferite ad un mite predicatore che offre sempre l'altra guancia qual è il Gesù evangelico, ma sommamente pertinenti se riferite ad un Messia zelota la cui sopravvivenza metteva a rischio l'incolumità di un intera nazione. Per Giovanni, il “Salvatore” Re dei Giudei, non vi fu alcuna possibilità di scampo e accettò la resa di Gerusalemme e il suo atroce destino: la crocifissione.
Venne arrestato, portato nella Fortezza Antonia, incatenato, sottoposto a dileggi e ad atroci torture. Il giorno dopo, venne crocefisso pubblicamente, come monito rivolto agli Ebrei inteso a rimarcare la potenza dell'Impero romano. Il popolo distanziato da un fitto cordone di sbarramento di miliziani romani, assistette in silenzio, impietrito e impotente, alla morte di Giovanni, sopraggiunta dopo una lunga agonia “fra i più atroci tormenti d'ogni sorta fino all'ultimo istante di vita” (Bellum VII cap. 8,272).
Poco prima di morire, secondo Marco e Matteo, il Gesù evangelico ebbe un attimo di smarrimento e pronunciò il grido di terrore e solitudine: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Marco 15,34), inconcepibile se Cristo fosse stato il Figlio di Dio che s'immolava per la salvezza dell'umanità, ma chiarissimo per un Messia che, avendo fermamente creduto nell'intervento di Jahvè in suo aiuto, constatava con disperazione l'abbandono divino e il fallimento della sua missione. In base alla legge romana, al collo del crocifisso venne appeso un cartello con il nome e la motivazione della pena capitale:
I N R I: IOHANNES NAZIREVS REX IVDAEORVMU.
Non vi fu alcuna via crucis, del resto mai accennate da Cicerone, Seneca, Maccio Plauto e Plinio il Vecchio che riferirono sulle crocifissioni. Questa tortura avrebbe creato grossi problemi di servizio d'ordine mettendo a rischio l'incolumità dei miliziani di scorta obbligati a seguire il condannato per un lungo tratto di strada. Non vi fu alcun processo per stabilire la colpevolezza perché il reato era flagrante. Quindi il processo di Gesù celebrato nei Vangeli, oltre ad essere una summa di incoerenze e di assurdità, era totalmente escluso dalla flagranza del reato. Allora perché è stato inserito nei Vangeli? Per far ricadere sui Giudei la colpa dell’uccisione del “Salvatore”. Infatti, Gesù Cristo “Nostro Signore”, per la nuova dottrina del Cristianesimo nascente, non doveva risultare giustiziato dal potere di Roma perché ciò avrebbe dimostrato che era un re ebreo zelota guerriero e questo contrastava la figura dell’“Agnus Dei”, vittima sacrificale divina per il bene dell’umanità. Inoltre i Vangeli narrano, in contrasto palese con la storia documentata e tra assurdità e incoerenze di ogni genere, che a far uccidere Gesù fu Ponzio Pilato, costretto dai Giudei, e non Lucio Vitellio. Falso storico conclamato perché la condanna di “Gesù” è avvenuta dopo la destituzione di Pilato (Ann. XV cap. 44).

La crocifissione di Giovanni di Gamala, per gli ebrei del suo tempo, significava che lui non era il Messia prescelto da Jahvè perché secondo i Profeti ebrei, il loro Dio non aveva schierato le potenze celesti in suo aiuto per annientare la supremazia dei “Kittim” pagani invasori (Rotoli di Qumran: frammento 4Q 246). Perciò dopo la fuga dei suoi seguaci zeloti, venne in un primo tempo dimenticato in Palestina, anche se la rivendicazione dinastica, come vederemo continuerà coi suoi fratelli, datesi alla macchia. Prima di analizzare sinteticamente l'evoluzione della nuova dottrina derivata dalla crocifissione di Giovanni di Gamala, che sfocerà nell'attuale Cristianesimo, esaminiamo per brevi linee le vicende finali, tutte altamente drammatiche e crudeli, degli altri quattro fratelli di Giovanni e del loro nipote Eleazar. 

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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)