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domenica 10 giugno 2012

In nomine Domini 18


Quando giunse il giorno delle nozze tutta Roma vi partecipò come ad un corale festino. La nobiltà e il clero, pur con qualche perplessità, accolsero con grandi onori il re che s'avviava a Castel Sant'Angelo seguito da una piccola scorta (il grosso dell'esercito era rimasto fuori le mura). Marozia l'attendeva sfoggiando vesti imperiali. Indossava infatti una bellissima tunica color porpora, tessuta dalle abili mani di fanciulle della lontana Bisanzio, e sulla fronte cingeva un diadema tempestato di pietre preziose. Al collo le pendeva una sfavillante collana di smeraldi e due braccialetti d'oro, finemente cesellati, le cingevano i polsi. Era ancora bellissima, nonostante s'appressasse alla quarantina e qualche ruga le ricamasse il collo e il viso. Re Ugo, biondo e baffuto e dalla corporatura atletica, un po' però appesantito dagli anni, indossava una divisa militaresca più consona all'accampamento militare che a una cerimonia di nozze.
Mentre tutte le campane di Roma suonavano a stormo e il popolino - erede dell'antica plebe - rumoreggiava tripudiante e giulivo in attesa della promessa distribuzione gratuita di vino e di frumento, il giovane papa Giovanni XI, finalmente sorridente, accolse dagli sposi il fatidico sì e Marozia divenne all'istante regina d'Italia.
Nell'attesa che una seconda e altrettanto sfarzosa cerimonia, da celebrarsi nella Basilica di San Pietro, ponesse sul capo di re Ugo anche la corona imperiale e consentisse alla sua augusta consorte di fregiarsi del titolo di imperatrice - oltre che di senatrice e regina - i due nuovi sposi trascorsero la luna di miele a Castel Sant'Angelo. Tutto sembrava scorrere nel migliore dei modi, quando il carattere irascibile e manesco del sovrano, scontrandosi con quello focoso e indomabile del giovane Alberico, provocò la catastrofe.
Re Ugo era stato informato dai suoi confidenti che il figliastro aveva tentato con tutte le sue forze di ostacolare le nozze e, vendicativo com'era, aveva giurato in cuor suo di fargliela pagare. Perciò non perdeva occasione di sminuirlo e perfino di offenderlo. Tra i paggi al suo servizio c'era anche un suo bastardo, che il re aveva avuto da una lavandaia di Pavia che gli era particolarmente cara, ed egli usava nei confronti di questo giovane dei modi gentili e affabili mentre con Alberico era sempre sgarbato, irriverente e scontroso. Trovava scadente il suo servizio e spesso lo rimbrottava per questo con parole sarcastiche nelle quali metteva in risalto l'inettitudine e la pochezza dei nobili romani.
Per questo fatto nel cuore di Alberico cresceva ogni giorno più il suo odio contro il patrigno ed egli la sera lo sfogava coi giovani patrizi romani che l'incitavano alla ribellione, furibondi com'erano per il comportamento del re. E questa non tardò ad arrivare.
Di fronte ad un'ennesima provocazione, Alberico al colmo dell'esasperazione rovesciò di proposito addosso al re, seduto a tavola, una coppa di vino, imbrattandogli la ricca veste. Ad Ugo non parve vero potersi vendicare all'istante e prontamente appioppò al giovane un sonoro ceffone. Alberico lo incassò con un sorriso di scherno, poi, lentamente, altero e dignitoso uscì dalla sala.
Invano Pacomio, che aveva assistito alla scena, cercò di fermarlo e di convincerlo a chiedere scusa al re. Alberico sapeva esattamente cosa avrebbe dovuto fare e subito, senza tentennamenti, corse a cavallo a chiamare a raccolta i giovani patrizi che erano giunti ad odiare come lui l'arrogante sovrano. Costoro scesero in strada, seguiti dalle loro scorte, e con a capo Alberico s'avviarono al Colosseo. Intanto tutte le campane della città si erano messe a suonare a stormo per annunciare alla popolazione che qualcosa di grosso stava accadendo. La piazza del Colosseo si gremì ben presto della plebe romana accorsa numerosa e vociante, armata di bastoni e di zappe, pronta a menare le mani nella speranza di qualche buon saccheggio. Alberico, issatosi su un'arcata del monumento, cominciò con foga ad arringare la folla contro il barbaro re Ugo che voleva sottomettere la città alle bande straniere e ricordò alla plebaglia commossa e rapita, la grandezza degli antichi Quiriti che avevano dominato il mondo.
Fu un tripudio di grida e di popolo. Alberico giovane, bello e marziale, apparve a tutti come il salvatore della patria e portato in trionfo. Subito un'immane massa di popolo si diresse minacciosa e urlante verso Castel Sant'Angelo. Ugo la vide arrivare attraverso il ponte sul Tevere e in preda al terrore - aveva con sé solo pochi soldati - ordinò alle guardie di sbarrare tutti gl'ingressi della fortezza, e si barricò con Marozia nel sarcofago d'Adriano in attesa che l'esercito, che aveva lasciato fuori Roma, intervenisse a salvarlo.
Ma lo scaltro Alberico, preso nelle sue mani il controllo delle milizie papali, aveva ordinato loro di sbarrare tutte le porte della città e di presidiarne le mura. Il re si sentì perduto, ma essendo un guerriero audace e spavaldo, di notte tempo, mentre Marozia dormiva, con una fune si calò dalla fortezza e raggiunse a piedi il suo accampamento. Umiliato e confuso, ben consapevole che tutta Roma gli era contro, non osò attaccarla e ignominiosamente se ne tornò a Pavia dove a consolarlo trovò le solite pastorelle e lavandaie della Bassa.
Per Alberico fu il trionfo. Con la fuga del re, Castel Sant'Angelo si arrese e Marozia, snidata dal sarcofago, per ordine del figlio che ben conosceva quanto fosse pericolosa e senza scrupoli, fu imprigionata sotto stretta sorveglianza, quasi murata viva, nel vecchio palazzo Teofilatto della via Lata. Il fratellastro papa, che in violazione della legge canonica aveva celebrato le nozze incestuose della madre col cognato, fu rinchiuso a palazzo Laterano, sorvegliato a vista dalle guardie. Roma diventò una repubblica aristocratica e il papa perse il suo potere temporale, conservando le sole funzioni religiose.

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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)