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mercoledì 3 agosto 2011

I due pesi e le due misure applicate dalla Chiesa Cattolica

Funerali al San Raffaele di Milano, con rito religioso per Mario Cal, il cattolicissimo segretario di don Verzè, suicidatosi con un colpo di pistola alla testa per il colossale ammanco, per colpe non sue, del suo ospedale.

Non si era detto che i suicidi non hanno diritto al funerale in chiesa? Non è stato sempre proclamato che togliersi la vita è un atto gravissimo, una ribellione contro dio, una prepotenza inaccettabile nei confronti di quel bene “indisponibile” che è l’esistenza umana?

Ricordate il gelido comunicato emesso dal cardinal vicario di Roma Camillo Ruini che recitava: “In merito alla richiesta di esequie ecclesiastiche per il defunto Dott. Piergiorgio Welby, il Vicariato di Roma precisa di non aver potuto concedere tali esequie perché, a differenza dei casi di suicidio nei quali si presume la mancanza delle condizioni di piena avvertenza e deliberato consenso, era nota, in quanto quanto ripetutamente e pubblicamente affermata, la volontà del Dott. Welby di porre fine alla propria vita, ciò che contrasta con la dottrina cattolica (vedi Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2276-2283; 2324-2325)?”.

Ma la scappatoia dell’obnubilamento improvviso, del raptus – la cosiddetta mancanza di “piena avvertenza e deliberato consenso” che giustifica secondo la gerarchia ecclesiastica la concessione del rito religioso – a rigor di logica non può valere per chi, come Cal, ha lucidamente pianificato il gesto estremo, si è informato della potenza dell’arma, ha scritto lettere equilibratissime per spiegare il perché.

Il peccato di Welby, imperdonabile per la Chiesa e per niente riferibile ad un suicidio,, è stato quello di rivendicare il diritto di interrompere alla luce del sole il “potere delle macchine” che mantengono in vita un corpo condannato a morte dalla natura.

Lo stesso peccato di Beppino Englaro, che ha ricordato il desiderio di Eluana di non sopravvivere vegetando solamente in virtù di artifici tecnici e ha rivendicato anche lui pubblicamente il diritto di fermare trattamenti che prolungano una vita incosciente e degradata.. Guai a esercitare in trasparenza la propria libera volontà di autodeterminazione, scelta drammatica che le eminenze non perdonano.

Avesse agito nel buio di una stanzetta d’ospedale con la nascosta, affettuosa complicità di un medico e di un’infermiera, magari suora, non si sarebbero levate in parlamento, dagli appecorati al Vaticano, le lugubri grida di “assassini” e costoro non si sarebbero abbassati ad imporre una legge sulle cosiddette “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, che nega a ogni cittadino di decidere se sopravvivere o no intubato ad oltranza nel degrado più assoluto.

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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)