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domenica 9 dicembre 2012

In nomine Domini 42


Appena l'ungaro Beda si vide davanti la milizia papale, a quell'ora di notte fonda, fu preso dal terrore per il suo padrone. Era certo che venivano ad arrestarlo per ucciderlo. Lo implorò di non seguire Cassio e le guardie. Ascanio lo tranquillizzò e si recò in Laterano. Capì che doveva prendere in mano la situazione. Per prima cosa ordinò che tutte le guardie, testimoni dell'accaduto, fossero rinchiuse nelle segrete fino ai funerali del papa. Nessuno doveva sapere dell'accaduto. Ordinò che il papa venisse subito rivestito coi suoi paramenti pontificali in modo che non si vedesse lo squarcio nella schiena e che il viso venisse ricomposto nel migliore dei modi. Ufficialmente il papa era caduto a terra, colpito da apoplessia ed era morto. Questo fatto spiegava il suo viso tumefatto. Quindi mandò a chiamare, sempre nel pieno della notte, il suo amanuense fidato e gli dettò, seduta stante, una lettera nella quale informava l'imperatore della morte improvvisa per apoplessia del pontefice, e lo implorava di accelerare il suo ingresso a Roma per procedere all'elezione del nuovo papa. Convocò il capo delle milizie papali, di stanza nel palazzo, intimandogli di controllare le mosse dei nobili più in vista e di predisporre l'ingresso delle truppe di Ottone nel modo più pacifico. Verso l'alba ritornò nel suo orto a riposare un po' e ad incaricare l'ungaro di un'importante missione.

