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giovedì 5 marzo 2015

Anche sommi Padri della Chiesa come Ambrogio e Agostino negarono il primato di Pietro. 202

Fu solo nel Medioevo che il papato riuscì a imporre definitivamente il primato della Chiesa di Roma su tutta la cristianità approvando la propria sanzione nei Canones del Vaticano e del Codex juris canonici, il Codice Giuridico della Chiesa romana, entrato in vigore nel 1918.

Il Concilio Vaticano del 1870 definì l’istituzione del primato dottrinale e giuridico del Papa, basandosi in Mt. 16, 18 " E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa", considerato «un insegnamento evidente della Sacra Scrittura», condannando come «opinioni insensate» tutte le altre concezioni, anche quelle della Chiesa antica, compresa quella di Sant’Agostino. Furono dichiarate opinioni perverse anche quelle dei Padri della Chiesa fino al V secolo che conoscevano chiaramente gli insegnamenti della Sacra Scrittura senza mai riconoscere quella supremazia giurisdizionale di Pietro, attribuitagli poi dalla Chiesa.

Anche Paolo ignora questo primato: egli nelle sue Lettere parla di Giacomo, Cefa (Pietro) e Giovanni, limitandosi a definirli «colonne», e come si vede Cefa non viene citato neppure al primo posto! Intorno al 150 Giustino, il più eminente apologeta del Il secolo, che oltretutto allora viveva a Roma, non aveva nessuna idea del primato petrino, tanto che nomina solo due volte l'apostolo Pietro chiamandolo «uno dei discepoli» e «uno degli apostoli».
Nella mole immensa dei suoi scritti Origene non parla mai di un primato del vescovo romano, neppure quando commenta dettagliatamente il passo cruciale contenuto in Matteo (16, 18).

E Cipriano, Padre della Chiesa, non riconobbe mai Ie pretese di primato dei vescovi romani. A suo parere tutti i vescovi erano successori di Pietro e portatori di un’eguale dignità nel senso pieno del termine: «Da noi- scrive Cipriano - non esiste un vescovo dei vescovi, poiché nessuno costringe all’obbedienza con autorità tirannica i propri confratelli». Vescovo, Padre e Santo della Chiesa Cattolica, Cipriano seppe opporsi con durezza al vescovo di Roma durante la polemica sul battesimo degli eretici scoppiata tra Roma e Cartagine dal 255 al 257. Insieme a 86 vescovi nordafricani, nonché a Tertulliano e a Clemente Alessandrino, Cipriano si oppose con estrema decisione al vescovo di Roma Stefano I, che rifiutava l'obbligo di ribattezzare gli «eretici» disposti a rientrare nel cattolicesimo.

Durante questa diatriba il più prestigioso vescovo d’Asia Minore, Firmiliano di Cesarea, evidentemente anche a nome dei colleghi, accusò il vescovo di Roma non solo di «insolenza», «impudenza» , «stoltezza», ma lo definì anche «presuntuoso» «ignorante» e «bugiardo»; e, dulcis in fundo, lo paragonò addirittura a Giuda Iscariota.
Dopo che la posizione di Cipriano, circa la sua approvazione del primato di Pietro, fu definitivamente chiarita, dimostrando che le sue affermazioni in proposito erano un falso aggiunto a posteriori, la fazione cattolica, che fino ad allora lo aveva sempre tirato in ballo quale testimone importante del primato papale, cambiò spudoratamente parere affermando che l'atteggiamento contrario del Padre della Chiesa non inficiava affatto il dogma cattolico del suddetto primato del Papa. Anche il Dottore della Chiesa Ambrogio fu sostenitore dell’uguaglianza di tutti i vescovi. Infatti egli non riconobbe alla Cathedra Petri né un primato onorifico né quello giurisdizionale.
Ma Agostino, considerato il massimo dottore della Chiesa, che agli inizi del V secolo aveva commentato correttamente il passo di Matteo negando il primato papale, fu per questo tacciato di eresia. Il Concilio Vaticano I infatti lo accusò di aver professato «opinioni maligne» (pravae sententiae). Quindi, in base al Sinodo dei vescovi di Spagna, che alla fine del VII secolo riconobbe le pene dell'inferno a chi professava opinioni maligne riguardo alla fede, tutti i Padri della Chiesa contrari al primato papale, nonostante proclamati santi, secondo questo concilio non godrebbero le gioie del paradiso.


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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)