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domenica 11 marzo 2012

In nomine Domini 5


Curiazzo, stuzzicato da Alberico e da altri clienti che per la loro giovane età avevano una vaga idea di quell'orrendo avvenimento, cominciò il racconto alla larga, soffermandosi a descrivere nei minimi particolari l'ambiente in cui si era svolto il macabro processo: la Sala del Concilio della Basilica del Laterano. 

Era questa, in quel giorno di febbraio umido e piovoso, caratterizzato da un freddo pungente, addobbata a festa e sfavillante di luci e gremita fino all'inverosimile, di cardinali, vescovi, preti e diaconi. Il popolino, sempre alla ricerca di emozioni forti e morbose, era accorso numeroso, come ad un allegro spettacolo. E c'era l'imperatore Lamberto, con tutte le insegne del suo potere, assieme al papa Stefano VI con tiara e paramenti solenni. 

Erano seduti ai lati opposti di un trono vuoto, sistemato al centro della sala. Il personaggio più incombente, però, verso cui tutti volgevano lo sguardo smarrito, era la perfida e indomabile Agertrude, l'imperatrice madre, quella che per attuare la sua vendetta suprema aveva voluto quel processo postumo, piegando al suo volere l'intera Roma.

Appena ognuno dei presenti ebbe preso posto nel suo seggio, ecco aprirsi la porta laterale della Sala del Concilio e avanzare, verso il trono ancora vuoto, una portantina sorretta da quattro sgherri, sulla quale era issata una mummia orrenda, in piena putrefazione, rivestita dei paramenti pontificali. Era la salma di papa Formoso, morto alcuni mesi prima, e riesumato dal suo sepolcro. La testa, lievemente piegato a sinistra e sorretta da una specie di cappuccio, aveva il viso completamente sfatto, con due buchi vuoti al posto degli occhi e il mento cascante, quasi staccato e penzoloni. La povera salma fu collocata a fatica sul trono e puntellata alla meglio.

Nonostante il lezzo spaventoso che emanava e il suo aspetto orrendo nessuno dei presenti, nemmeno quelli che erano scossi dai conati di vomito, osò muoversi dal suo posto, tanto era il terrore che attanagliava chiunque. 

Allora papa Stefano VI, nel silenzio sepolcrale della sala, si rivolse alla mummia e diede inizio all'interrogatorio. Con perfida voce chiese: "Chi sei?". E da dietro il trono un prete nascosto rispose: "Sono papa Formoso". A questa risposta Stefano VI, invaso da un possente tremito di rabbia e col viso stravolto, urlò rivolto alla mummia che lo fissava coi vuoti occhi spettrali: "Perché uomo malvagio e ambizioso, hai usurpato la cattedra di Pietro?"

Un giovane diacono, di nome Filippo, il fratello di Curiazzo, cui era stato assegnato il compito ingrato di difendere il Pontefice, si alzò tremante per parlare. Ma un diluvio di insulti e di fischi si levò dal popolino presente, aizzato da un prete arruffapopolo di nome Sergio, che gli impedì di pronunciare una sola parola.

Quel rito macabro, simile ad una allucinazione collettiva, si protrasse per molte ore. A papa Formoso furono rivolte le accuse più assurde e infamanti, oltre a quella di aver occupato abusivamente la sede episcopale di San Pietro, pur essendo vescovo di Porto. Fu accusato perfino di aver cospirato coi saraceni per consegnare loro la città di Roma.

Alla fine papa Formoso fu riconosciuto colpevole di tutte le accuse e deposto dalla sua alta carica pontificia. Appena pronunciata la sentenza, il prete Sergio, tra i lazzi osceni del popolino divertito, si avventò su quella povera mummia, le strappò di dosso i paramenti sacri, le recise le tre dita della mano destra con le quali aveva impartito la benedizione e le mozzò il capo. Tutto il clero presente era allibito e pietrificato dall'orrore. Solo la perfida Agertrude, ormai paga della vendetta compiuta contro quel papa che aveva sì incoronato suo marito e suo figlio imperatori, ma poi li aveva traditi chiamando in Italia l'alemanno Arnolfo, re di Carinzia, uscì trionfante dalla basilica, manifestando la sua più completa soddisfazione con un macabro sorriso sulle labbra. Il prete Sergio, non ancora pago di quello che aveva fatto, afferrò i brandelli della povera salma, li trascinò per le vie di Roma e infine li gettò nel Tevere.

Un crimine così orrendo, accompagnato dai lazzi festosi del popolino, che sempre gioisce delle disgrazie dei potenti, parve a tutte le persone per bene meritevole della collera divina. E infatti, si era da poche settimane concluso quel macabro sinodo quando, improvvisamente, la Sala del Concilio crollò, assieme a gran parte della basilica.

"E papa Stefano VI?", chiesero gli astanti.
"Pochi mesi dopo, caduto in disgrazia, venne trascinato in una segreta del Laterano da alcuni sconosciuti, forse i sostenitori di papa Formoso, e strangolato".

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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)