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domenica 25 marzo 2012

In nomine Domini 7


Salì nell'appartamento nobile del piano superiore. Nel salone bivaccavano alcune guardie che al suo apparire si drizzarono imbarazzate e sospettose. Dall'abbigliamento un po' dimesso lo scambiarono per un mercante. Ma una di esse, di nome Ugone, lo riconobbe e gentilmente gli disse che nessuno poteva entrare dal papa senza il permesso di Marozia. In quel mentre si udì provenire dalle stanze interne un flebile canto, appena percepibile, accompagnato dal suono di un liuto.
"Dunque il papa non sta dormendo", disse Alberico, "e vorrei almeno salutarlo, dato che è mio fratello".
Seguirono attimi di forte imbarazzo da parte delle guardie che si consultarono tra di loro sul da farsi. A causa del loro vocio, sia pure appena sommesso, il canto cessò e poco dopo la porta si socchiuse. Si affacciò l'eunuco Ursino, inviato da Giovanni per vedere se era arrivata Marozia. Di tanto in tanto la Senatrice saliva a rincuorare il figlio che sapeva sperduto e intimorito. Vide Alberico, che conosceva bene, e rimase muto dalla sorpresa. Non sapendo cosa fare, chiuse la porta e tornò da Giovanni a riferire. Poco dopo la porta si aprì e Ursino fece cenno ad Alberico di entrare. Giovanni era così depresso per quell'improvviso e forzato trasferimento e così impaurito dall'incombente congiura che anche la presenza del fratello gli parve un sollievo.
Dopo alcuni brevi convenevoli, abbastanza affettuosi, Alberico fece capire al fratello che voleva parlare con lui a tu per tu, senza presenze estranee. Giovanni fece un cenno con la mano e Terenzia e Ursino si ritirarono in un'altra stanza.
"Finalmente soli, uno di fronte all'altro, per poterci parlare con sincerità", sbottò con un disteso sorriso Alberico. "Sapessi quanto ho desiderato questo incontro!"
"Nostra madre non ne sarà felice", fece Giovanni scuotendo sconsolato la testa. "È molto contrariata dalla tua dura opposizione alle sue nozze e teme che tu possa influenzarmi negativamente a questo riguardo".
"Magari lo potessi! Ma tu sai bene che i giochi ormai sono fatti e che fra poco più di un mese nostra madre sposerà quel cinghialone immondo di re Ugo, nonostante l'opposizione di quasi tutta la nobiltà romana, di molti signori d'Italia, e contravvenendo alle norme canoniche che vietano, pena la scomunica, il matrimonio tra cognati".
"Re Ugo ha dichiarato che Guido di Toscana, secondo sposo di nostra madre, non era suo fratello uterino perché la levatrice lo aveva sostituito nella culla con un altro neonato", tentò di spiegare Giovanni, con scarsa convinzione.
"E tu, babbeo, hai creduto alla mostruosa menzogna di quello spergiuro, accreditandola e consentendo le nozze incestuose", ribatté prontamente Alberico. "Per poter sposare nostra madre, e tramite questo matrimonio impadronirsi di Roma, di cui nostra madre è signora unica e incontrastata, e poter in seguito ottenere da te l'incoronazione imperiale, quel mostro ignominioso non ha esitato ad infangare la memoria di sua madre Berta dichiarando che Guido di Toscana, Lamberto ed Ermengarda non erano suoi fratellastri, ma figli di non si sa quale baldracca. E quando il marchese Lamberto, preso dallo sdegno, ricorrendo al giudizio di Dio, lo ha prima sfidato e poi battuto ignominiosamente, sbugiardandolo davanti a tutti, a tradimento lo ha accecato e imprigionato. Questo è l'uomo che nostra madre sposerà tra poco per assecondare la sua fregola di diventare regina e imperatrice".
Giovanni ascoltava e taceva. Il suo viso malinconico e triste si era fatto ancor più pallido ed emaciato e aveva assunto un'espressione di forte sofferenza. Nel suo animo si scontravano due opposti sentimenti: l'amore incondizionato verso la madre e le dure e spietate parole del fratello, che sentiva sincere e veritiere.
"Nostra madre non tradirà mai Roma e non permetterà che diventi un feudo di re Ugo", disse il giovane papa, dopo alcuni attimi di silenzio, quasi mormorando fra sé.
"Tu non conosci quel mostro", incalzò Alberico. "Le sue brame sono insaziabili e non indietreggia davanti ad alcun delitto pur di appagarle. Per consolidare il suo potere ha distribuito feudi, monasteri, abbazie e vescovadi a tutti i numerosi bastardi che ha generato con concubine di infimo rango: contadine, lavandaie e pecoraie. Più le femmine sanno di sudaticcio e puzzano di stallatico, più eccitano la sua libidine. Ma non disdegna neanche le nobildonne. Insomma un caprone immondo e puzzolente".
"Ho l'impressione che tu creda troppo alle chiacchiere del popolino", ribatté Giovanni con più vigore. "Mamma mi ha fatto leggere alcuni brani delle cronache di Liutprando, vescovo di Pavia, nelle quali re Ugo di Provenza è celebrato come un principe filosofo e filantropo".
Alberico scoppiò in una sonora risata. "Liutprando è stato nominato vescovo da Ugo ed è diventato il suo ciambellano e paggio di corte. Tiene bordone alle sue amanti celebrandole coi nomi vezzosi delle dee greche: Giunone, Venere, Diana e così via. Ecco chi è Liutprando. Inoltre è lo scrivano del re perché Ugo è perfettamente analfabeta, come del resto nostra madre, per non parlare della nonna Teodora, passata ancor giovanissima da donna di postribolo al rango di Senatrice ".

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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)