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venerdì 9 gennaio 2015

16- “L'invenzione del cristianesimo” - Parte prima. La dottrina di Gesù. 1

Per comprendere la dottrina di Gesù è opportuno fare una breve panoramica della situazione socio-politico-religiosa della Palestina del suo tempo. 
Ancor prima  della conquista romana, gli ebrei avevano subito un lungo periodo di dominazione sotto gli assiri, i babilonesi, i persiani e i greci. Ciò aveva comportato la decadenza dei costumi e un   degrado socio-politico e religioso. 
Per reazione a questa situazione di diffuso malessere si erano sempre più radicate in tutte le classi sociali le aspettative messianiche, che possiamo riassumere nell'utopica, ossessiva e delirante credenza che Dio avrebbe mandato un uomo a  ristabilire la giustizia sociale, l'osservanza della Legge e l'indipendenza del Paese. Quest'uomo  prescelto, di discendenza davidica, sarebbe stato il Messia (in ebraico mashià, in greco Christòs), preannunciato dai profeti. 
Messia allora significava l'Unto dal Signore, secondo l'antica cerimonia di investitura regale che prevedeva l'unzione sulla fronte con olio profumato del  futuro re d'Israele. Vedremo che in seguito questo termine, per opera dai seguaci di Paolo, perderà il suo significato originario per assumere quello attuale di Figlio di Dio. Riferisce S. Brandon nel suo “Gesù e gli zeloti”, già citato, che nella letteratura apocalittica, contemporanea a Gesù, erano frequenti le espressioni di odio intenso contro Roma, non solo perché Roma dominava Israele, dopo averlo declassato da "Regno di Dio" a semplice provincia di un grande impero pagano, ma anche perché ostentava orgogliosamente la sua sovranità imperiale su tutto il mondo. 
A causa del degrado politico in cui era caduta la Palestina sotto i romani, l'aspettativa messianica dell'avvento imminente del Regno di Dio, che avrebbe dato inizio ad un periodo di giustizia, di uguaglianza, di benessere e di pace in Israele, era sempre più sentita dalla maggioranza della popolazione e trovava negli zeloti e negli esseni  i più decisi sostenitori.      
Mentre i primi, contando sull'aiuto  delle schiere angeliche di Jahvè, perseguivano il messianismo come sola lotta armata, come aperta ribellione ai romani, da attuare con efferata ferocia e determinazione,  i secondi associavano alla lotta armata l'esigenza di ripristinare, come mezzo per prepararsi spiritualmente a questo grande evento e rendersene degni, lo spirito autentico della fede dei padri, vivendo in preghiera e in penitenza, seguendo una morale rigorista, abbracciando una lieta povertà, rinunciando a ogni proprietà personale e chiamandosi "fratello" l'uno l'altro (M. Bontempelli, C. Preve, Gesù uomo nella storia, Dio nel pensiero, CRT, Pistoia, 2000).
Questa era la situazione quando Gesù si presentò sulla scena politico-religiosa del suo tempo tentando di far sue le istanze degli zeloti e degli esseni. Egli, infatti, inizia il suo ministero con parole di chiaro accento apocalittico: “Il tempo è compiuto e il Regno di Dio è imminente” (Marco 1,15); e più oltre, “quando anche voi vedrete queste cose accadere, sappiate che è vicino, è alle porte. In verità vi dico, non passerà questa generazione prima che tutte queste cose si compiano” (Marco 13,29-30). Tale senso dell’imminenza della fine dell’ordine presente, che combaciava  con la visione esseno-zelota del suo tempo,  diverrà, dopo la crocifissione di Gesù,  una vera ossessione per i cristiano-giudei e i cristiano-ellenisti fino al 70 d.C. Il tema  ricorrente della predicazione di Gesù, la cosiddetta Buona Novella, era dunque la fervida attesa dell'imminente Regno di Dio per opera del Messia davidico, aiutato dalle schiere celesti inviate da Jahvé. Il giorno del suo arrivo sarebbe giunto improvviso e inaspettato.     
Secondo questa utopia, la fine del vecchio ordine avrebbe comportato apocalittici sconvolgimenti ma, dopo un periodo di transizione,  i superstiti avrebbero conosciuto una nuova era  di pace, di giustizia, di uguaglianza e fratellanza universale. 
Il Regno del Male sarebbe terminato per sempre e la Gerusalemme Celeste, che Giovanni, l'autore dell'Apocalisse, vedrà discendere dal cielo e possedere la gloria di Dio, sarebbe divenuta imperitura. 
Chiarisce Calimani: “Il Regno di Dio, nel suo significato originale ebraico, era immaginato come una comunità costituita su questa terra, guidata da Dio o dal suo inviato, l’Unto del Signore, cioè il Mashìach, il Messia, un discendente di David” (R.Calimani, Gesù Ebreo, Rusconi, Milano, 1990). Quindi un regno concreto, terreno e politico, ancorché teocratico e misticamente sacralizzato. Un regno in cui sarebbe stata bandita l’arroganza della ricchezza e avrebbe trionfato  l’uguaglianza, la  giustizia sociale e l’amore fraterno.  Questo messaggio di Gesù, come lo deduciamo dai Vangeli, non contemplava affatto la nascita di una nuova religione ma rimaneva fedele all'antica fede ebraica, ed era  diretto soltanto alle pecore smarrite della casa di Israele. “Non andate tra i pagani e non entrate nelle città dei Samaritani. Andate piuttosto alle pecore perdute della casa  di Israele” (Matteo 10,5-6). Infatti l'ideale messianico, di carattere inequivocabilmente etnico-religioso oltre che politico, non ammetteva che nella causa potessero essere coinvolti anche i non ebrei. Per realizzare questa utopia il primo passo sarebbe stata la liberazione dal dominio romano e la punizione dei collaborazionisti, come postulavano fermamente e fanaticamente gli zeloti e tutti i messianisti in genere. Solo dopo  si poteva iniziare il lungo cammino verso la santità cui doveva partecipare tutto il popolo. Un popolo di santi, in uno Stato santo. 
Quindi l'èra esseno-messianica era intesa come la perfetta realizzazione del Regno di Dio, un regno egualitario, dove gli ultimi sarebbero stati i primi e dove i debiti sarebbero stati condonati e la povertà una libera scelta di vita. Il Messia quindi si prefigurava come colui che doveva non solo liberare il suo popolo dalla dominazione straniera ma anche  riportarlo nelle condizioni morali e religiose volute da Jahvé per la costituzione di uno Stato santo. 
In questo senso si collocano molte espressioni evangeliche cariche di valenze morali, sociali e perfino politiche che sono sintetizzate nel Discorso della Montagna e vanno sotto il nome di Beatitudini. In esse troviamo  l'essenza di tutto l'insegnamento esseno, cioè il  profondo amore verso i poveri e gli umili nei quali si vedeva il volto di Dio. "Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi" (Matteo 25,35-36).  

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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)