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martedì 10 gennaio 2012

Don Verzé, solo un prete-menager senza scrupoli? No, anche un temerario riformista.


Sul conto di don Luigi Verzè, il “sacerdote-manager”, i media non hanno lesinato le critiche più feroci riguardo le inchieste, le amicizie spericolate e spesso imbarazzanti, il suicidio del suo principale collaboratore, il suo soggiorno in Brasile mentre faceva il bagno in una piscina contornato da splendide fanciulle e, soprattutto, la voragine di debiti che ha sommerso la sua creatura, il San Raffaele. Insomma hanno detto di tutto o anche di più.


 Ma don Verzè era solo questo? No, era anche un prete molto, anzi troppo scomodo, perché non aveva peli sulla lingua a denunciare l'arretratezza medievale della Chiesa in tutti i campi e a giudicare il Vaticano un luogo che “puzza di sodoma e di arroganza”.


 Nel suo libro, “Pelle per pelle”, del 2004, pubblicato da Mondadori, don Verzè sillaba cose che ai gerarchi vaticani risultavano sommamente sgradite. Per esempio, i “Dieci pensieri per il prossimo papa”, immaginati e scritti quando Karol Wojtyla stava raggiungendo “il padre” e Joseph Ratzinger ancora non lo aveva sostituito. 


Il “settimo pensiero” è il manifesto di una rivoluzione: “Il nuovo papa è universalmente atteso per rivedere coraggiosamente, da padre universale, le decisioni tradizionali sugli argomenti: a) celibato del clero cattolico latino; b) Attribuzione di poteri ministeriali ai laici “probati”, donne comprese; c) sacramenti ai divorziati; d) uso di anticoncezionali; e) procreazione assistita; f) non si può sonnecchiare accontentandosi di divieti contro una scienza biologica che irresistibilmente corre. Il guarire è un sacramento imperativo-cristologico; g) coinvolgimento dei fedeli nelle scelte gerarchiche, episcopato compreso”. Una serie di blasfeme eresie per qualsiasi gerarca d'oltretevere. 


 In un altro suo libro, del titolo “Siamo tutti nella stessa barca" (Editrice San Raffaele) don Verzè colloquiando col cardinale emerito Carlo Maria Martini si domanda in modo provocatorio “Ma Gesù, mi chiedo, andrebbe con i suoi sandali e il suo mantello anche in piazza San Pietro?” 


 E ancora: “Non le sembra sconveniente che il Santo Padre sia universalmente considerato quale capo di Stato?” E rincarando la dose: “Non crede anche Lei che un Gandhi nudo sia più eloquente di un Papa mitrato? Così come un Francesco stigmatizzato fa sempre storia per tutti gli esseri umani di tutte le epoche e di tutte le fedi…”. 


Che ne dite? Da far accapponare la pelle a qualsiasi eminenza. 


 In Brasile don Verzè non si limitò solo a fare il bagno in piscina ma volle rendersi conto della spaventosa indigenza delle favellas. E a questo proposito scrisse: “Ricordo che nella mia visita alle favelas del Brasile frequentemente mi incontravo con povere donne senza marito con un bimbo in seno, un altro in braccio e una sfilza di altri che le seguivano, tutti prodotti di diversi mariti. Era giocoforza concludere che la pillola anticoncezionale andava consigliata e fornita… La Chiesa cattolica è troppo lontana dalla realtà, e le fiumane di gente, quando arriva il Papa, hanno più o meno il valore delle carnevalate e delle feste per la dea Iemanjà, l’antica Venere alla quale tutti, compreso il prefetto cristiano, gettano tributi floreali”. 


E ribadendo poi un concetto già espresso più volte: “Penso che anche ai sacerdoti dovrebbe essere presto tolto l’obbligo al celibato, perché temo che per molti il celibato sia una finzione”. Più chiaro di così! 


 Ma quello che avrà fatto imbestialire maggiormente i Torquemada vaticani è stata una sua confessione affidata al “Corriere della Sera” come testimonianza di una lacerazione interiore e gesto di estrema, radicale, misericordia. 


Un caro amico medico, devastato irrimediabilmente da metastasi tumorali, giunto allo stadio ultimo e senza speranza, condannato a qualche giorno di sofferenza che neppure i narcotici potevano più lenire, invoca l’amico sacerdote di aiutare ad andarsene, di farlo morire. E don Verzè esaudisce il desiderio e la volontà del malato. 


Secondo me, solo per questo gesto, merita l'assoluzione di tutti i suoi peccati. Al suo funerale, gli scherani del regime che si erano satollati alla sua greppia e si erano avvalsi del suo sostegno per far carriera politica, lo lasciarono solo come un cane, quasi fosse un appestato.


 Considerando il fatto che godeva di una salute ancora buona, nonostante l'età, qualcuno mormora che la sua repentina morte, avvenuta a fagiolo, sia stata aiutata da una tazzina di caffè corretto, non da grappa veneta, ma dalla più efficace digitalina. Cosa non difficile da credere visto quanto è accaduto a papa Luciani.

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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)