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martedì 3 marzo 2015

31 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte prima. La crocifissione

Sulla "via crucis" non c'è accordo tra i quattro Vangeli. I tre Sinottici ci dicono che Gesù era talmente provato dai maltrattamenti subiti dai soldati da essere incapace di portare il "patibulum", cioè l'asse sul quale doveva essere inchiodato. Fu necessario ricorrere all'aiuto di un tal Simone di Cirene.
Il quarto evangelista ci dice al contrario che fu Gesù a portare il patibulum. Luca, sempre il più fantasioso degli evangelisti, racconta che, strada facendo, Gesù si rivolse alle pie donne che lo seguivano affrante, per profetizzare loro la fine di Gerusalemme e le immani sciagure che avrebbero colpito Israele.
Questo brano, conosciuto come "la piccola apocalisse" è una "prophetia post eventum" (aggiunta cioè a posteriori) in quanto allude chiaramente alla guerra combattuta nel 70 d.C. quando l'esercito di Tito, figlio dell'imperatore Vespasiano, attuò la distruzione di Gerusalemme. Una riconferma che i Vangeli cominciarono ad essere scritti dopo quel terribile evento. Giunto sul Golgota, Gesù fu spogliato e inchiodato alla croce, pena riservata ai ribelli politici, assieme ad altri due che la tradizione ci tramanda come dei ladroni, cioè dei mascalzoni comuni.
È l'ennesima frottola. Il testo greco li definisce " (dio lestas)" termine che Giuseppe Flavio usa per indicare gli zeloti, cioè i ribelli politici (i terroristi d'oggi). Erano quindi due correi rivoltosi, quasi sicuramente coinvolti in un atto di guerriglia anti-romana, e quindi crocifissi per ribellione politica.
Probabilmente erano i responsabili della sommossa e dell'omicidio raccontati dagli evangelisti a proposito dell'arresto di Barabba. Il comportamento verso Gesù di questi due ribelli crocifissi viene descritto in modo contraddittorio da Marco e da Luca. Per Marco entrambi lo insultarono. "E anche quelli che erano stati crocifissi con lui lo insultavano" (Marco 15,32). Per Luca, invece, uno di essi invitò sarcasticamente Gesù a salvare se stesso e loro, mentre l'altro si raccomandò a lui quando fosse entrato nel suo regno (Luca 13,39-43). Come si vede, le contraddizioni sono continue tra gli evangelisti.
A questo punto i romani, su ordine di Pilato, appongono sulla croce di Gesù il “titulum”, cioè la targa che doveva specificare il motivo della sua condanna. Svetonio e Dione Cassio ci hanno tramandato che il titulum era obbligatorio in ogni condanna a morte. In quello posto sulle croce di Gesù era scritto in tre lingue: aramaico, greco e latino (perché fosse alla portata di tutti): "Questo è il re dei giudei" (Luca 23,38). Prova inconfutabile che Gesù veniva condannato per un reato esclusivamente politico, confermata anche dalle frasi di scherno pronunciate dai presenti all'indirizzo di Gesù morente: "Il re d'Israele scenda ora dalla croce perché vediamo e crediamo" (Marco 15,32).
Prima del sopraggiungere della morte, secondo Marco e Matteo, Gesù ebbe un attimo di smarrimento e pronunciò il grido di terrore e solitudine: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Marco 15,34), inconcepibile se Cristo fosse stato il Figlio di Dio che s'immolava per la salvezza dell'umanità, ma chiarissimo per un aspirante Messia che, avendo fermamente creduto nell'intervento di Jahvè in suo aiuto, constatava con disperazione l'abbandono divino e il fallimento della sua missione.
I Sinottici raccontano che al momento della morte di Gesù accaddero degli eventi soprannaturali, quali: eclissi, terremoti, frane, resurrezioni e lo squarciamento nel Tempio del velo che nascondeva la Sancta Sanctorum, Questi accadimenti straordinari furono totalmente ignorati dai cronisti del tempo e rientrano quindi chiaramente nella pura mitologia.
La morte di Gesù fu molto rapida. Di solito i crocifissi, specie se di costituzione robusta, potevano sopravvivere per molte ore e talora anche per alcuni giorni, soffrendo un'atroce agonia. Ma Gesù, stando ai Sinottici, già dopo poche ore dalla crocifissione era entrato in deliquio e nel primo pomeriggio emise il suo ultimo respiro.
Ormai si avvicinava la sera di quel venerdì, vigilia della Pasqua, e bisognava affrettarsi a procedere alla deposizione perché la solenne festività del giorno dopo non consentiva che fossero ancora esposti i cadaveri dei suppliziati.
E, a questo punto, troviamo l'ennesima conferma che Gesù era stato giustiziato per aver tentato un complotto messianico.
Chi infatti procedette alla sua deposizione e alla sua sepoltura non furono gli apostoli, datisi ignominiosamente alla macchia, e nemmeno i membri della sua famiglia (inspiegabilmente assenti), ad eccezione della presunta consorte Maria di Magdala e della zia Maria Cleofe, ma due importanti esponenti del sinedrio: Giuseppe d'Arimatea e Nicodemo, che condividevano il suo ideale jahvista. Se Gesù fosse stato condannato dal sinedrio per bestemmia, mai questi due importanti personaggi, definiti capi dei Giudei, avrebbero potuto prendersi cura del suo corpo e dargli sepoltura onorata, in un sepolcro di loro proprietà. Sarebbero stati accusati di disprezzo per il Tempio e di empietà (W. Fricke, Il caso Gesù," Rusconi, Milano, 1988). Il fatto che poterono prendersi cura del corpo di Gesù, senza incorrere nella scomunica del sinedrio, cioè del tribunale religioso, è la prova che Gesù non fu giustiziato per blasfemia ma per ribellione armata. Con l'aiuto delle tre Marie (tra le quali i Sinottici annoverano Maddalena ma non la madre di Gesù) i due sinedriti provvidero alla sepoltura del suppliziato in una tomba di proprietà di Giuseppe d'Arimatea.
Secondo i Sinottici Gesù fu deposto nella tomba avvolto in un lenzuolo funebre (sindone); secondo Giovanni, invece, avvolto in bende intrise di aromi. (Se Giovanni ha ragione allora la Sindone di Torino è un falso conclamato).
Alle prime ombre del crepuscolo di quel fatidico venerdì, il dramma iniziato appena diciotto ore prima, era definitivamente concluso. La rivolta, soffocata ancor prima di nascere, e il mancato intervento delle schiere celesti di Jahvè, avevano fatto fallire l'ennesimo tentativo messianico.
Il disperato grido del Messia fallito, morente sulla croce: "Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato!" era la tragica ammissione di una sconfitta irreparabile. Anche se Gesù, per il fatto di essere stato crocifisso dall'oppressore Pilato, era per l'opinione pubblica (esclusi i grandi sacerdoti e gli erodiani) un patriota martire, per i suoi seguaci la sua crocifissione si trasformò nella fine di ogni speranza. Si erano illusi di sedere alla destra e alla sinistra del trono del nuovo re d'Israele e si trovavano rintanati nei pressi della piscina di Siloe, tremanti d'orrore e di paura perché complici di un criminale giustiziato.
Qui finisce la vicenda terrena di Gesù, uno dei tanti Messia falliti che il clima fanatico dell'epoca faceva nascere e tramontare con una certa frequenza. Di lì a qualche decennio dalla sua morte, il crescente e sempre più esasperato delirio messianico avrebbe portato alla distruzione totale di Gerusalemme e alla cacciata di tutti gli ebrei dalla Palestina, cioè alla fine dello Stato d'Israele.


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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)