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domenica 17 giugno 2012

In nomine Domini 19



Alberico, nonostante la sua giovane età - era appena diciottenne - mostrò subito eccezionali e straordinarie doti di governo. Col titolo di Principe divenne l'unico e incontrastato padrone del territorio di San Pietro e lo amministrò con saggezza, anche perché seppe circondarsi di abili consiglieri. Il più ascoltato, il più influente di essi fu il diacono Ascanio che praticamente divenne la sua eminenza grigia. Alberico non muoveva dito se prima non si era consultato con lui e le proposte innovative del diacono erano accolte con entusiasmo.
La milizia romana, non più mercenaria ma costituita da cittadini dell'Urbe, fu accuratamente addestrata a svolgere funzioni di polizia e di difesa e divenne il perno dello Stato. Anche le finanze pubbliche vennero riformate e la giustizia cessò di essere il regno dell'arbitrio per trasformarsi in un'istituzione imparziale e severa. Insomma Roma diventò una città sicura, non più travagliata da lotte intestine tra i nobili o invasa da bande di saccheggiatori e conobbe una tranquillità che le mancava da molti decenni. Ciò permise ad Alberico di respingere con fierezza i quattro tentativi di re Ugo di conquistare la città.
Il re non si era rassegnato dello scorno subito e voleva vendetta. Soprattutto defenestrare il giovane Alberico che lo aveva così potentemente umiliato di fronte ai romani e ai Signori d'Italia e gli aveva impedito di cingere la corona imperiale. Il sovrano escogitò ogni trucco per riuscire a mettere piede a Roma. Arrivò perfino a proporre al figliastro di sposare sua figlia Alda, una giovane dolce e buona avuta dalla sua prima moglie. Sperava di venire invitato alle nozze e magari, durante queste, mettere in atto un colpo maestro contro Alberico. Ma quest'ultimo, se su consiglio di Ascanio e dell'abate Odone di Cluny, accettò il matrimonio con Alda, si guardò bene di invitare Ugo alle nozze, fiutando il tranello del suocero patrigno, conoscendone la malvagità e la pericolosità.
Alla morte, piuttosto precoce, del fratellastro Giovanni XI, Alberico fece eleggere papa un monaco che godeva la fama di santo e che si occupò solo di servizi divini. Per ben ventidue anni Alberico rimase il padrone incontrastato dell'Urbe e durante tutto questo periodo la città, retta con illuminato e saggio dispotismo, rimase al riparo da tutte le bufere che mettevano a soqquadro e insanguinavano il resto dell'Italia.

E Simone, come trascorse tutto quel tempo? Dapprima, immerso totalmente nel suo compito di leggere, decifrare e tradurre gli antichi rotoli che gli erano stati assegnati, si può dire che neanche s'accorse dei grandi rivolgimenti politici che avvenivano all'esterno del suo cenobio. Adeodato e il chierico non osavano interrompere l'atmosfera ovattata e avvolta nel silenzio che circondava il monaco, nel timore di disturbare il suo lavoro e si limitavano a commentare sottovoce tra loro gli avvenimenti che si susseguivano vorticosi. Però avevano osservato, con sorpresa, la trasformazione che Simone aveva subito col passare del tempo. Infatti il monaco aveva smesso ben presto di dedicare gran parte della sua giornata alla preghiera e in compenso aveva accresciuto le pause dedicato alla meditazione. Più volte, durante il giorno, interrompeva il suo lavoro, chiudeva gli occhi e si raccoglieva in se stesso a lungo. Dava l'impressione di appisolarsi, ma non era così, perché, di tanto in tanto, emetteva lunghi sospiri e scuoteva sconsolato la testa. Ma non rivelò mai il segreto tormento che lo travagliava.
Finita la traduzione, però, che lo aveva occupato a lungo, parve ridestarsi dall'isolamento in cui si era volontariamente chiuso, e mostrò finalmente di accorgersi della presenza dei suoi assistenti e a rivolgere loro la parola, accettando volentieri di essere informato sugli avvenimenti esterni.
Ritenendo concluso l'impegno che si era assunto, Simone chiese a chi doveva consegnare i codici nei quali aveva tradotto gli antichi testi. Adeodato e il chierico si rivolsero al responsabile dell'ex-cenacolo ma costui, dopo lunghe ed infruttuose petizioni ai suoi superiori, si rese conto che essi ignoravano completamente la cosa, per il fatto che Marozia, che l'aveva disposta, viveva prigioniera, come murata viva, nel suo palazzo Teofilatto e nessun altro era al corrente delle sue disposizioni. Disse che aveva cercato di mettersi in contatto anche con le nuove autorità, specialmente col diacono Ascanio che svolgeva il ruolo di segretario del principe, ma che queste, troppo indaffarate nelle faccende di Stato sempre più incombenti, avevano risposto evasivamente che avrebbero, prima o poi, presa in esame la cosa e che nel frattempo tutto continuasse come prima.
La constatazione di trovarsi completamente ignorati dal mondo, in un primo momento suscitò in Simone e i suoi due assistenti una sgradevole sensazione di vuoto e di inutilità, ma poi, considerando che comportava un modus vivendi, sotto tutti gli aspetti, comodo e tranquillo, divenne a poco a poco una piacevole routine. Per il monaco nacque però il problema di come occupare l'enorme quantità di tempo che ora restava a sua disposizione. Per fortuna la stanza in cui Simone lavorava ed altre stanze adiacenti, contenevano un certo numero di opere latine e greche che nessuno leggeva per disinteresse o a causa dell'arretratezza culturale di quei tempi. E così Simone poté accedere ad esse con immenso suo diletto.
La lettura quotidiana degli antichi scrittori e filosofi parve rasserenare il monaco che ben presto divenne giulivo e affabile come non era mai stato prima. La frequentazione quotidiana con Adeodato si trasformò, a poco a poco, in affettuosa amicizia e così il monaco espresse al rozzo milite il desiderio di introdurlo nel mondo delle lettere. Cosa che Adeodato desiderava moltissimo.
E così, mentre Roma viveva serena e tranquilla sotto il principato di Alberico, Simone e i suoi due assistenti, superata la sensazione negativa di essere ignorati dal mondo, nell'attesa di venir finalmente scoperti da qualcuno, trascorsero molti anni sereni nella quiete assoluta del cenobio, dedicandosi con godimento sempre maggiore alla lettura dei classici greci e latini.

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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)