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domenica 15 aprile 2012

In nomine Domini 10


Allora Alberico si ricordò di aver sentito talvolta parlare in casa di un diacono che nonostante i preziosi e numerosi servigi resi al papato, aveva rifiutato la nomina di vescovo, e dopo l'assassinio di papa Giovanni X si era ritirato a vita privata, accontentandosi di un modesto appannaggio.
Alberico era al colmo della gioia perché aveva trovato finalmente chi l'avrebbe edotto sulla storia di suo padre, che bramava ardentemente di conoscere, e che gli era stata sempre sottaciuta o celata in famiglia, forse perché collegata al papa che Marozia e il suo secondo marito, Guido di Toscana, avevano fatto strangolare ritenendolo per errore un loro mortale nemico. Il racconto fu lungo e circostanziato e riempì il giovane di ammirazione e orgoglio. Alla fine il diacono concluse il suo racconto dicendo: "Se papa Giovanni X fu l'organizzatore infaticabile dell'impresa più gloriosa del secolo, che salvò Roma e gran parte d'Italia dall'invasione saracena che avrebbe potuto distruggere l'intera cristianità, fu tuo padre il vero e grande stratega militare che con sommo coraggio e intelligenza tattica, riuscì in battaglie durissime ad annientare definitivamente l'armata saracena".
Mai Alberico aveva sentito parole così superbe sul conto di suo padre, ed esse gli fecero rimpiangere il fatto di averlo perduto in tenera età e di serbare di lui solo vago un ricordo.
"Fu il suo ingresso trionfale a Roma dopo la vittoria che spinse tua madre, allora bellissima e già Senatrice, ad innamorarsi di lui col beneplacito del padre Teofilatto, padrone incontrastato della città", proseguì il diacono Ascanio, molto compiaciuto dell'entusiasmo con cui le sue parole venivano accolte dal giovane.
"E come avvenne la sua tragica fine?", chiese Alberico dopo una breve pausa. "Mamma è stata sempre molto reticente con me a questo proposito".
"È in parte avvolta nel mistero. Papa Giovanni stesso, che aveva per tuo padre un amore paterno, non riuscì mai a chiarire del tutto come avvenne l'aggressione che a tradimento procurò a tuo padre le mortali ferite che lo condussero in breve alla morte. Di certo si sa che tua madre aspirava per lui alla corona d'Italia e che questa sua ambizione, scatenando le ire di quanti bramavano la stessa investitura, forse non fu estranea alla sua immatura fine".
"E perché mamma si trasformò nella più accanita nemica di papa Giovanni X, nonostante i grandi meriti di questo papa e i forti legami che aveva con mio padre e con la sua famiglia?", chiese il giovane. "Pare che Giovanni fosse molto intimo di mia nonna Teodora".
"La loro relazione era nota a tutti i romani", ammise il diacono, con un bonario sorriso, "anche perché Teodora non faceva niente per nasconderla, anzi l'ostentava con orgoglio. Ciò infastidiva non poco il papa, che per natura era molto schivo e riservato. D'altra parte doveva a lei tutta la sua carriera. Prete sconosciuto, era stato prescelto dall'arcivescovo di Ravenna per il suo acume, la sua intelligenza e le sue doti diplomatiche, per essere inviato a Roma a dirimere presso il papa alcune controversie disciplinari. Se l'era cavata benissimo ed era entrato nelle simpatie di tutti, specie di Teodora, già Senatrice, che esercitava nella città un'influenza enorme e che era stata affascinata dalla sua forte personalità e s'era subito invaghita perdutamente di lui.
