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venerdì 1 settembre 2017

Peccato e Redenzione n.14


Com'era visto il peccato originale nel Vecchio Testamento 

Secondo la favola sumerica, che abbiamo fin qui esaminato, tutti i mali che affliggono l'umanità e il nostro martoriato pianeta hanno avuto origine dalla disobbedienza del primo uomo Adamo ad un comando divino. Abbiamo dimostrato come la logica del padre amoroso che crea gli uomini per renderli partecipi della sua gloria e della sua beatitudine sia incompatibile con la logica della prova cui Dio ha voluto sottoporli (ben sapendo per onniscienza del fallimento della stessa) ed ancor più con l'assurda punizione che questa ha comportato per Adamo e tutti i suoi discendenti. Quindi il peccato, così è stata chiamata la colpa di Adamo, secondo la leggenda biblica, è per l'uomo la fonte unica e suprema di ogni male che riguarda la vita terrena.
Ma esso come viene inteso nella Bibbia antica, conosciuta come Vecchio Testamento? In modo diametralmente opposto da come lo concepiamo noi cristiani. Il cristianesimo, essendo stato fondato da San Paolo che era ebreo, è stato fatto discendere dall'ebraismo dal quale ha ereditato la Bibbia e Jahvè (o Geova) il Dio ebraico. Ma con questa religione non ha quasi più niente in comune, come vedremo in seguito, perché rispetto ad essa ha subito una trasformazione radicale e irreversibile.
Ebraismo e cristianesimo sono concordi nel ritenere che la colpa di Adamo ha degradato l'uomo da essere quasi divino ad essere mortale, sottoposto a tutti i mali e alla morte. Ma per l'Antico Testamento le sofferenze e la morte riguardavano esclusivamente la vita terrena dell'uomo, finita la quale tutto cessava. Non c'era, cioè, un aldilà dove la parte spirituale dell'uomo avrebbe continuato a vivere in un paradiso, se buona, o nell'inferno, se malvagia. Nella Bibbia ebraica o Vecchio Testamento, considerata parola di Dio, è scritto: «La sorte degli uomini e delle bestie è la stessa, come muoiono queste muoiono quelli. C’è un soffio vitale per tutti: non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità» (Qoèlet 3,19). Con la morte, quindi, secondo il teologo biblico, tutto finisce, sia l'anima sia il corpo, perché tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere.
Infatti i Sadducei, cioè l’alto clero del Tempio di Gerusalemme detentore dell'ortodossia ebraica, sostenevano che Mosè non aveva mai parlato né dell'immortalità dell'anima, né della "resurrezione dei morti", e non credevano nella perpetuazione dell'individuo dopo la morte, in corpo e spirito. Quindi, per loro, non esisteva un aldilà dove le anime sarebbero state punite con l'inferno o premiate col paradiso. Quindi escludevano totalmente la necessità di una redenzione anche perché ignoravano che Jahvè avesse un figlio da sacrificare per redimere l'umanità peccatrice. Ma allora per un ebreo in che cosa consisteva il peccato e quali conseguenze comportava?
Il peccato consisteva nella violazione di una o più delle seicentotredici leggi contenute nella Torah, il libro della Legge attribuito a Mosè e ritenuto dagli ebrei scritto su dettatura divina, e la punizione, in caso di gravi violazioni, soprattutto per il peccato di idolatria, consisteva nella perdita della protezione di Javhè e nel sopraggiungere di calamità di ogni genere.
Jahvè, infatti, nella Bibbia promette al suo popolo che solo obbedendo alla sua Legge avrebbe ottenuto da lui la protezione per crescere in potenza politica e prosperità economica. Viceversa, disobbedendo alla Legge, cioè commettendo il peccato, sarebbe stato punito con la schiavitù, le carestie e le pestilenze. "Vedi, io pongo oggi davanti a te la vita e il bene, la morte e il male; poiché io oggi ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi e il Signore tuo Dio ti benedica nel paese che tu stai per entrare a prendere in possesso. Ma se il tuo cuore si volge indietro e se tu non ascolti e ti lasci trascinare a prostrarti davanti ad altri dèi e a servirli, io vi dichiaro oggi che certo perirete" (Deuteronomio 30,15/18).

  

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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)