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venerdì 6 maggio 2016

36– Il falso Jahvè. L'Esodo 8

Per estirpare l'idolatria così profondamente radicata nell'animo del suo popolo, Mosè ricorse a tutti i mezzi possibili, che andavano dall'iconoclastia più violenta, all'istituzione di continui riti sacrificali (tali da rendere l'altare un mattatoio), all'osservanza scrupolosa, per non dire maniacale, di precetti assurdi e irrazionali che regolavano tutti gli aspetti della vita, non solo religiosa ma anche pratica. Tanto per fare un caso limite, in Esodo 28, 42 Dio dà a Mosè disposizioni perfino sulle mutande che Aronne doveva indossare durante la celebrazione dei riti. Un Dio che si occupa di simili quisquilie ha perduto molta della sua sublime divinità.
I riti sacrificali, prescritti con accanimento e ferocia (si pensi che a Gerusalemme, durante le feste pasquali, venivano macellati nel Tempio più di ventimila animali, in un orribile lezzo di sangue e d'incenso), Mosè li impose volendo, come dice Spencer, gettare discredito su quegli animali che per gli Egizi avevano maggiore importanza.
Spencer, nel citato "De Legibus" afferma che Mosè apprese dai suoi maestri egizi, tra l'altro, anche “la filosofia trasmessa per mezzo di simboli". La sua fonte è Filone d'Alessandria (De vita Mosis, libro primo). Questo spiegherebbe il fatto che, per Mosè, Dio non accettava che il suo culto fosse privo di qualcosa che gli israeliti avevano già imparato a considerare come sacro durante il loro soggiorno in Egitto. In altre parole, non voleva che la religione che lui stava creando mancasse di visibilità o di dimensione estetica, cioè di quelle forme visibili e materiali attraverso cui la religione si esprime e viene vissuta. Ecco spiegata, allora, la pletora di riti sacrificali, purificazioni, festività rituali, il capro espiatorio e l'istituzione dell'Arca dell'Alleanza, dei Keruvim, dei templi negli Alti Luoghi in tutto simili a quelli eretti da Akhenaton al Dio Aton a cielo aperto, degli Urim e dei Tummim. In base a tale principio di visibilità, Mosè dovette in parte rinunciare alla sua spietata iconoclastia e concedere al proprio popolo immagini rigorosamente proibite sul piano teologico, quali appunto l'Arca dell'Alleanza e i Keruvim, intesi come visualizzazione della presenza divina.


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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)