Com'era
visto il peccato originale nel Vecchio Testamento
Secondo
la favola sumerica, che abbiamo fin qui esaminato, tutti i mali che
affliggono l'umanità e il nostro martoriato pianeta hanno avuto
origine dalla disobbedienza del primo uomo Adamo ad un comando
divino. Abbiamo dimostrato come la logica del padre amoroso che
crea gli uomini per renderli partecipi della sua gloria e della sua
beatitudine sia incompatibile con la logica della prova cui Dio ha
voluto sottoporli (ben sapendo per onniscienza del fallimento della
stessa) ed ancor più con l'assurda punizione che questa ha
comportato per Adamo e tutti i suoi discendenti. Quindi il peccato,
così è stata chiamata la colpa di Adamo, secondo la leggenda
biblica, è per l'uomo la fonte unica e suprema di ogni male che
riguarda la vita terrena.
Ma
esso come viene inteso nella Bibbia antica, conosciuta come Vecchio
Testamento? In modo diametralmente opposto da come lo concepiamo noi
cristiani. Il cristianesimo, essendo stato fondato da San Paolo che
era ebreo, è stato fatto discendere dall'ebraismo dal quale ha
ereditato la Bibbia e Jahvè (o Geova) il Dio ebraico. Ma con questa
religione non ha quasi più niente in comune, come vedremo in
seguito, perché rispetto ad essa ha subito una trasformazione
radicale e irreversibile.
Ebraismo
e cristianesimo sono concordi nel ritenere che la colpa di Adamo ha
degradato l'uomo da essere quasi divino ad essere mortale,
sottoposto a tutti i mali e alla morte. Ma per l'Antico Testamento le
sofferenze e la morte riguardavano esclusivamente la vita terrena
dell'uomo, finita la quale tutto cessava. Non c'era, cioè, un
aldilà dove la parte spirituale dell'uomo avrebbe continuato a
vivere in un paradiso, se buona, o nell'inferno, se malvagia. Nella
Bibbia ebraica o Vecchio Testamento, considerata parola di Dio, è
scritto: «La sorte degli uomini e delle bestie è la stessa, come
muoiono queste muoiono quelli. C’è un soffio vitale per tutti: non
esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è
vanità» (Qoèlet 3,19). Con la morte, quindi, secondo il teologo
biblico, tutto finisce, sia l'anima sia il corpo, perché tutto è
venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere.
Infatti
i Sadducei, cioè l’alto clero del Tempio di Gerusalemme detentore
dell'ortodossia ebraica, sostenevano che Mosè non aveva mai parlato
né dell'immortalità dell'anima, né della "resurrezione dei
morti", e non credevano nella perpetuazione dell'individuo dopo
la morte, in corpo e spirito.
Quindi, per loro, non esisteva un aldilà dove le anime sarebbero
state punite con l'inferno o premiate col paradiso. Quindi
escludevano totalmente la necessità di una redenzione anche perché
ignoravano che Jahvè avesse un figlio da sacrificare per redimere
l'umanità peccatrice. Ma allora per un ebreo in che cosa consisteva
il peccato e quali conseguenze comportava?
Il
peccato consisteva nella violazione di una o più delle
seicentotredici leggi contenute nella Torah, il libro della Legge
attribuito a Mosè e ritenuto dagli ebrei scritto su dettatura
divina, e la punizione, in caso di gravi violazioni, soprattutto per
il peccato di idolatria, consisteva nella perdita della
protezione di Javhè e nel sopraggiungere di calamità di ogni
genere.
Jahvè,
infatti, nella Bibbia promette al suo popolo che
solo obbedendo alla sua Legge avrebbe ottenuto da lui la protezione
per crescere in potenza politica e prosperità economica. Viceversa,
disobbedendo alla Legge, cioè commettendo il peccato, sarebbe stato
punito con la schiavitù, le carestie e le pestilenze.
"Vedi,
io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male;
poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare
per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue
norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore tuo Dio ti
benedica nel paese che tu stai per
entrare
a prendere in possesso. Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu
non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti davanti ad altri dèi
e a servirli, io vi dichiaro oggi che certo perirete"
(Deuteronomio
30,15/18).
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