"La carriera di Giovanni, costruita nell'alcova di Teodora, fu rapidissima: vescovo di Bologna, poi arcivescovo di Ravenna e infine papa. Ma papa vero, non uno dei tanti papuncoli o pontificuli che lo hanno preceduto e seguito. Mostrò subito una tempra fortissima, sorretta da un'attività infaticabile. Io che gli sono stato a fianco per tanti anni e che ho anche conosciuto altri papi, posso affermare che è stato il più grande Pontefice del nostro secolo. Riuscire, come fece lui, ad unire in una lega comune i nobili romani e i Signori d'Italia, tra loro in perenni lotte fratricide, per l'impresa alta e nobile di salvare la cristianità dall'orda saracena, ormai giunta alle porte di Roma, è stato un autentico miracolo riconosciuto da tutti. Purtroppo mentre s'accingeva, dopo aver definitivamente sgominato i saraceni, a rafforzare lo Stato della Chiesa, ha trovato a sbarrargli la strada tua madre e il marchese Guido di Toscana, suo secondo marito. Lo scontro tra il Pontefice e Marozia scoppiò quando, dopo l'elezione di Ugo di Provenza a re d'Italia, il papa volle incontrare il nuovo eletto a Mantova per accordarsi con lui che aspirava alla corona imperiale. Il patto che fu stipulato in quell'occasione, e che io ho redatto personalmente, stabiliva che re Ugo si sarebbe recato a Roma a cingere dal Pontefice la corona imperiale e in cambio avrebbe confermato, con un diploma, tutte le donazioni concesse alla Chiesa Romana da Costantino in poi e in parte sottratte o rosicchiate dai Signori del sud. Tutto qui.
"Alcuni nobili romani, però, insinuarono a Marozia il sospetto che tra il Pontefice e il re si fosse anche stabilito un patto segreto: quello di liberare il papa dalla tutela dei Teofilatto, sempre oppressiva e pesante. A nulla valse il fatto che re Ugo fosse fratellastro di Guido e quindi cognato di Marozia. A causa di quel terribile sospetto, forse alimentato ad arte dai nemici di Ugo, esplose l'odio dei due contro il re in tutta la sua violenza e travolse anche il papa. Il quale resistette per due anni con l'aiuto di Pietro, suo fratello, capo delle milizie romane, poi fu travolto dal popolo aizzato da tua madre e dalle milizie di Guido, e rinchiuso in Castel Sant'Angelo dove finì strangolato. Nella lista dei proscritti, redatta di Guido, c'ero anch'io quale fedele servitore del papa, ma all'ultimo momento Marozia, memore della mia affettuosa amicizia con tuo padre, cancellò il mio nome e mi assegnò un modesto vitalizio. Di tanto in tanto ricevo qualche suo messo a richiedermi un consiglio scritto".
"Ed ora mia madre, nonostante la mia opposizione e quella della maggior parte della nobiltà romana, si accinge a sposare proprio quell'Ugo che allora riteneva il suo più odiato nemico", esclamò Alberico amareggiato.
"Errore che potrebbe risultarle fatale", assentì Ascanio.
"Io e mio fratello Giovanni fummo tenuti all'oscuro della morte ingiusta e crudele di papa Giovanni X", chiarì Alberico. "Infatti nostra madre ci aveva nascosti nel castello di Spoleto, appartenuto a mio padre, durante quel periodo burrascoso, e solo dopo aver attuato la sua vendetta ci aveva riportati a Roma".
"Fu un momento drammaticissimo e terribile per tutti", spiegò Ascanio. "Bande di ungari, chiamate in aiuto da Pietro, fratello del papa, seminarono ovunque il terrore, con le loro violenze e i loro saccheggi, finché non furono sterminate da Guido di Toscana. Alcuni dei risparmiati, qualche centinaio in tutto, sono ora tenuti come semi schiavi al servizio dei nobili. Tre di essi sono qui con me, assegnatimi da tua madre come difesa personale, dopo che io avevo implorato per la salvezza della loro vita".
"La convivenza con simili barbari crudeli non ti incute paura?", chiese Alberico.
"Assolutamente no", rispose il diacono sorridendo a quella domanda, che gli parve assurda. "Si comportano con me come cagnolini affettuosi e si butterebbero nel fuoco per salvarmi, se fossi in pericolo". 

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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)