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venerdì 11 luglio 2014

La teologia paolina si basò su una persona storica ben diversa da Gesù. 156

Come la maggior parte degli studiosi ammettono, la teologia paolina non si basò sull'opera e la figura umana di Gesù, bensì su una persona storica ben diversa. Paolo, infatti,non conobbe il Gesù storico, e in ogni caso non fu mal suo discepolo.
Dopo la conversione, attese tre anni prima di presentarsi per la prima volta a Gerusalemme dagli apostoli, e la visita non solo fu breve ma altamente burrascosa.

La Comunità primitiva fu concorde nel sostenere che Paolo predicava un suo vangelo personale, oscuro e falso, e per di più riferito esclusivamente a una rivelazione celeste. In tutto il corpus Paulinum, infatti, Gesù viene menzionato solo 15 volte, mentre la definizione di «Cristo» ricorre ben 378 volte: Negli scritti paolini, inoltre, non c'è traccia di una tradizione palestinese di Gesù e solo incidentalmente vengono riferite autentiche parole del Maestro; solo tre volte Paolo raccomanda l’imitazione di Cristo, pensando però non a Gesù, ma alla sua preesistenza divina. È singolare il fatto che il titolo messianico di « Cristo» (che è la traduzione dell’ebraico l’Unto re di Israele) solo nella Lettera ai Romani ricorre due volte, di più che in tutti i Vangeli sinottici.

L’indagine critica riconosce unanimemente che il Cristo paolino non è definito né dalla personalità di Gesù né dal complesso della sua predicazione etico-religiosa, ma che, anzi, è Paolo l'esclusivo inventore del tutto. Il grande filosofo tedesco F. Nietzsche rimarca ironicamente la libertà con la quale Paolo «ha affrontato, quasi evitandolo, il problema della persona di Gesù: uno che è morto, che sarebbe stato veduto dopo il decesso; un tizio mandato a morte dai Giudei» Concludendo con l'affermare che per lui, Gesù rappresentò un puro e semplice motivetto conduttore, al quale egli aggiunse la propria musica. Anche per Arthur Drews, uno dei massimi contestatori della storicità di Gesù, Paolo di Gesù non sapeva nulla, non aveva con lui alcuna relazione storica ma soltanto una vaga affinità interiore derivante della comune tradizione giudaica. Ma, a parte questo, Paolo, secondo Drews, non si preoccupa né del carattere e della condotta di Gesù né tanto meno della sua dottrina morale. Della vita di Gesù gli sta a cuore soltanto un aspetto: la sua morte, e definisce apertamente il proprio Vangelo come «la parola della croce» quando scrive: «Mi sono proposto di non mostrarvi altra scienza se non quella di Gesù il Cristo, cioè del Crocifisso» (1 Cor. 1, 18; 2, 2).

Quindi Paolo mentre ignora e misconosce la realtà vera del Gesù storico, si dedica a creare con delirante fanatismo la sua fede nel Cristo mitico. «Io dimentico tutto ciò che è alle mie spalle e mi protendo a ciò che mi è innanzi, e vado verso la meta prefissata, verso il gioiello» (Phil. 3, 13 sg.), confessione più volte ripetuta da Paolo, che caratterizza la sua evoluzione. Egli proietta Gesù sempre più decisamente in ambito mitico e metafisico, facendolo diventare alla fine da individuo umano, una figura cosmica, un’entità spirituale ultraterrena: il Cristo mistico appunto, attribuendogli qualsiasi contenuto religioso, qualsiasi cosa volesse.


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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)