Quando Beda lo vide arrivare pianse dalla gioia. Ascanio lo convocò subito nel suo studiolo.
"Ho bisogno di un grande e delicato servizio", gli disse senza preamboli.
"Qualsiasi cosa il mio padrone mi comanderà, io la farò anche se dovessi morire", rispose l'ungaro con la mano sul cuore.
"Appena sentirai la mia richiesta", fece Ascanio, "prenderai molta paura, ma devi fidarti di me, non ti accadrà nulla".
L'ungaro non rispose, rimase in trepida attesa.
"Devi subito cercare Saracino e condurlo da me", fece Ascanio.
L'ungaro impallidì. Sapeva che era il sicario più sanguinario di Roma, un autentico cannibale. Uccidere era la sua massima aspirazione e non indietreggiava davanti a nessun ostacolo. Odiava a morte gli ungari perché uno di essi lo aveva tradito.
"Mi ucciderà appena mi vede", disse con rassegnazione il povero Beda.
"No, fintantoché non saprà che ti manda. E appena dirai il mio nome, non ti torcerà un capello", spiegò Ascanio.
Beda partì con la morte nel cuore. Sapeva dove cercare il sicario perché la figlia di Saracino aveva sposato un soldato di origine longobarda, un tempo suo commilitone al soldo di Pietro, fratello di papa Giovanni X.
Quando bussò all'uscio sprangato di un casolare che sorgeva isolato sulla sponda destra del Tevere, vide aprirsi uno spioncino protetto da una grata di ferro e capì che un occhio lo fissava attentamente, nonostante il buio ancora pesto.
"È Beda", sentì dire da una voce dell'interno. Ci volle un bel po' prima che tutti i catenacci e le spranghe che chiudevano la porta si schiudessero. Alla fine questa s'aprì, in mezzo a mille cigolii, e apparve Agilulfo, ancora tutto assonnato.
"Ti sembra questa l'ora di far visita agli amici!" disse sbadigliando. E lo invitò ad entrare. Beda non perse tempo in convenevoli inutili e spiegò lo scopo della sua visita.
"Appena ti vede, ti ammazzerà come un cane", fece atterrita Berta, la figlia di Saracino. "Sei fortunato se non ti mangia fin che sei ancor vivo. Sai bene che ce l'ha a morte con gli ungari e finora non ne ha risparmiato uno, ch'io sappia".
"Ma quando saprà chi mi manda", disse Beda con un filo di voce, "non mi torcerà un capello".
"Se ti lascerà aprir bocca", fece Berta scuotendo il capo.
Non occorse molta strada per raggiungere la casa di Saracino. Era nei paraggi, circondata da melma e acquitrini. La figlia dovette chiamarlo con insistenza per un bel po' prima che si decidesse ad aprire. Non dormiva perché era appena rientrato da una missione, come lui chiamava le sue scorrerie o le esecuzioni su commissione. Appena dai lineamenti del volto s'avvide di avere un ungaro davanti a sé scoppiò in una macabra risata. Sembrava pregustare la sua imminente vendetta. Agilulfo lo presentò come un suo amico che aveva un importante messaggio da comunicargli.
"Non mi frega niente che sia tuo amico", rispose Saracino sferzante, "è un ungaro e basta". E preso un pugnale lo accostò alla gola di Beda. Il quale, con sua grande meraviglia, non provò alcuna paura e rimase calmo e immobile.
"Chi è il bastardo che ti manda?", chiese beffardo Saracino. "Qualche nobile effeminato che ti ha salvato dalla forca perché gli lecchi il culo?", e sghignazzò più divertito che mai.
E di fronte al silenzio di Beda: "Non ti va di rispondere eh, faccia di merda!", urlò esasperato.
"Prima toglimi quel tuo pugnale dalla gola", rispose Beda, senza mostrare la benché minima paura.
Il coraggioso comportamento dell'ungaro sorprese non poco il sicario. In quelle circostanze era il terrore che leggeva negli occhi dei suoi nemici che più lo allettava. Il suo piacere massimo infatti era portare la sua vittima smarrita ad un tremito convulso e a implorare, sbavando, la sua pietà, più che a sferrarle il colpo mortale.
"Non ho altro tempo da perdere", sbottò esasperato Saracino, senza togliere il pugnale. "Dimmi subito chi ti manda, e facciamola finita".
"Il diacono Ascanio", rispose Beda.
"Hai detto il….", e Saracino per alcuni attimi restò zitto e immobile e subito dopo tolse il pugnale dalla gola dell'ungaro.
"Dove mi aspetta, nel suo orto sull'Aventino?", riprese, fattosi subito serio e interessato.
"Sì, e al più presto possibile", concluse Beda.
"Ma guarda!", fece Berta sollevata da come si erano messe le cose ma anche stupita dal cambiamento del padre. "Chi è questo diacono che ti fa correre così in fretta al suo comando?"
"Al Garigliano", fece Saracino,"quando un ungaro maledetto mi tradì dicendo ad Alberico, marchese di Spoleto, che ero io la spia che rivelava ai saraceni le mosse dei cristiani, il diacono Ascanio mi salvò dalla forca poco prima che il boia tirasse la corda. Gli devo semplicemente la vita".
"Anche lo spione hai fatto!", mormorò Berta stupita, scoprendo un aspetto sconosciuto del padre.
"Non l'ho fatto per denaro", reagì adirato Saracino. "Era stato stregato dalla bellissima e perfida Fatima e per il suo amore era disposto a qualsiasi tradimento".
"Meno male che anche tu una volta hai avuto un cuore!", concluse Berta ridendo.

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Leo Zen vive in una cittadina del Veneto di forte tradizione cattolica e usa uno pseudonimo volendo evitare possibili disagi dal momento che scrive opere rigorose e documentate ma fortemente dissacratorie e in controtendenza. Finora ha pubblicato tre saggi: L'INVENZIONE DEL CRISTIANESIMO (Editrice Clinamen – Firenze – 2003 – 3^ed.), IL FALSO JAHVE' (Edizioni Clinamen – Firenze – 2007), LA “MALA” RELIGIONE (Editrice Uni- Service – Trento - 2009) e il romanzo storico IN NOMINE DOMINI (Prospettiva editrice – Civitavecchia - 2008)