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domenica 13 maggio 2012

In nomine Domini. 14


Spuntavano le prime luci dell'alba quando Altichiero giunse a palazzo Teofilatto portando la bella notizia che la congiura era stata in parte svelata. Solo in parte però perché all'interno della segreta del Laterano era stato catturato un ragazzino di circa dodici anni, dall'aspetto bello e armonioso, che non portava con sé nessun'arma ma soltanto un ritaglio di pergamena con disegnata la mappa di una stanza. Il ragazzo, impaurito e sperduto, prima aveva tentato di giustificarsi in una lingua sconosciuta, poi aveva fatto intuire a gesti che non comprendeva una sola parola di latino. Dai lineamenti del viso, dai grandi occhi scuri e profondi, si capiva chiaramente che era di origine orientale.
La misteriosa scoperta mise Marozia nella più grande confusione. Di che strana congiura si trattava, si chiese perplessa. Decisa ad arrivare nel più breve tempo possibile alla soluzione dell'enigma per poter riportare il figlio papa in Laterano e poter riprendere i colloqui per il suo matrimonio, decise nella stessa mattinata di prelevare con la sua carrozza il diacono Ascanio, ritenuto in quel momento il più istruito della città, e recarsi con lui nella segreta per interrogare il giovinetto. Quando se lo vide davanti rimase stupita della sua grazia e bellezza e dalla sua aria di fanciullo sperduto e non resistette all'impulso materno di stringerlo a sé e di carezzarlo. Il fanciullo, rinfrancato da quell'abbraccio, smise di piangere, cosa che aveva fatto ininterrottamente fino ad allora, si asciugò le lacrime e accennò ad un mesto sorriso che lo fece apparire ancora più bello. L'interrogatorio fatto da Ascanio in greco e saraceno non sortì alcun effetto, perché il fanciullo non mostrò di comprendere alcun che.
Ascanio consigliò allora a Marozia di rivolgersi al monaco Simone, detto il Siriaco, che conosceva molte lingue orientali. Costui era arrivato a Roma alcuni anni prima in pellegrinaggio dall'oriente, e si era sistemato in un antico monastero fuori città. Purtroppo il monastero era poi caduto nelle mani di un personaggio molto equivoco: un monaco crapulone di nome Teocrazio, da tutti chiamato Crapula o Porcrazio, e Simone, per sfuggire alle angherie di quest'ultimo, s'era rifugiato in qualche grotta solitaria.
Marozia, sempre più decisa a tutto pur di venire a capo di quell'ingarbugliata matassa, senza perdere altro tempo, partì col fanciullo e la sua scorta diretta al monastero chiacchierato, alla ricerca di Simone il Siriaco. Dopo alcune ore di viaggio attraverso la campagna romana, disseminata ovunque di acquitrini e paludi con qualche raro villaggio di contadini e di pecorai, scorsero da lontano un enorme edificio cadente che pareva brulicare di gente indaffarata. Ma appena quelle persone si accorsero del loro arrivo, tutte sparirono in un battibaleno e il vecchio monastero piombò nel più assoluto silenzio. A prima vista sembrava deserto e spopolato, ma dovunque c'eran le tracce della fuga precipitosa, soprattutto fuochi accesi con pentole fumanti e braci che cuocevano carni e pagnotte. S'intuivano dietro le sgangherate imposte sbarrate, decine di occhi che scrutavano, forse con trepidazione, i nuovi arrivati.
Un soldato della scorta diede fiato al corno. Allora da una porticina uscì un monaco più largo che alto, sfoggiando un sorriso mieloso. Si presentò al capo delle guardie dicendo che era Teocrazio, l'abate del monastero, e aggiunse che i monaci erano raccolti in preghiera nel chiostro. Proprio in quell'istante un gruppo di bambini, accompagnato da due monachelle, una delle quali palesemente incinta, irruppe festoso da un boschetto vicino e corse incuriosito a guardare, con meraviglia, la carrozza e i soldati. Il buon Teocrazio con un sorriso sempre più amabile spiegò che i bambini erano dei trovatelli allevati amorevolmente dalle monache annesse al monastero. Nessuno gli credette. Erano palesemente i figli dei monaci e delle monache. Quel monastero era un autentico bordello.
Alla richiesta di dove fosse il monaco Simone il Siriaco, Teocrazio si rabbuiò per un attimo, poi riprese il suo solare sorriso e spiegò che si era rifugiato a qualche miglio di distanza, in una grotta solitaria, alla ricerca della santità.

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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)