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venerdì 8 maggio 2015

50 - “L'invenzione del cristianesimo” - Parte terza. Paolo di Tarso. Quarta ed ultima visita a Gerusalemme 2

Appena Paolo cominciò a parlare, la folla tumultuante si zittì e lo ascoltò in silenzio. Gli Atti vogliono farci credere che quelli che lo avevano aggredito fossero ebrei non cristiani. Ma ciò è falso perché i cristiano-giudei costituivano una setta abbastanza numerosa a Gerusalemme ed erano sempre presenti in gran numero nel Tempio e rispettati. Un'ulteriore prova del fatto che l'uditorio di Paolo era costituito in gran parte da giudeo-cristiani la deduciamo dal comportamento da essi tenuto durante il suo discorso. Infatti, Paolo iniziò la sua difesa parlando della nuova dottrina della parusia e raccontando che lui, in un primo tempo, l'aveva perseguitata duramente per poi, dopo la rivelazione divina della messianicità di Gesù, abbracciarla e divulgarla. Ma non diede nessuna spiegazione di questa nuova dottrina perché era ben conosciuta da tutti i presenti, i quali si guardarono bene dal contestarla. Il tumulto riesplose violento non appena Paolo affermò che il Signore lo aveva inviato a divulgare la parusia ai pagani.
Era questo un argomento tabù per tutti gli ebrei, cristiani e non, ma nel caso di Paolo la protesta si riferiva soprattutto al suo rifiuto della circoncisione e dell'obbligatorietà della Legge per i pagani convertiti e al fatto che si faceva accompagnare per le vie della città e fino alle porte del Tempio da compagni incirconcisi. "Allora [Dio] mi disse: "Va', perché ti manderò lontano, tra i pagani" Fino a queste parole erano stati ad ascoltarlo, ma allora alzarono la voce gridando: “Toglilo di mezzo; non deve più vivere!” E poiché continuavano a urlare, a gettar via i mantelli e a lanciar polvere in aria, il tribuno ordinò di portarlo nella fortezza" (Atti 22,21-23).
A questo punto, a sceneggiata conclusa, Paolo rivelò al centurione che lo tratteneva d'essere cittadino romano e di godere dei privilegi che solo una piccola minoranza degli abitanti dell'Impero poteva vantare. "Ma quando l'ebbero legato con le cinghie, Paolo disse al centurione che gli stava accanto: «Potete voi flagellare un cittadino romano, non ancora giudicato?"(Atti 22,25).
Per l'autore degli Atti e per i suoi confratelli presenti alla scena (Luca, Timòteo e Tròfimo), lo scontro tra Paolo e gli ebrei, anche cristiani, sanciva il rigetto dei pagani da parte dei cristiano-giudei e quindi giustificava lo scisma che Paolo stava attuando con l'ebraismo.
Per Paolo tutti i ponti erano definitivamente tagliati ora tra il suo cristianesimo universalistico e salvifico, e quello di Gerusalemme, rimasto ancora legato al messianismo jahvista e ad una concezione etnica e religiosa di stampo tribale. Rinchiuso nella Torre Antonia, fu avvisato da un nipote (figlio della sorella) che quaranta giudei avevano giurato di ucciderlo. Il tribuno, preoccupato perché Paolo era cittadino romano, decise di trasferirlo a Cesarea, sotto una scorta di centinaia di soldati. A Cesarea, Paolo rimase due anni, in una specie di blanda prigionia, sotto i procuratori Felice e Festo. Il processo fu celebrato poco dopo l'arrivo di quest'ultimo e alla presenza del re Agrippa II e della sorella Berenice. L'avvocato Tertullo, che patrocinava il sommo sacerdote contro Paolo, accusò l'apostolo di essere il capo di un gruppo di agitatori. "Abbiamo scoperto che quest'uomo è una peste, fomenta continue rivolte tra tutti i giudei che sono nel mondo" (Atti 24,5).
La fama di Paolo, fomentatore di disordini, era quindi conosciuta da tutti. Comunque Paolo si difese con maestria ma si guardò bene dal riferire che aveva gettato la Legge alle ortiche per i cristiani gentili e perfino per gli ebrei che si convertivano alla nuova dottrina.
Festo, non ravvisando colpe a suo carico, gli propose la scarcerazione e il trasferimento a Gerusalemme. Ma Paolo, ben sapendo che in quella città lo avrebbero immediatamente ucciso, in qualità di cittadino romano si appellò a Cesare, cioè all’imperatore, da Paolo definito "autorità istituita da Dio, cui tutti dovevano obbedienza” (Romani 13,1-2). E così ebbe salva la vita e fu trasferito a Roma, come desiderava.
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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)